È quasi mezzogiorno e sono al distributore pubblico di acqua per riempire qualche bottiglia. Sono arrivata tardi al lavoro e sono filata via dall’ufficio come una ladra per venire qua: l’ho lasciato sottosopra, in uno scenario post atomico di palazzi di carta rovinati a terra in mattoni di fogli sparsi ovunque. Non riesco ad arginare il tempo. Ne sono vittima, perennemente in ritardo sulla mia stessa vita. Inutile piangersi addosso: nel pomeriggio, al rientro, cercherò di sfruttare in modo produttivo le ore a disposizione. Mi dico questo, mentre mi passa avanti con prepotenza una signora che conosco di vista. Inizio a litigare, anche perché, non solo si è imbucata, ma, cosa alquanto strana, ha con sé una borsa di bottiglie da riempire che avevo lasciato a mia madre. Lei non lo ha potuto fare e, quindi, io mi sono procurata altre bottiglie e mi sono mossa da me. Come diavolo fa la signora ad avere la borsa? M’infervoro, lei reagisce non prendendomi sul serio, anzi rispondendo con frasi che sono delle prese in giro. Alzo i toni, l’apostrofo con vari “cafona, maleducata”. Che me ne frega poi di quattro bottiglie vuote? Niente. Probabilmente mia madre se le è dimenticate da qualche parte e la signora, trovandole, le ha raccolte. Tant’è che continuo imperterrita a inveire. Intanto, ho recuperato il mio posto, praticamente cacciando via a spallate l’attempata signora che, in questo caso, ha solo potuto farsi da parte. All’ennesimo mio sbotto, mi dice: «Ci tiene tanto alle sue bottiglie, signorina? Bene le riprenda pure!»
Le accartoccia con le mani e me le tira ai piedi, andandosene via impettita. Non reagisco. Quella mi ha preso alla sprovvista e, in più, sono incastrata al distributore. Ha vinto lei: io resto infuriata con la faccia rossa e tutte le possibili risposte conficcate in gola come una manciata di lische, imprecando contro la macchinetta inerme. Mi accorgo che la scuola è finita. “Così presto?” penso. Vengo circondata da orde di folletti-bambini: con un soldo di rame in una mano e una bottiglietta da mezzo litro nell’altra, attendono inquieti il loro turno. Me ne vado, lasciando le mie ultime monete al distributore: meglio che si dissetino loro, tornerò in un secondo momento. È un po’ presto per mangiare, tuttavia ormai è troppo tardi per fare qualsiasi cosa in ufficio. Mi dirigo in un ristorante, nel corso principale del paese, di cui mi hanno parlato molto bene. Fuori si presenta come un pub, ma mi hanno spiegato che preparano un’ottima cucina tradizionale. L’unica cosa che ha d’inglese è la facciata e, cioè, la vetrata e i tavoli che su essa si affacciano. All’interno la sala è grande e costellata da osceni tavoli tondi (tipo quelli di truciolato impiallacciato che andavano negli anni settanta), con tende drappeggiate in vellutino rosa antico e oro al posto delle tovaglie. Inorridisco. Al cameriere chiedo se mi posso sedere a uno dei tavoli in vetrata: il tondo rosa antico, kitsch alla nausea, non fa proprio per me. Quello mi dice che comunque non ho scelta: gli altri sono tutti prenotati.
“Oh, be’…”, penso, “Sopravvivrò a questa disgrazia.”
Superato il momento di sarcasmo mi chiedo “Prenotati da chi? È vuoto!”
Mi accomodo e scopro che dividerò il tavolo con un secondo astante sistemato dinanzi a me. “Non è un problema”, mi dico, “Mi concentrerò sul mondo fuori dalla vetrata”. Ma quello si ricorda di me, è del mio stesso paese e comincia a farmi domande alle quali io rispondo a monosillabi annoiati, nella speranza che s’arrenda e abbandoni la conversazione. Nel frattempo, sbuca un cameriere a prendere l’ordinazione: è un amico che non vedo da qualche settimana e mi stupisco nel trovarlo a lavorare in quel ristorante, poiché lo sapevo fare parte, da molto e stabilmente, dello staff di un altro noto locale giù in città. È sempre stato molto magro, ma sembra essere invecchiato e una pancia prominente si afferma dal ventre sul fisico asciutto, dichiarando orgogliosa il suo diritto di esistere, conquistato in anni di dura lotta con l’età. Scambiamo quattro chiacchiere neutre e, infine, chiedo curiosa perché si trovi lì a lavorare. Mi guarda esterrefatto, poi scoppia a ridere: «Non cambi mai te… sempre a scherzare!»
Non capisco, penso che sia lui a scherzare e che mi stia prendendo in giro: decido di lasciar cadere la conversazione, la situazione comincia ad assumere i caratteri del paradosso e io non ho voglia di perdermi dietro a discorsi sul chi si faccia burla di chi. Ordino e attendo. Il mio compagno di pranzo intanto è scomparso: il suo posto è vuoto e perfettamente rassettato. Sono solita divagare con il pensiero e perdermi nelle mie fantasticherie ma, questa volta, sono certa di essere stata presente per tutto il tempo: possibile che se ne sia andato, mentre mi parlava, vedendo che io non lo ascoltavo affatto? Per la miseria, me ne sarei accorta! Non faccio in tempo a stupirmi che vengo accerchiata dal personale di sala che si accomoda a mangiare: «Spero non le dispiaccia, signorina… Sa a fine turno io e i ragazzi mangiamo in questo tavolo… Ci piace vedere il corso e la gente che passa».
È la cuoca che si è seduta dinanzi a me e inizia a raccontarmi dell’altro ristorante che ha aperto in città.
“Fine turno?” penso sconvolta, “ma se sono arrivata pochi minuti fa e non erano nemmeno le 12 e 30!”
La signora continua a parlarmi: mi racconta di suo figlio, Ulderico. Penso che è un nome forte, da condottiero barbaro, e mi accorgo che la signora si ripiega su se stessa mentre mi parla. È più vecchia che anziana, vestita con dei tristi abiti marroncini in lana, abiti logori dai troppi lavaggi; ha una serie di escrescenze sul volto, da cui sgradevoli e arricciati peli bianchi, impertinenti, attirano la mia attenzione, mettendomi in imbarazzo per l’insistenza con cui li fisso; le mani sembrano frasche secche, e succhia il brodo dal cucchiaio rumorosamente, come se si volesse far sentire. Da piccola doveva essere questa l’idea che avevo della Befana. “Ma come fa una donna così a stare in cucina?” mi chiedo, mentre non riesco più a sentire nemmeno una delle parole che biascica. La cameriera, seduta accanto a me, mi versa della cioccolata bollita su un bicchierino da amaro, io le dico di no, grazie, che non la voglio, ma quella continua a versare il liquido fumante con una lentezza che ha del teatrale.
Vorrei gridarle: “Ma perché diavolo mi stai versando della cioccolata? Non vedi che sto mangiando una bistecca di vitello al sangue? Che sei scema?”
Faccio per allontanare il bicchierino, e, in una serie di goffi accidenti, prima sgomito la cameriera, facendole versare della cioccolata a terra e, poi, colpisco il bicchierino inondando la tovaglia. Ci alziamo tutti, chiedo scusa mortificata, quella mi dice che non c’è problema.
«Vado a prendere qualcosa per pulire, non si preoccupi».
Mi scuso di nuovo e approfitto per chiedere il conto.
«Con permesso» dico. «Vado un attimo ai servizi, se intanto mi prepara il conto…»
Lei annuisce sorridendo. La cuoca non c’è più, mi guardo intorno, mentre mi dirigo al bagno, e realizzo che anche il mio amico è scomparso, senza nemmeno essersi seduto a mangiare con i suoi colleghi né avermi salutata. Mi sciacquo il viso con acqua fredda. Il senso di disagio che mi ha presa aumenta, non capisco cosa succeda, tuttavia penso che pagherò e me ne andrò, dimenticandomi di loro e di tutto l’accaduto. Quando esco, il locale è buio e vuoto.
“Ma siamo matti?!? Che razza di scherzo è questo?”
Incredula e furibonda mi dirigo all’uscita, gridando: «Andate al diavolo tutti! Non ci vengo a cercarvi per pagare! ‘Sta candid camera fatela al prossimo sfigato che entra!»
La porta è chiusa. Provo ad aprirla con tutte le mie forze, ma non c’è verso. È scesa la notte e fuori il corso è ben lontano. Tra il paese e il locale è sorta una spiaggia, che dà su un lago buio di cui non si vede la costa opposta. Il paese è laggiù, luccica lontano e indifferente, appena s’intuisce. E anche la spiaggia si sta allontanando. Alcune persone emergono dalle acque oscure. Penso che devono essere fredde, loro sorridono contente e si scaldano al calore di un bel fuoco acceso sulla spiaggia. Li conosco, li conosco tutti, mi agito, cerco di attirare la loro attenzione, ma non hanno alcuna reazione. Provo a colpire il vetro con una sedia, che sembra gomma piuma e non ha nessun effetto sulla vetrata. Di nuovo cerco di aprire la porta principale. Mi accorgo che l’immagine riflessa non mi fa eco, anzi resta immobile in controluce a fissarmi triste.
«Che diavolo succede?!» grido in lacrime.
«Lo hai sempre saputo… tutti lo sapete… solo preferite ignorarlo…»
«Ma che? Che cosa ho sempre saputo?»
«Che ogni pasto può essere l’ultimo».
Vorrei avventarmi contro quell’immagine triste, tirarla fuori di lì, riempirla di botte – che questo di certo è un sogno e allora io devo poterla prendere a calci nel mio sogno! – ma tutto si allontana sempre di più. La luce va affievolendosi e sparendo.
Quella continua: «Dovevi finire la bistecca e assaggiare la cioccolata… era buona, sai?»
«Ma che stai dicendo? Si può sapere che stai dicendo?!?» batto forte i pugni sulla vetrina, mi faccio male. «Sei niente! Hai capito?! Solo un riflesso nel vetro! Stattene zitta!!!» le grido disperata.
«E tu? Tu cosa sei?» sussurra quella lontana.
Mi accascio al suolo, in lacrime, mentre la luce svanisce completamente e anche il mio riflesso. Rimango a terra, mi rannicchio, mi riparo la testa con le mani e piagnucolo incredula: «Io sono io… io ci sono… Sono qui, sono qui, perché non mi vedete… apritemi, sono qui… io ci sono…»
Il buio è totale. Anche il silenzio. Nemmeno il riflesso mi parla più.
Immagine di pixabay
*****
Francesca Riscaio. Appassionata di lettura e scrittura. Amo le parole, mi piace investigare su di loro. Tale passione l’ho scoperta al liceo, poi, ho cercato di coltivarla con gli studi universitari (semiotica, linguistica…). Adoro disegnare, viaggiare, ascoltare musica (sono “metallara”!), mi piace la buona cucina e preferisco il pesce di lago a quello di mare (cosa che farà inorridire i più). Copywriter per formazione, ho lavorato nel settore pubblicitario: quando entrai in crisi, seguii altre strade, senza mai abbandonare la scrittura. Così, a luglio 2015 ho pubblicato come self “Il viaggio. Volume I”, primo capitolo di una saga fantasy, Memorie di Nael, ispirata dai racconti della Terra Piatta di Tanith Lee. Presto, questo primo capitolo uscirà con editore. Al momento, sto lavorando al secondo volume della saga e ad altri progetti paralleli.
I miei contatti social: Twitter, Facebook, Google+
pittorica, ermetica… mi lascia un senso di disagio, credo legato alle emozioni che l’autrice voleva far passare. Mentre leggevo pensavo ad un effimero equilibrio, pronto ad essere destabilizzato da un qualsiasi evento.
Un sogno, un incubo o uno stato d’animo?
Grazie Francesca, è sempre un piacere leggerti!! 🙂 🙂 🙂
Grazie a te, Lucio, per aver letto il racconto! Lo apprezzo molto. E mi fa piacere sapere che ti sia piaciuto! 🙂
Complimenti!
Lettura sorprendente!
Grazie infinite per questo racconto breve, intenso, surreale e molto Riscaiano!
“Riscaiano” direi che è un termine essenziale ed esaustivo al contempo! XD Grazie mille, Erika, per avermi letta e per il tuo commento apprezzatissimo! 🙂
Il tuo stile mi ricorda quello dei classici. L’uso di virgole e la segmentazione metodica e costante tra frase principale e le relative secondarie mi fanno capire che sai muoverti molto bene a livello sintattico e ti ci diverti anche!
Il racconto mi ha ricordato Kafka, soprattutto nell’ineluttabilità del “Il Processo”.
Alla prossima!
😀 Grazie, Marco, per il commento! Sì, non so resistere alla tentazione della virgola e, sì, mi ci diverto un sacco! XD Sono molto contenta che qualche eco di Kafka si “senta”… Grazie ancora! Un saluto!
Istantaneo, vivido, diretto, riesce descrivere così efficacemente quel “disagio” che talvolta alcuni di noi si trovano ad affrontare, che lascia l’amaro in bocca, quella tachicardia che ti fa perdere letteralmente il senso del tempo, quasi a non comprendere bene se, leggendo il racconto, il tempo sia volato in un lampo, per la leggerezza con cui scorre, o se vi si è rimasti intrappolati dentro.
Complimenti, Francesca!
Grazie mille, Roberta, in primo luogo, per avermi letta e, poi, per questo commento: non sai che piacere mi fai! 🙂 Grazie ancora e ciao!
Pur non essendo un estimatore del genere ho letto con piacere il racconto, aiutato anche dalla lunghezza poco impegnativa. Se posso permettermi una piccolissima critica, avrei cercato un finale più incisivo. La prima domanda che mi sono posto dopo la lettura è stata: e quindi? Ma, probabilmente, è colpa della mia poca dimestichezza con il surreale…
Lo stile, invece, mi è piaciuto molto e sarei curioso di leggere altri pezzi dell’autrice.
Salve Massimiliano! Grazie per il tempo dedicato alla lettura del racconto e certo che puoi permetterti una critica, ci mancherebbe! 🙂 Di fatto, il finale voleva, nelle mie intenzioni, essere del tipo:
giunto al termine del racconto, giro pagina perché certamente non può finire a quel modo, invece, voltando la pagina, scopro che, sì, proprio a quel modo finisce e penso “Veramente?!”
Capisco che un epilogo del genere possa lasciare un po’… così! 🙂
Comunque, mi fa molto piacere sapere che, nonostante la perplessità circa il finale, tu sia interessato a leggere altri miei scritti! 😀
Grazie ancora per aver letto il racconto.
Un saluto.