Chissà perché questo ricordo. È molto più vivido di tanti altri e continua a vagare nei miei pensieri, come se dovesse ancora assolvere a uno di quegli obblighi che spiegano ogni cosa e decretano una lieta fine. È così poco fluida questa vicenda e forse è per questo che si ripete ciclicamente. E mai mi è capitato d’annoiarmi al rammentarla. La porta chiusa e la vetrata macchiata da quella sottile ombra scura e non si capiva cosa vi fosse di là dal vetro, ma già ero affascinato da quella sinuosa chiazza grigia e il suo movimento cauto. Poi vidi la maniglia che si spostava e lei entrò decisa. Apparve, sorrideva e illuminava.
Ci andavo spesso a quelle riunioni. Forse ero costretto, ma non ne ho la certezza. In quel periodo non sono mancato mai a nessuno degli incontri e, pur non riuscendo appieno a comprenderne lo scopo, mi forzavo nell’attenzione di ogni parola di chiunque. Attendendo l’evoluzione che mi avrebbe infine spiegato ogni cosa. Gruppo di ascolto… doveva chiamarsi così.
Lei la vidi lì per la prima e unica volta. Strinse quella maniglia e spalancò la porta, senza curarsi d’invadere un luogo che non l’attendeva e di certo non l’avrebbe neanche accolta, se solo avesse chiesto il permesso di entrare. Non lo fece. Entrò e si pose subito al centro. La osservammo infilarsi tra di noi incuriositi. La stanza era stata triste fino a quel momento; lo era stata tutte le volte che c’eravamo incontrati e lo sarebbe stata anche in seguito. Io non conoscevo nessuno e non avevo voglia di fare quel tipo di amicizie. Sì, quando ti capita di dover sorridere a forza a degli sconosciuti o partecipare a delle uscite per il solo motivo che si condivide qualcosa che spesso è imposta dagli eventi. Temevo il momento in cui qualcuno di quegli sconosciuti mi avrebbe chiesto di più, cercando di entrare nella mia vita reale o invitandomi a qualche incontro ludico, per cui avevo studiato qualsiasi cosa sembrasse interessante in quella sala. E guardavo assorto cose inutili pur di non incrociare mai lo sguardo di nessuno. Ma non c’era nulla di così stimolante lì dentro ed era arduo il compito. Stavamo in mezzo a quattro mura con delle sedie malmesse sistemate in circolo perché potessimo guardarci in faccia. E io… non ne avevo nessuna voglia. C’era una fessura in alto, accanto alla porta, e aveva la forma di un anfibio: quegli pesci che vivono nel fango delle mangrovie e ingoiano aria per resistere fuori dall’acqua per ore. Poi c’era una macchia di umido. E un piccolo foro in un angolo che sarebbe stato un degno rifugio per uno scarafaggio. Alcuni chiodi un po’ piegati. Piantati per metà sulla parete lasciavano intendere che lì, in passato, qualcuno aveva appeso dei quadri con scarsi risultati. Cose così, insomma.
Poi… poi arriva lei: Anikò.
Entra, saluta tutti e si presenta e nessuno capisce il suo nome. Io sì. Lo capii al volo. Parla Anikò, parla tantissimo e racconta le sue avventure e la sua tremenda dipendenza dal sesso che la tormenta. Ma non sembra tormentata, anzi: si diverte molto. Ok, il nostro era un gruppo d’ascolto, ma noi ci ritrovavamo per combattere il nostro problema con il fumo mentre lei ci parlava di sesso. Fatto sta che la ascoltiamo stupiti, ma continuiamo a farlo e senza dire nulla. Senza muoverci dalle nostre sedie. Non tutti. La coppia dei Ford va via dopo qualche minuto, poi Vera e, a seguire, Guido Hans.
«Non ci posso fare niente» diceva lei gonfiando e svuotando il petto a intervalli scanditi dalla fine delle frasi. «Se uno mi piace, ci devo fare l’amore… o se mi piace una… non c’è differenza» una piccola pausa, un altro sorriso delicato e brillante. «Ed è iniziato tutto da subito: avevo appena quattordici anni quando ho fatto l’amore con un benzinaio mentre mio padre prendeva un caffè. L’abbiamo fatto in macchina ma era buio. Cioè, c’era un lampione, ma non era di giorno».
Sputava le parole che si rincorrevano e quasi non se ne capiva il senso. Io ascoltavo tutto con calma e con gusto, ma lei mentiva. Lo sapevo che raccontava un sacco di frottole, ma erano belle frottole. Gli altri non sembravano gradire molto. Ma chi può dirlo. Pareva una ragazza semplice, Anikò. Aveva quegli occhi scuri e lucidi che sorridevano e dei lineamenti poco marcati che sembrava non dovessero cogliere l’attenzione di nessuno. E invece era un vulcano. Era sottile e muoveva le mani in continuazione. Raccontava le sue vicende con una tale passione che nessuno le chiese se per caso fumasse. Con naturalezza fermò d’improvviso le mani vorticose, che fino a quel momento avevano accentato d’euforia ogni finale divertente di una frase, e si costruì una sigaretta con cartina e tabacco in meno di una decina di secondi. L’accese e iniziò a fumare continuando il suo aneddoto appassionato Finalmente ci fu una reazione generale che rese quella giornata indimenticabile. In quell’istante anche gli altri, a uno a uno, andarono via scandalizzati. E rimanemmo soli. Io e lei.
«Vi dico che è così» gli squillò dietro mentre questi fuggivano. Aveva un’espressione confusa. Di certo pensava che non avessero creduto alle sue parole. «Non è mica una storia inventata!» urlò infine davanti alla porta chiusa.
«Sono da solo. Anzi, siamo soli» le dissi ridacchiando.
«Ah! Non me ne ero accorta» rise anche lei voltandosi e illuminandomi con lo sfavillio dei suoi occhi.
«Certo, non ho dubbi ma… continua. Com’era quella storia?»
«Sì, com’era?»
«Già, com’era?»
«Ok, io sono in questo bagno del ristorante. Lui mi aveva seguito».
«Il marito?»
«Sì, il marito, ma io non lo conoscevo. Al matrimonio c’ero andata con mia madre, poi vedo quest’uomo e non resisto. Io ci dovevo fare l’amore a tutti i costi» lo sentenziò aumentando il peso delle parole e gesticolando con vitalità.
«Ma lui ci è venuto in bagno?»
«Certo che è venuto».
«Ah!»
«Arriva e mi abbraccia come se fossi l’unica cosa? Cioè: donna che aspettava da tutta la vita».
«Al suo matrimonio?»
«Sì, sì. Aveva smesso di pensare alla propria sposa già dopo il primo brindisi. Secondo me si era ubriacato subito, all’inizio del banchetto. Quando gli ho detto che lo avrei aspettato in bagno, si è schizzato il vino sulla giacca» esplose in una breve risata «macchiando anche il candido vestito della sua sposina» poi si fermò di botto e pensò a quest’ultima cosa con lo sguardo perso. Come se in quell’attimo stesse vivendo la scena. Quindi sgranò gli occhi e continuò con nuova energia. «Ma ti dicevo: arriva, mi abbraccia e cerca di spogliarmi. Ma lo fermo. Non volevo togliermi tutto. Avevo già levato gli slip e mi sembrava sufficiente. Ma lui mi infila le mani dappertutto e cerca di strapparmi qualcos’altro facendomi cadere la gonna e…» fece una breve pausa. Alzò mani e parole più in alto che poteva per poi scaraventare il tutto in terra con un risultato devastante. «E poi è arrivata lei!»
«La moglie!» sbottai io ad amplificare il suo colpo di scena.
«Sì, la sposina novella» e scoppiò a ridere.
«Fantastico…»
«Già, il panico».
Ridemmo entrambi a lungo. Lei si teneva la pancia ed era chiaro che le scappasse. Non ci andò in bagno. Stette lì ad attendere che l’emozione scemasse.
«Come andò a finire?» le chiesi appena ripresi fiato.
«Mamma che botta, che botta…» anche lei respirò un paio di volte. «Allora: lei ha degli occhi di vetro pronti a esplodere in mille pezzi. Lui diventa un agnellino, china la testa e va via. Mentre le passa accanto, lei gli molla uno schiaffo dietro al collo che secondo me ancora gli rimbomba nella testa.»
«Brava!»
«E rimaniamo sole: io e lei. Lei ed io…»
«Scoppia la guerra?»
«La guerra non è niente. Io sono senza la gonna che mi sta sulle scarpe e non mi fa muovere i piedi. Invece di tirarmela su, cercò le mutandine nella borsetta e mi affanno. Non ci capisco più nulla. Lei continua a guardarmi con le braccia incrociate e lo sguardo che mi uccide. Il silenzio dura poco e qualcosa, in quella piccola prigione, lì dove siamo rinchiuse, fischia come se dovesse esplodere d’improvviso inghiottendomi».
«Poi ha parlato? Ha detto qualcosa?»
«No, parlato no. A un certo punto mi accorgo che le mutandine non sono dove le cerco e abbasso lo sguardo verso la gonna. Lei se ne accorge. Mentre io mi chino e cerco di afferrarla, lei ci mette un piede sopra e mi impedisce di tirarmela su».
«Uhm…»
«Non ha mai parlato ma urlato sì» diventò rossa in viso e i suoi occhi splendettero di nuovo. «Lei urla che… la sentono tutti in sala, di certo. Qualcosa del tipo: zoccola, puttana. Cose così, insomma. Nessuno sembrava essersi avvicinato alla porta. Nessuno cerca d’aprirla. Poi anch’io urlo» si vedeva che il ricordo le dava una piacevole emozione e si beava a transitarne attraverso. «Quanto abbiamo urlato… e per quanto tempo. Hanno aspettato che terminassimo e non ci hanno detto nulla dopo che siamo uscite. Erano tutti li ad attenderci. Nessuna parola mentre passavamo tra loro facendo finta di niente. Il matrimonio, poi, è andato avanti come se non fosse accaduto nulla.
«E tu?»
«Io?» riprese a ridere che quasi se la faceva addosso, tenendo le mani strette fra le gambe. «È stata la più bella storia di sesso della mia vita. Io e quella donna ci siamo distrutte a vicenda. Di sesso. Wow! Che botta quella tipa! Mi salta addosso e mi bacia con una tale foga che sembrava un felino affamato. Mi infila le mani fra le gambe e io vengo in un paio di minuti. Mi ha sfiancata. Io ho sfiancato lei. Abbiamo urlato in continuazione e ci siamo assaggiate, mangiate… abbiamo pianto di piacere per quanto fossimo prese. Dopo non riuscivamo più neanche a rimetterci i vestiti. Cioè, io sì. Lei non riusciva a rinfilare il suo abito. Che botta. Non l’ho più rivista ma, se l’incontro di nuovo… wow!»
Scoppiammo di nuovo a ridere all’unisono.
«Quindi, non l’hai più rivista?»
«No, no. Non l’ho più vista. Peccato».
«Già! Un vero peccato».
Con un lungo riverbero, alfine le nostre risate si chetarono per poi dissolversi completamente. Rimanemmo a guardarci senza parole né pensieri. Poi lei si accese come se qualcuno le avesse schiacciato un bottone dietro al collo.
«Ma tu?»
«Io cosa?»
«Tu non hai niente da raccontare?»
«Sei sicura che vuoi ascoltare una mia storia? Non mi sembra che tu sia la persona indicata».
«Cosa?»
«Niente, niente. Ok, ti racconto».
Mi buttai indietro sulla spalliera della sedia mentre lei, ancora in piedi, continuava a stropicciarsi il pube per non farsela addosso. La fissai alcuni secondi cercando d’immaginarmi ancora le due donne nude in quell’atto d’amore che mi aveva scosso, e volevo ancora goderne gli effetti, poi iniziai con la mia avventura, spostando lo sguardo.
«Dovevo raggiungere mia moglie. A sud. Prendo una strada secondaria e finisco in un torrente».
«Ehi! Non sei molto bravo a raccontare. Da dove inizia? Non si capisce nulla».
«Quello non è importante. Il racconto inizia in una stazione di servizio in mezzo al deserto».
«Uhm… ok, vediamo.»
«Io stavo lì con tutte e quattro le ruote distrutte. Forate. Avevo travolto dei rottami su una strada polverosa fuori dalla statale. Prima ero sceso in un torrente secco sperando di riuscire a oltrepassarlo senza danni ma… ok: stavo ad aspettare che riaprisse l’officina della stazione e non riapriva».
«Vabbè è un casino ma è già meglio. Qualcosa si capisce».
«Si avvicina questo tipo: cicciotto, lucido e abbronzato. Ha una sigaretta in bocca e mi sorride. Mi dice il suo nome con i denti serrati e gli occhietti che brillano, mostrandomene almeno tre di denti d’oro giallo. E mi chiede se voglio fumare, ma io non fumo. Poi se ne va sorridendo».
Lei mi guarda dubbiosa. Prende una sedia e dopo averla messa di fronte a me, siede e si sporge con il viso quasi a toccare il mio.
«Ma lo conoscevi?»
«No, io non lo conoscevo. Avevo già aspettato quattro ore che aprisse l’officina e nessuno sapeva dirmi nulla a riguardo. Forse non sono bravo a raccontare, ma la cosa importante è che io sono lì e aspetto con la macchina in panne. E mi annoio».
«Ok».
«E viene ’sto tipo strano».
«Ok».
«Ci penso un attimo. Lo richiamo e mi faccio offrire una sigaretta».
«Ma gli avevi detto che non fumavi…»
«Sì, e non avevo mai fumato sino ad allora, ma quel giorno ho voluto provare e…»
«Eh…»
«Sono andato fuori di testa con quella sigaretta. Ho cominciato a vagare a caso e neanche mi riusciva di camminare. Mi sembrava di non toccare terra e la testa la sentivo staccarsi dal collo e schizzare via e… sai cosa ho fatto?»
«Cosa hai fatto?»
«C’era un piccolissimo emporio nell’area della stazione. Ho comprato un pacchetto di sigarette e ho iniziato a fumarle. Una dopo l’altra».
«E non avevi mai fumato?»
«No, era la prima volta. Ma qui inizia la vera storia. Mentre aspetto e fumo, ritorna il tipo e mi dice che ha un affare da propormi. Ha quattro ruote nuove di zecca che “sono l’ideale per me” dice. Le fa lui e sono già famose in tutto il sud. “Gli pneumatici Anikò non hanno rivali”».
«Ma! Dai, il mio nome?»
«Te lo assicuro. Lui era il signor Anikò e i suoi erano “gli fantastici pneumatici Anikò.”»
«Ok, facciamo che ti credo».
«Bene».
«Li hai presi?»
«Certo che li ho presi. Non avevo la minima idea di cosa avrebbe fatto quell’officina. Cioè, se apriva, non apriva. Per quello che ne sapevo, poteva anche non aprire mai. Compro gli pneumatici e mi metto all’opera. Li monto e poi me li guardo. Penso di non aver mai visto degli pneumatici così belli».
«Ah! Ci credo, con quel nome».
«Si, si, certo, ma io li monto e poi mi vado a fare una doccia dietro allo spaccio. C’era un tubo dell’acqua. Era fredda ma ero in condizioni pessime e non potevo fare altrimenti. Mentre mi sto lavando…»
«È arrivata la cameriera?»
«No, è arrivato il signor Anikò con il vestito bianco splendente. Mi sorride con i suoi tre denti d’oro e lancia un pacchetto di sigarette quasi pieno, sui vestiti che avevo poggiato in un angolo».
«E poi?»
«Niente. Poi è andato via».
«Ma non succede nulla in questa storia».
«No, qualcosa succede, succede. Io mi vesto e parto. Inizio a far chilometri accendendo una sigaretta dopo l’altra senza neanche una pausa. Alla decima sigaretta, ce l’avevo ancora in bocca, tutti e quattro gli fantastici pneumatici Anikò esplodono».
«Oh mamma!»
«Già. Io, dopo ho visto solo il bordo della strada che mi è venuto addosso all’improvviso. Poi ho sentito un botto sotto il cofano e un altro a seguire sopra la cappotte. Infine ho udito il rullare delle ruote che mi martellavano la testa. Ho visto un vuoto che… non aveva una fine».
«Mamma mia…»
«Il fumo davanti agli occhi non mi faceva vedere e bruciava appena che li raggiungeva. Lacrimavo come un rubinetto aperto. Non penso di aver mollato quella sigaretta. Anzi, ora che me lo fai ricordare, l’ho stretta più forte fra le labbra».
«Però! E poi?»
«Tutto qua».
«Come tutto qua?»
«Uhm… la storia è finita».
«Come? È finita come? Ti sei fatto male, sei finito in ospedale… per mesi non hai…»
«No, no. Finisce così».
«Ma che storia è, che significa?»
«Beh, quel tipo, il signor Anikò, mi ha fregato. E poi tutte quelle sigarette che non avevo mai fumato…»
«Ma poi cos’è accaduto?»
«Nulla, non è successo più nulla. Sono morto. Sono morto con la sigaretta in bocca».
«Morto?»
«Certo. È per questo che vengo a questi incontri. Ah, già. Tu non lo hai mica capito che questo è un gruppo d’incontro per la lotta al vizio del fumo. E non cose che riguardano il sesso. Cioè, lottare… visto che siamo tutti morti, non è ben chiara neanche a me questa cosa della lotta».
Lei aveva smesso di parlare e sembrava fosse assorta in chissà quale dilemma. Non si stringeva più la pancia con le mani, come se la pipì se la fosse già fatta addosso, ma me ne sarei accorto. No, non aveva più quell’esigenza. In effetti, un dilemma c’era: era morta anche lei? Fanno la pipì i morti?
Io non so se lo fosse e, nel qual caso, perché. Del resto questa cosa non l’ho mai capita bene neppure io. Sapevo che gli altri del gruppo d’ascolto erano tutti deceduti, e tutti per il fumo, ma non mi sono mai chiesto se qualcuno da vivo potesse anche apparire fra noi. E ancora non lo so.
Sta di fatto che Anikò rimase interdetta per molto tempo e io, cinico, pensavo ad altro.
Se questa è veramente ossessionata dal sesso, forse oggi la serata potrebbe cambiare in meglio ma… i morti possono fare sesso?
Era ciò che pensavo, stupidamente e invano. Aspettai con calma che lei tornasse indietro dal suo sonno pieno di dilemmi, e infine la vidi sorridere, ma poco convinta.
«Ma lo sai che… perché mi racconti ’ste cose che io credo a tutto?»
Stavolta fui io a non rispondere e lei rincarò la dose continuando a sprizzare allegria.
«Allora? Vuoi davvero che io ci creda? Non sono mica così sciocca. E poi a che ti serve?»
Io non aprii bocca e lei si spaventò. Iniziò a tirar fuori cose dalla borsetta lasciandole cadere in terra come se non fossero sue o non le importasse. Fra i vari strambi oggetti che si possono trovare nella borsa di una donna, ve ne erano alcuni davvero inconsueti. Estrasse un pacchetto di palloncini da gonfiare e un pugno di foglietti mezzi accartocciati che svolazzarono, prima di adagiarsi sul pavimento. Sopra vi era scritto qualcosa. Si intravedeva appena. Nomi di personaggi famosi, mi pare. Poi tirò fuori, a fatica, un piccolo libro di barzellette. Di quelli che si comprano in edicola. Lo guardò stupita come se non fosse suo e buttò via anche quello. A seguire ne trasse un mazzo di carte da gioco, stelle filanti e coriandoli.
«Stai cercando le mutandine?» le chiesi.
«Sì, come… come lo sai?»
«No, non ti spaventare, non è magia o cose del genere. Ho pensato che forse il racconto di prima… è l’unica cosa che ricordi, vero? E stai pensando che forse anche tu sei morta?»
«Sì, è così. Sarò morta facendo l’amore? Mi ha ucciso la moglie di quel tipo? Oppure sono morta anch’io per il tabacco e… ora sono qui».
«Non lo so. Davvero, non so se sei morta. Di sicuro le mutandine non ci sono nella borsetta e magari le hai indosso».
Non ci pensò troppo, Anikò. Tirò su la gonna e si guardò le gambe come una ragazzina che scopre per la prima volta di avere qualcosa di diverso dal suo amichetto. Le aveva, le mutandine. Minuscole e ricamate con piccoli fiorellini rossi. Strette, calcavano delicate le forme del suo pube riempiendo di perversione i miei pensieri. Wow!
Non la rividi più.
Questo è forse il più bel ricordo di questa mia nuova vita, o forse l’unico che valga la pena di essere rammentato. Piacevole ma confuso e, proprio per questo, ritorna ogni volta e non si risolve lasciandomi questa sensazione allegra ed eccitante. Io, però, ho un pensiero a riguardo. Una qualche soluzione. Non credo sia stato il tabacco e neanche il sesso ad aver ucciso Anikò. La colpa, se pur c’è stata, deve essere un’altra e non credo sia davvero così importante. Magari lei a quel matrimonio ha fatto davvero ciò che mi ha raccontato e, nel caso, si sarà fatta ricordare come ora la ricordo io. Che fossero vere o no le sue storie, e il suo modo allegro di tenere su la scena, avrebbero divertito per ore chiunque si fosse fermato un attimo ad ascoltarla.
Io un pensiero a riguardo ce l’ho.
Copertina di Doctor Tale and Mister Shot
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Vincenzo Zonno, classe 1966, nasce a Brindisi ma vive a Bologna dal 1990. Ex cantante in un gruppo rock poi ballerino e regista di danza classica e contemporanea, dopo una raccolta di racconti auto prodotta, la vera pubblicazione d’esordio è Non è un vento amico romanzo storico pubblicato con Vocifuoriscena piazzatosi in seguito fra i primi cinque nel concorso Perseide officine Circe di Roma. A settembre-ottobre del 2017 pubblicherà il romanzo storico Sherlock Holmes e la grande madre per la collana Sherlockiana della Delos ed entro la fine del 2017 il romanzo Caterina per la Watson Edizioni. Ottiene una partecipazione con un racconto su RAI Radio 1 e pubblica alcuni racconti su riviste specializzate come Letture Sconclusionate, Racconti Scontati, Chronicalibri e Senzaudio.
Il racconto di Vincenzo Zonno è tra i nostri preferiti della settimana! https://italiansbookitbetter.wordpress.com/2017/10/15/una-settimana-di-racconti-6/