Prima le parole erano tante, si affollavano e non riuscivamo nemmeno a ricordarle tutte: ci raccontavamo più volte le stesse cose in modi sempre nuovi e ci dicevamo: stai un po’ zitto, lasciami pensare. Usavamo espressioni come: ti do la mia parola, oppure: tu che ne dici? Ora il verbo dire non ha più senso. Il silenzio riempie la casa e si è infilato negli angoli come l’acqua in un terreno poroso, scorre sotterraneo per uscire dove meno me lo aspetto; e quando.
Telefono a mia madre. “Ha parlato” dico “stanotte”.
“Sì?” risponde con voce distante; la cosa non la interessa più come all’inizio. “Fattene una ragione” mi aveva già detto “la storia si ripete”. Ma io non mi ero rassegnata, non potevo credere a un silenzio intenzionale. Pensavo che si fosse ritrovato come prigioniero, non solo la sua voce, ma la sua mente e la sua identità. Mia madre sosteneva che stesse cercando di farmi perdere la mia.
“E come potrebbe?” Mi toccavo mentre parlavo: il collo, il mento, la punta del naso freddo “sono una donna adulta”.
“Tutte possiamo lasciarci convincere.” Mi aveva coperta con lo scialle e aveva scaldato un po’ di brodo nel pentolino. L’odore si diffondeva nella piccola cucina dove, d’inverno, si appannavano subito i vetri.
“Stai tranquilla, ancora lo so che esisto” l’avevo rassicurata accarezzandole il dorso della mano. Le erano venute le macchioline dell’età e si vedevano le vene, la sua pelle sembrava carta di riso. “Solo non so come fare.”
Lei aveva annuito: “Non potior, non sum” aveva detto. Tutta questa saggezza, mia madre, l’aveva pagata cara, ma ormai era antica: non erano più i tempi di mio padre, e mio marito era malato. “Mutismo selettivo?” mi aveva chiesto, ironica.
Sì! Forse.
“Comunque stanotte ha parlato” dico ora “si sentivano dei rumori, lui si è alzato e io gli sono andata dietro”.
Mia madre tace.
“Erano fruscii che sembravano arrivare dai muri”.
“E?”
“E tutti e due li seguivamo da una stanza all’altra, come una traccia.” Mentre lo dico mi copro le gambe con il plaid – fa sempre freddo in questa casa – e penso ai rabdomanti, che cercano l’acqua coi bastoni. “A un certo punto lui ha detto: è come se qualcuno strisciasse dentro le pareti”.
“Era il gatto” ribatte, secca, mia madre “si era infilato in una delle nicchie, ti ho sempre detto di farle chiudere”. Si sta riferendo alle scansie che si aprono nei muri per conservare le cose, questa è una costruzione vecchia. Mia madre è convinta che siano collegate all’intercapedine e ha sempre temuto siano infestate dai topi.
“Tamburellava con le dita” continuo ostinata “e diceva al muro: chi sei?”
“Ecco” fa mia madre “lo sapevo. Ti sta convincendo.”
“Dio mio, mamma, erano due anni che non diceva una parola!”
“E se ne esce con una scemenza del genere? Meglio se continuava a tacere. Figlia mia” prosegue “te l’avevo detto che dovevi stare attenta. È una cosa subdola, avviene poco per volta, goccia a goccia.” Di nuovo acqua “Tuo padre mi picchiava, lo sai.”
“L’ho visto” rispondo col solito risentimento colpevole.
“Allora avrai visto come rialzavo la testa ogni volta e lo guardavo negli occhi, cercando di non aver paura”.
Così me la ricordo: che si tirava su dal pavimento, si lisciava la gonna, alzava il mento senza l’ombra di una lacrima.
“Eppure, tutta quella fierezza era solo una messa in scena” dice mia madre.
“Per favore, mamma.”
“Te lo ricordi il gioco che facevamo io e te? Quell’angolo del soggiorno?”
“Era nell’ingresso.”
“Dove potevo andare a non esistere quando stavo troppo male.”
“Dove potevi soffrire senza che io mi spaventassi perché le lacrime dell’angolo non esistevano veramente. Era una buona idea, molto più naturale che se ti fossi nascosta a piangere da qualche parte…”
“Quel gioco era già il sintomo!” grida mia madre “davanti ai tuoi occhi succedeva proprio quello che mi sforzavo di evitare: scomparivo. Senza nemmeno accorgermene.”
Mi colpisco la coscia con la mano chiusa una, due, tre volte per impedirmi di ricordare – l’angolo buio, mia madre con gli occhi chiusi immobile come una morta. “Non fare così, ti ho telefonato per darti una bella notizia.”
“E dovrei festeggiare che mia figlia si commuove perché suo marito ha detto un’idiozia?”
La stanchezza che mi assale è quella di una vecchia con l’età della madre di mia madre. Tornerei a coricarmi, il letto di là è ancora sfatto. Per la prima volta in due anni mio marito, stanotte, si è arrischiato nella mia metà. Ho ancora la sensazione dei suoi piedi freddi contro i miei.
“Ascolta” le dico “chiaro che era una banalità, ma significava altro. È stato” cerco le parole “come se mi avesse teso una mano. Dopo abbiamo parlato.”
“Del perché per due anni ti abbia ignorata? Ostentatamente, quasi convinceva anche me che in casa non ci fossi. Che fosse lui l’unico ad abitare là dentro. Che tu fossi in viaggio o sottoterra…”
“Del gatto” dico scacciando l’immagine di mio marito che entra con occhi vuoti e mi oltrepassa come se non mi vedesse “di come farlo uscire. Se per caso fosse finito nella casa dei vicini.” Mi infervoro, quasi mi commuovo. “Se dovessimo interpretarlo come un tentativo di fuga. E se invece che parlare del gatto stesse cercando di parlare di sé?”
“Ah già, il vostro gatto è castrato.” Il sarcasmo di mia mia madre è offensivo. Non ha mai nascosto di non amare mio marito, mentre lui l’ha sempre adorata. Ogni tanto le regalava dei fiori con nomi che lei si ostinava a sbagliare e voleva portarle dei regali quando andavamo a cena. “Questo per cosa è?” chiedeva mia madre guardando scettica una Lamp Berger, un foulard della Camerini, una volta un abat-jour della Gae Aulenti che non ha mai tolto dalla scatola. Non è mai stata una donna impressionabile dalle cose. Neppure io, in realtà, e questo, prima che smettesse di parlare, era uno dei motivi principali di contrasto con mio marito. Prendeva le rotture – la chiusura della collana di perle, il piatto da portata della lista nozze – come presagi. Diceva che l’indelicatezza verso le nostre cose era segno di mancanza di amore nei suoi confronti. Quando mi è caduto il Piguet… ma non mi va di ripensarci, non è quello che lo ha fatto smettere di parlare. Una mattina come le altre – pioggia battente, le lunch box da portare al lavoro pronte, le scarpe lasciate in ingresso sullo straccio – lui, in pigiama e non ancora rasato, si era avvicinato al vetro a guardare giù in strada e la luce grigia gli illuminava il viso che era diventato improvvisamente impassibile, come se durante la notte tutte le emozioni fossero scivolate via. La sera prima eravamo stati a un vernissage dove avevo esposto una mia tela – una soltanto – che a metà serata era stata contrassegnata dal bollino. Lui mi aveva strizzato l’occhio e il gallerista aveva pensato ne fosse l’acquirente. In realtà l’avevo comprata io. Mi era parsa una cosa da ridere: arte a mio uso e consumo. Aveva sorriso quando gliel’avevo fatto notare, avevamo i calici colmi di prosecco e mio marito, schioccando la lingua, aveva detto: “Forte.” Questa è stata l’ultima parola che ho sentito da lui. Quella notte eravamo tornati a casa sotto l’ombrello, ci eravamo infilati sotto le coperte e avevamo dormito senza fare l’amore. Dal mattino dopo tutto era cambiato: il suo viso si svuotava quando mi avvicinavo, completamente smaterializzata nel suo campo visivo. Per me c’era solo silenzio, un vuoto sterminato, un’assenza totale di espressioni.
Ma sono certa che questa notte abbia voluto chiedermi aiuto. Tirami fuori dal pozzo in cui sono caduto, qui in fondo soffro, soffro, soffro: era come se urlasse queste parole che mi sono rimbombate nel cuore. Lui voleva vedermi! Solo non ci riusciva più, come l’uomo che scambiava sua moglie per un cappello. Qualche volta può succedere, nel libro è scritto così. Potrebbe essere un fatto neurologico? Sinapsi interrotte da qualche fattore puramente meccanico? Che non centri col cuore, coi sentimenti che nutre per me, intendo.
“Quando l’ho sentito uscire stamattina” dico a mia madre “ho preso il gatto, l’ho messo nel letto, sui miei piedi nudi, sentivo la sua pancia calda, la sua pelliccia.”
“Perché non lo uccidi?”
L’animale, come se l’avesse sentita, fa un balzo silenzioso sul top della cucina e soffia con la coda ritta. “Tuo marito ti ha rosolata a puntino” continua mia madre “e ora torna. Si interroga sui problemi esistenziali del vostro gatto, se si senta intrappolato, se avverta la nostalgia dei suoi testicoli e tu vai in brodo di giuggiole. Avete fatto l’amore, stanotte?”
“No” dico allontanando il telefono. Come può mia madre chiedermi una cosa del genere? detto così sembra una cosa sordida. Erano due anni che mio marito non mi toccava. È stato come nella casa di montagna col riscaldamento spento, quando avevamo sedici anni.
“È un sintomo” dice mia madre. “La quiete improvvisa, il sollievo che diventava gratitudine, la sensazione di tornare alla luce. Sai di cosa parlo, no? Quando eravate fidanzati si faceva corteggiare, gli davi la sveglia al mattino, gli prendevi la brioche al forno. Dovevi portartelo dietro quando compravi i vestiti perché li approvasse, metteva il broncio se indossavi scarpe che non gli piacevano. Dava importanza assoluta a fatti minimi: ti ricordi che non rispondeva al telefono? E dopo giorni di ombre e silenzio ti regalava un enorme mazzo di fiori, da lasciarci lo stipendio. Uccidilo, figlia mia, prima che ti convinca. Alla fine ce la fanno sempre.”
“Mi sono sentita così sola, in questi due anni” mormoro. Ho qualcosa in gola che si gonfia di respiro in respiro.
“Lo so” dice mia madre.
“Ho cercato di essere forte, di fare appello alla mia forza interiore, alla creatività. Me lo sono ripetuto tutti i giorni: anche se non mi vede, mi ama.”
“Una volta tuo padre mi ha rotto il setto nasale” dice mia madre “ho perso talmente tanto sangue che la camicetta non è mai più tornata bianca.”
“L’amore non può spegnersi così, come una lampadina che si brucia.”
“In ospedale mi avevano suggerito di denunciarlo, ma non l’ho fatto perché pensavo fosse il suo modo di amarmi.”
Mi accorgo che le lacrime mi stanno bagnando la maglia del pigiama. Stringo le ginocchia.
“Mi aveva convinta, giorno dopo giorno” dice mia madre.
“Ma tu esistevi, io te lo potevo provare, ero tua figlia, la tua bambina. Ti buttavo le braccia al collo, non potevo stare un minuto lontana da te.”
“Tuo padre ce l’aveva fatta” sospira “alla fine ce la fanno sempre a convincerci che non siamo niente senza di loro. Ci cancellano servendosi proprio di noi.”
Io mi guardo i piedi nelle pantofole di spugna e mi sforzo di sentire tutte le dita; la seconda posizione viene bene quando sentite il mignolo, ci dicevano durante la lezione di classico. I miei mignoli, entrambi, non rispondono.
“Mamma” dico “ho paura.” Piango piano, come quando ero piccola e cercavo un angolo di casa dove la mia infelicità non sarebbe più esistita. “Non penso di potercela fare.”
“Certo che puoi, non farlo parlare. Non è più il tempo.” La mamma quando usciva dall’angolo, era di nuovo la mia mamma, appena tornata da un viaggio. Correvo ad abbracciarla e respirare il suo profumo di acqua di colonia.
“Stamattina è uscito senza voltarsi, come se in casa non ci fosse nessuno, ma nel vialetto si è voltato un attimo verso le finestre facendosi schermo con la mano” dico.
“Quando stasera torna, si sfila le scarpe, si svuota le tasche e…” Mia madre sta dicendo delle cose precise che non riesco ad afferrare. Sbatto le palpebre.
“Mamma, ho sentito qualcuno” dico alzandomi. C’è qualcosa che incombe sulla mia testa. Il pigiama è improvvisamente pesante ma è come se fossi nuda. Tremo.
“Viene dal muro.” Mi alzo strisciando le ciabatte e avvicino il viso alla parete, provo a tamburellare con le dita. “Dove sei?” dico senza lasciare il telefono. Il muro è gelido, umido.
“Forza, fallo appena viene fuori.”
Mi guardo in giro, prendo le forbici. Dentro l’intercapedine c’è la voce di mio marito, il sorriso di quando era ragazzo e correva sulle gradinate del campo sportivo a baciarmi, tutto sudato. Le sue labbra erano calde e piene, le sento come se mi baciasse ora, ma non riesco a ricordare come fossero le mie, quando mi parlava con la bocca sulla bocca. Non mi ricordo il sapore del suo fiato.
“Ricordati, non devi dargli il tempo di parlare.”
La forbice mi scivola di mano, la raccolgo ma non riesco a impugnarla bene.
“Mi senti?” sta dicendo mia madre. La sua voce diventa lontana, è sommersa dal rumore dei ricordi che si cancellano. È come il rumore di una pagina vecchia che si sbriciola. Anche i rumori del muro sono ovattati. I miei piedi si muovono da soli. Il gatto. Non sento la sua coda che si inanella attorno alle gambe. Le ciabatte di spugna oltrepassano la porta a vetri. I capelli, non li sento più sciolti nell’aria. La mano sospesa. La forbice è fredda. Due anelli di metallo attorno alle dita. Scivolano sul pavimento. Fanno toc da un altro mondo.
Mio marito entra, ha le chiavi in mano, lo sguardo stupito. Sembra lo stesso di quando segnava e rovesciava la testa all’indietro con le braccia alzate e i pungi chiusi. Poi strizzava gli occhi verso le gradinate, scorrendo tutte le facce, fino alla mia. Mi vedeva. Lo guardavo.
Lui chiude la porta; nell’ingresso le ombre si stanno allungando sul marmo bianco e nero ma la mia non c’è.
“Cos’hai?” pare che dica.
Io apro la bocca e ne esce un fiotto, un vortice di silenzio.
Vorrebbe parlare, mio marito, proprio ora che qui in casa non è rimasto nessuno.
Foto di Sara Gambolati