“Non si è mai stati realmente da nessuna parte finché non si è tornati a casa.”
Terry Pratchett, “La luce fantastica”
Il benzinaio si chinò e guardò l’uomo seduto dentro la vecchia Lancia Flavia: era un omino piccolo, magro, con due occhiali enormi e la cravatta allentata; stava ansimando. Stringeva le mani sul volante e poi le rilassava, e sudava sgocciolando dalla fronte e dal naso. Il benzinaio ascoltò quanto l’uomo aveva da dire, poi si alzò, mise le mani sui fianchi e guardò verso destra, seguendo con lo sguardo la strada che si perdeva nella campagna; infine disse:
– Mmh, beh… per la città direi che le basta andare sempre dritto per di là.
L’uomo dentro la Lancia ringraziò con un singhiozzo, mise la prima e partì lentamente, come se dovesse guidare su un’enorme lastra di ghiaccio o su un mare di uova, e guardando nello specchietto vide il benzinaio in piedi davanti alla pompa, con le mani ancora sui fianchi, che lo osservava incuriosito pensando a chissà cosa.
L’uomo dentro la Lancia si chiamava Francesco Rossi e lavorava come impiegato in un’azienda molto importante e molto famosa da cui si era assentato quel giorno di sole pallido ma cocente per andare in città a fare l’annuale visita oculistica, anche se, da dodici anni, le sue diottrie erano rimaste uguali e monotone come tutti gli altri aspetti della sua grigia vita da impiegato e da abitante della provincia. La provincia finiva là dove cominciava la statale e i cartelli stradali d’indicazione diventavano blu, portando via le auto e i guidatori come dentro un sogno. Francesco amava svegliarsi tardi la domenica mattina e alzarsi cullato dal canto degli uccelli e dal fiume sotto casa, scendere con calma fino in piazza dove gli amici di una vita, appoggiati contro le ringhiere del bar, parlavano di badanti per le madri, partite di campionato e auto nuove bevendo con lui un cappuccino caldo con il cornetto; amava comprare il giornale, passeggiare per le viuzze incontrando gli anziani e i negozianti che conosceva da sempre – perché tutti conoscevano tutti – e fare la spesa nel piccolo supermercato del paese.
Si era fermato a chiedere indicazioni al benzinaio perché mentre guidava la sua Lancia, superati da molto i cartelli a sfondo blu e ormai immerso negli sterminati campi di grano e fra i poderi, Francesco Rossi si era accorto che il piacere rilassante che provava a guidare per la campagna – mentre i vecchi mulini, le case dei contadini e i campi di grano e di papaveri passavano fuori dal finestrino – lo aveva in qualche modo tradito, perché non riconosceva il paesaggio e non aveva ancora capito le indicazioni che gli avevano dato fin ad allora. In ogni modo, anche il benzinaio fu una fermata vana, perché i campi erano ancora diversi, i poderi non erano gli stessi di prima e i pochi cartelli che incontrava a qualche bivio con stradine strette e sterrate dicevano solo “Ristorante”, “Vecchio mulino” o “Sentiero degli gnomi”. Preoccupato, spaventato e al limite di un esaurimento, Francesco Rossi decise di fare manovra e tornare nuovamente indietro. Durante l’inversione, guardando meglio la strada, non trovò differenze fra quell’asfalto e quello che conosceva, né le curve gli sembravano così diverse dalle curve a cui era abituato.
La statale tornò ben presto ad essere familiare: erano tornati i campi di grano, i mulini e i poderi sull’orizzonte, e anche le colline disegnavano il giusto profilo contro il cielo terso. L’automobile filava via veloce ai novanta all’ora, la strada era una benedizione e Francesco Rossi sorrideva ascoltando la radio che trasmetteva i successi jazz degli anni ruggenti. Fu proprio mentre la musica sottolineava una parvenza di ritrovata tranquillità che vide sulla destra un enorme lago che non gli era mai capitato di vedere prima.
Francesco Rossi rallentò, guidò rasente al guardrail per osservare lo strano fenomeno e si chiese se le piogge delle settimane precedenti non avessero per caso allagato il campo. Avanzando, passò davanti ad una piazzola di sosta dove era parcheggiato un furgoncino; davanti, c’era un tavolo pieno di roba e un uomo magrissimo e piuttosto allampanato che armeggiava con uno strano aggeggio. Francesco Rossi, essendo ormai piuttosto disperato, si fermò poco più avanti, mise le quattro frecce, spense il motore e raggiunse l’uomo.
– Mi… scusi… – disse tremando nervosamente.
– Sì? – rispose l’uomo alzando la testa e interrompendo il suo lavoro.
– I-io… beh, mi, mi sono, credo, perso, e… beh, se, se fosse così g-gentile da indicarmi la s-strada per… beh, ecco, la città…
– Ah. Si è perso…
– Sì…
– Mmh, beh, sa, non saprei cosa dirle. Insomma, la strada è tutta dritta, no?, come fa a perdersi?
– I-io… – Francesco Rossi si interruppe e abbassò lo sguardo, poi si voltò verso destra e verso sinistra, per osservare la strada che effettivamente correva dritta sia da una parte che dall’altra, senza neppure una curva, infine rialzò la testa e disse:
– B-beh…
– Comunque sia, io sono venuto da… mmh, beh, laggiù, e io vengo dalla città. Per cui, insomma, stava andando nella direzione giusta.
– A-ah…
Lo strano uomo sorrise e tornò a guardare le sue mani e il lavoro interrotto, ovvero collegare alcuni fili blu in uno strano apparecchio tondeggiante, pieno di lame e dall’aria piuttosto macabra. Francesco Rossi si chiese cosa fosse, ma siccome era in ritardo e aveva altri pensieri per la testa se ne andò ringraziando e senza fare altre domande.
La Lancia era calda, morbida e consolatoria a tutte quelle tribolazioni senza senso; Francesco Rossi guidava come fosse la prima volta dopo tanto tempo e la radio gracchiava qualche vecchio successo degli anni ’60. Ad un tratto, entrò in un’inquietante distesa di pale eoliche disseminate per tutto l’orizzonte come un esercito schierato o un enorme puntaspilli verde, guidandoci in mezzo come un pidocchio nel cuoio capelluto di qualche immensa creatura delle favole. La Lancia rallentò, si fermò e Francesco Rossi scese per guardarsi meglio intorno; mentre girava su se stesso come un ubriaco vide sul ciglio della strada a non meno di cinquecento metri un puntino nero e minuscolo, e siccome era un’irregolarità nell’irregolarità salì in auto con l’intenzione di raggiungerlo.
L’irregolarità, scoprì Francesco Rossi, era la pensilina di una fermata dell’autobus; sotto, sulla freddissima panchina di ferro, sedeva un uomo avvolto in un lungo cappotto a scacchi verde scuro e grigio con in testa un cappello in pendant, che scriveva appunti su un quaderno bianco con furia. Francesco Rossi abbassò il finestrino scricchiolando il silenzio del pomeriggio e della campagna con l’acuto fischio della manovella, e sportosi verso l’esterno disse:
– M-mi… mi scusi…
L’uomo alzò la testa dal suo quaderno e guardò prima Francesco Rossi e poi l’auto con una strana curiosità, come si domandasse cosa diavolo ci facesse lì quell’auto con dentro quell’uomo, quindi disse:
– Si?
– …
– Che c’è?
– Beh… – disse Francesco Rossi – mi domandavo… c-cioè, io devo andare in città ma… credo di, di essermi p-perso, ecco.
– Ah. Capisco. Beh, io sto aspettando l’autobus per cui… beh, la città è da quella parte, sempre dritto, lo so per certo perché appunto aspetto l’autobus che so andrà di là, cioè, lo prendo tutti i giorni proprio da qui e so che va sicuramente di là. Per cui, ecco, non può sbagliare. Sempre dritto.
– Ah… mmh, sì, però… cioè, vede, ho chiesto indicazioni poco fa ad un tizio che… anche lui mi ha detto di andare sempre dritto e… beh, ora sono arrivato qui ma, vede, io, io non conosco questa strada; cioè, vado spesso in città ma questa, questa strada proprio mi sembra di non averla mai vista.
– Le assicuro che questa strada va assolutamente in città.
– …
– Non mi crede?
– No, no, cioè, è che non la conosco proprio.
– Guardi che non è che c’è solo una strada che porta in città, eh; voglio dire, ne esistono molte altre, non crede?
– Sì, ma… cioè, dal paese da cui vengo ce n’è una sola e-
– Ne è sicuro?
– Io… io ho sempre fatto quella…
– Ecco, questo significa che se ce ne fossero state altre lei non le hai mai conosciute.
– Sì, ma… insomma, io abito lì, voglio dire, sarebbe strano, no?
– Io non abito dove abita lei, per cui non so se sia strano che non conosca le strade del suo paese. Cioè, a me sembra comunque strano, ma magari non lo è per chi vive nel suo paese.
– …
– Dico solo che magari ha preso una svolta diversa e si è ritrovato in questa nuova strada senza accorgersene.
– Può essere… Insomma, non, non ricordo che strada ho preso, in effetti, e… boh, magari ho davvero fatto una svolta diversa, così, sovrappensiero.
– Senz’altro.
– Beh, grazie, allora.
– Si figuri.
Francesco Rossi sorrise indeciso, tirò su il finestrino con l’agghiacciante urlo della manovella e ripartì più nervoso di prima e spaventato per quello che sarebbe potuto succedere.
Guidando e disperandosi, coi campi, i papaveri e i mulini che si ripetevano sempre uguali sulla strada dritta che scavalcava fiumi che non aveva mai visto e colline che gli sembravano estranee, Francesco Rossi stringeva e allentava la presa sul volante coi palmi sudati e l’impressione di essere in viaggio da giorni – anche se il sole, pallido e velato dalle nuvole, era nella stessa esatta posizione di quando era partito. Cercando di distrarsi cambiò stazione alla radio guardando le frequenze alternarsi come in una slot machine, e quando rialzò lo sguardo sulla strada vide che qualcosa non andava per niente bene: sulla sinistra, come spuntato dal nulla, comparve all’orizzonte un puntino nero che divenne ben presto un edificio di legno basso e lungo, con un enorme parcheggio davanti quasi vuoto dove posteggiò fra due Fiat come spinto da una forza misteriosa
L’interno del locale era cupo, buio e pieno di polvere; enormi ragnatele saltavano da una trave all’altra come addobbi natalizi, le sedie erano rovesciate sui tavoli e i posacenere erano sparpagliati sul bancone del bar pieno di bottiglie di amari e liquori, sul pavimento e su qualunque mobile o ripiano disponibile. Sul fondo, sopra un piccolo palcoscenico da piano bar, un tizio vestito da mariachi suonava la chitarra cantando vecchie ballate portegne senza distogliere mai lo sguardo da qualche asse del pavimento che doveva incantarlo oltre misura.
– Ah, señor, buonasera.
Francesco Rossi si girò di scatto, sorpreso e impaurito, e si trovò davanti un uomo con due baffi sottili e lunghissimi, sorridente e vestito in modo strano – Francesco Rossi non avrebbe saputo dire se gli ricordava di più un torero, un ballerino di tango o Don Diego della Vega.
– Venga, le offro un bicchiere.
– Veramente io…
– Venga, señor, venga.
Francesco Rossi seguì lo strano uomo al bancone, dove si accomodò su un altissimo sgabello di legno che traballava come un trampolo.
– Allora, señor, ¿porque está aquí?
– Ecco, io sto cercando di arrivare in città ma, vede, mi perdo di continuo. Io penso di essere malato, in qualche modo, o forse impazzito o, o entrambe le cose.
L’uomo guardò Francesco Rossi sollevando un sopracciglio e un baffo, poi, come se non avesse capito o non gli importasse nulla, bevve una lunga sorsata di vino rosso dal bicchiere che reggeva in mano; Francesco Rossi seguì la mano prendere il bicchiere riappoggiarlo, e fu solo allora che si accorse della scacchiera e della bottiglia di porto sul bancone.
– Ah!, vedo che le gustano i miei ajedrez, señor.
– Eh? Ah, sì, no, cioè, ecco, sono molto belli.
– Sa, señor, io sono imbattuto.
– Ah, interessante… ma io dovrei, ecco, se potrebbe gentilmente indicarmi la strada per la città io-
– Claro que sì, señor, claro que sì, ahah.
Lo strano uomo fece una pausa, poi disse:
– Deve sempre ir dritto. La estrada è sempre dritta.
– Sì ma…
Francesco Rossi avrebbe voluto ribattere dicendo che erano ormai mesi che proseguiva sempre dritto e che la strada era sempre dritta, ma poi si guardò intorno, vide il locale deserto ad eccezion fatta per quel tipo e l’ancor più strano mariachi. Si chiese quindi di chi fossero le poche automobili parcheggiate all’esterno, ma non trovando una risposta soddisfacente decise di lasciar perdere, ringraziò per le indicazioni e per il vino – che bevve tutto d’un sorso per non sembrare maleducato – e se ne andò.
Francesco Rossi risalì in auto e ripartì, piuttosto sconfortato e preoccupato. Ciò che gli stava succedendo non aveva il minimo senso, e nel suo mondo logico e semplice non trovava posto; del resto, la cosa più incredibile mai accaduta nel suo paese fu quando il suo amico andò in televisione e salutò tutti quelli che lo conoscevano. In ogni modo, mentre guidava pensando e diventando sempre più preoccupato ai limiti della follia, vide sulla destra il lago che aveva superato tempo prima – un anno? un mese? un giorno?
Rallentò e si fermò proprio davanti allo strano tizio, sempre indaffarato a macchinare con quello strano aggeggio.
– Ehi, lei! Ehi! – disse l’uomo alzando la testa dal suo lavoro e guardando confuso Francesco Rossi – Ma… perché è tornato indietro?
– Indietro?! Ma porca di quella puttana! Cavolo, io ho fatto come ha detto lei e guardi dove sono tornato!
– Si calmi, agitarsi non la porterà a nulla. Vediamo, io le avevo detto di proseguire per di là, no?
– Sì!
– E perché lei ora è venuto da quest’altra parte? Insomma, ha semplicemente girato in tondo.
– …
– Che c’è?
– Secondo lei non me ne accorgerei se avessi girato in tondo?! Non sono così scemo!
– Beh, io non vorrei, insomma, offenderla, ma… beh, si è perso mentre andava in città e… voglio dire, anche un bambino non si perderebbe, per cui…
– …
L’uomo sorrise velocemente e riabbassò lo sguardo sul suo lavoro.
– Mi spiega che diavolo sta facendo?
– Come? – disse senza alzare la testa.
– Quello… quello che sta facendo lì, con quei… cosi.
– Ah, questi… – disse l’uomo sempre chino sul tavolo – Sì, beh, sono sbucciatori per insalata. Qualunque tipo, di insalata, a dire il vero, dai radicchi alla valeriana. Sa, sono un inventore e… beh, sto aggiustando alcune cosette nell’oggetto che ho inventato perché con la cicoria dà ancora dei problemini.
– Sbucciatori per insalata? E poi quello scemo sarei io?
– Non le permetto di offendermi, signore. Forse è meglio se risale in auto e se ne va nella sua città o dove diavolo deve andare.
– Ma ha cominciato lei ad offendere me!
– La saluto.
– …
Francesco Rossi guardò l’inventore collegare e scollegare fili senza un’apparente logica; poi, piuttosto arrabbiato, si girò, salì in auto e ripartì, sperando che il cielo gliela mandasse buona.
La Lancia era calda, morbida e consolatoria, e la strada sembrava tornata ad essere quella di sempre, quella che conosceva bene – addirittura un enorme cartello a sfondo blu indicava che per la città mancavano solo venti chilometri (e nonostante Francesco Rossi credesse di aver perso qualche diottria, a stringere bene gli occhi immaginò di vedere già i grattacieli svettare contro il cielo terso). Fu proprio mentre i palazzoni invadevano la sua iride che la vista più bucolica e certamente più inquietante dell’edifico basso e lungo in cui aveva incontrato lo strano tipo spagnolo e il mariachi lo svegliò da quel sogno ad occhi aperti, rifacendolo precipitare in abisso interiore e senza fondo.
Il parcheggio era quasi pieno e a fatica riuscì a posteggiare la Lancia; titubante, entrò nel locale, dove fu investito da musica, grida e tremori che si propagavano su tutte le travi, sugli infissi e sulle assi del pavimento. Decine e decine di persone erano abbracciate a due a due, e con passi decisi e sensuali si conducevano l’un l’altra in un bellissimo tango argentino, sotto le mezze luci del locale e sopra le note di Gardel.
– Ah, señor, che piacere! Sono contento abbia cambiado idea e sia tornato per el tango!
– Beh, veramente io-
– Yo se che lei también balla el tango.
– No, c’è uno sbaglio, io-
– Venga, venga…
Lo strano tipo condusse Francesco Rossi al bancone, dove una donna meravigliosa dai lunghi capelli castani e dagli occhi acquamarina beveva un bicchiere di bianco su cui lasciava impronte di rossetto come ricordi di baci.
– Le presento Esmeralda, señor, la mia compagna.
– Ah… ehm… molto… piacere.
Esmeralda strinse la mano di Francesco Rossi e guardandolo dritto negli occhi sembrò quasi divorarlo – la moglie di Francesco Rossi non era certamente così sensuale anche nei movimenti e nei gesti più ovvi e naturali come quello di stringere una mano, e lui aveva visto solo nei film donne così avvenenti e senza dubbio pericolose.
– Carlos mi ha parlato molto di lei, señor…
– R-rossi. Francesco.
– Rossi. Mi dica, cosa la porta qui?
– Veramente io dovrei andare in città…
– Ah, capisco… Io adoro la città, anche se lì quasi nessuno sa ballare il tango.
– Io… io non so…
Francesco Rossi temeva di aprir bocca perché sapeva se mai una donna fosse impazzita per il suo fisico da cinquantenne con una promessa di pancia, le rughe attorno agli occhi e la polo dentro i pantaloni, sarebbero state le sue parole confuse e nevrotiche a farla fuggire; così, per cercare di sembrare sicuro di sé, cominciò a guardarsi intorno fischiettando, e girando velocemente lo sguardo notò alcune polaroid appese ad una colonna che ritraevano Carlos in un’arena, vestito da torero.
– Lei è un… torero? – disse, salvandosi dall’imbarazzo di parlare con quella meraviglia di donna.
– No. Il mio sueño era diventare un toreador!, ma poi la vita ha voluto por lo demás e ora sono il più grande ballerino di tango de todo el mundo.
– Ah.
– E sono imbattuto a scacchi. Non ho mai perdí.
– Sì, – disse Esmeralda – è un uomo molto poliedrico.
– Ho… notato.
Quando il mariachi smise di suonare e tutti i ballerini si fermarono di colpo, Carlos ed Esmeralda si guardarono negli occhi – anche se a Francesco Rossi quello sguardo sembrò più un amplesso – e dissero che toccava a loro ballare; Francesco Rossi, quindi, ne approfittò per fuggire via da quell’incubo, correndo in auto e ripartendo velocemente.
Strinse il volante e cercò di piangere, invano; stringendo la leva del cambio tentò di sbriciolarla, inutilmente; chiudendo gli occhi provò a dimenticare tutto, ma senza riuscirci; girando la chiave pensò che la strada era un labirinto, e ricordano la Settimana enigmistica e i quiz alla tivù cercò di pensare alla soluzione.
Immaginando di unire i puntini da uno a quarantadue o di colorare mentalmente solo le caselle segnate, passò davanti ad un tepee e si fermò, sempre più disperato; lentamente, scese dall’auto e si avvicinò alla tenda – la sua disperazione era acuita dal fatto che associava quel tipo di abitazione a sole due cose, cioè agli hippy e agli indiani d’America, ed entrambe le situazioni lo preoccupavano molto: gli indiani perché voleva dire essere tornati indietro nel tempo, e gli hippy per la droga e il sesso libero. Dentro la tenda, comunque, c’era un vecchio apache che sorseggiava mate da un piccolo bicchiere in ceramica.
– Mi… scusi.
L’indiano alzò lo sguardo, strinse gli occhi, guardò Francesco Rossi per un po’ come per studiarlo e poi riabbassò lo sguardo sul suo mate – che continuò a bere a piccoli sorsi.
– Mi… scusi?
L’indiano risollevò lo sguardo, guardò ancora Francesco Rossi e ancora tornò a sorseggiare il mate senza turbamenti.
– Ah, lasciamo perdere.
Francesco Rossi uscì dal tepee guardandosi intorno sconsolato – campagna, campagna e altra campagna a perdita d’occhio senza nient’altro nel raggio di chilometri e chilometri – e salì in auto, diede un ultimo sguardo alla tenda e si chiese come mai un apache o quel che era bevesse mate, ma non sapendo cosa rispondere ingranò la prima e ripartì.
Guidava già da diverso tempo – anche se il tempo aveva perso ormai ogni valore – quando si ritrovò di nuovo in mezzo alla distesa di pale eoliche e davanti alla fermata dell’autobus su cui stava seduto il solito tizio.
– Ma è ancora qui?
– Beh…
– Come ha fatto a girare in tondo se la strada è tutta dritta?
– Me lo chiedo anch’io, in effetti e… Sa, credo di stare, di stare impazzendo. Io… io non, non mi trovo più e… vorrei solo p-piangere.
– Mmh… Venga, si segga qui, vicino a me.
Francesco Rossi avanzò titubante e tremando verso la panchina di ferro, poi si lasciò andare cercando di rilassarsi.
– Sa, io al posto suo sarei già impazzito. O sarei molto preoccupato.
– Lo so. La cosa strana è che… è che…
Francesco Rossi prese un lungo respiro, poi tutto d’un fiato buttò fuori le sue angustie:
– Ho già incontrato per due volte sia lei che un ballerino di tango che un coglione che inventa cose e okay, col coglione mi sono incazzato perché l’ho incontrato due volte e pensavo mi avesse dato indicazioni sbagliate, però poi ho incontrato quel ballerino ed ero perplesso anche se poi non ho pensato più a niente perché oltre ad essere confuso lui era con una donna bellissima che mi scusi se lo dico ma era davvero gnocca, e adesso incontro lei che mi scusi se glielo dico ma mi sta anche un po’ sulle palle e non sono così arrabbiato con lei ma piuttosto insomma sono preoccupato di non essere preoccupato perché sto affrontando questo incontro con lei qui e ora e sono quasi rilassato, capisce? E questo non ha senso perché sono mesi credo che guido e quindi cazzo, forse dovrei essere almeno molto più disperato di così e impazzire del tutto!
– Ho capito poco o niente, signore, tranne che le sto sulle palle e che ha incontrato una grandissima gnocca. In ogni modo, io credo di capire che lei è preoccupato perché si è perso ma non disperato perché si è perso; cioè, a me sembra naturale, sa di essersi perso ma è anche sicuro di ritrovarsi, prima o poi, e quindi non si dispera.
– Ma io sono disperato di non ritrovarmi!
– Allora credo che stia impazzendo.
– Cosa?!
– Sì, insomma, un pazzo non sa di essere pazzo, ma anzi accetta e vive nella sua condizione come se fosse normale. Se lei fosse pazzo non lo saprebbe.
– …
– Si fidi. Io sono uno scrittore, certe cose le so.
– …
– Vede, sto scrivendo la biografia del grandissimo poeta e teatrante Robert Foster Carver, detto Larry, che ovviamente è un poeta inventato, ma non riesco comunque a trovare documenti, sa, né riesco a trovare persone che lo abbiano conosciuto. Sa, è frustrante, per cui la capisco. L’unica cosa positiva in tutto questo è che almeno ho l’incipit. Cioè, sa, siccome non sapevo come iniziare perché ogni inizio mi sembrava debole, alla fine ho deciso di cominciare in medias res. Faccia come me, quando non sa da dove cominciare un racconto, parta in medias res.
Francesco Rossi guardò per tutto il tempo lo scrittore sproloquiare sul medias res e su poeti inventanti con gli occhi spalancati e la bocca stretta in un’espressione confusa e infelice; quando lo scrittore finì si girò, gli sorrise e pensò che non esistesse davvero e che fosse solo una proiezione – lui e tutti gli altri – del suo inconscio impazzito. Quando fosse diventato pazzo non sapeva dirlo (medias res, pensò), ma capendo questo concluse che non era davvero pazzo (perché un pazzo non sa di esserlo, no?).
– Comunque ora le voglio leggere questa poesia di Larry che, voglio dire, è meravigliosa ed è in effetti l’unico suo scritto che per ora sono riuscito a trovare, e-
Francesco Rossi non sentì oltre perché salì in auto e se ne andò, cercando di svuotare la mente da quegli strani pensieri e provando a dimenticare la pazzia e tutto il resto. Dopotutto, sapeva benissimo che la mattina aveva baciato e salutato sua moglie prima di partire, sapeva benissimo cosa aveva mangiato a colazione e ricordava addirittura che la sera prima aveva visto in televisione un film di Spielberg.
Mentre guidava ascoltando la radio e cercando di cantare per distrarsi vide un cartello che indicava un bivio: da una parte la città e dall’altra un certo “Maso del cacciatore”, luogo che Francesco Rossi non aveva mai sentito; ma la cosa strana era che la strada proseguiva dritta, senza bivi, senza svolte né stradine sterrate o al massimo sentieri d’erba, solo, in mezzo alla carreggiata, c’era un vecchio con una camicia a scacchi che gli arrivava alle ginocchia e un paio di blu jeans smacchiati, sporchi e logori che agitava una vanga sopra la testa imprecando ad alta voce contro chissà chi.
– M-mi scusi…
– Chi cazzo sei te adesso porca ladra vacca della malora! Vai via!, pussa!, sciò!, scio!
Francesco Rossi si fermò e scese dall’auto.
– Si c-calmi, signore, io…
– Ho perso la mia vacca, porca puttana!
– La sua… vacca?
– Ma sì!, ma sì!, la vacca. Non mia moglie, invornito!, la vacca la mucca, l’animale!
– Non… non avevo dubitato, signore, è che-
– Ma cosa ne vuoi sapere che l’unica cosa che hai munto sarà stato il tuo uccello! Dai, togliti di lì che ho fretta!
– Volevo s-solo sapere se sa come… arrivare in città, ecco.
Il contadino smise per un attimo di brandire la vanga come fosse un’arma e si fermò, guardando Francesco Rossi come guardasse qualcuno che ha confuso una pianta di pomodori con un vitigno.
– Ma sei scemo?
– Co-come? – farfugliò Francesco Rossi confuso.
– La città è laggiù, si vede pure.
Il contadino allungò una mano verso l’orizzonte ed effettivamente, piuttosto sbiadito, tremolante e lontano, sembrava esserci proprio lo skyline della città, grigio e nero nel cielo pallido.
– Ah.
– Dai, togliti dai maroni che devo cercare la mia vacca. Sciò!, pussa via!
Il contadino si incamminò, superò il ciglio della strada e prese la via dei campi, sempre agitando la vanga come un tridente o un bastone del potere; Francesco Rossi rimase qualche secondo a guardarlo, poi si voltò verso il profilo della città e lo ritrovò ancora allo stesso posto – non era un sogno, non era pazzo –, quindi salì in auto e partì.
La strada sembrava tornata ad essere quella di sempre, quella che conosceva bene – addirittura un enorme cartello a sfondo blu indicava che per la città mancavano solo venti chilometri (a stringere bene gli occhi immaginò di vedere già i grattacieli svettare contro il cielo terso). Fu proprio mentre i palazzoni invadevano la sua iride che la vista più bucolica e certamente più inquietante dell’edifico basso e lungo in cui aveva incontrato lo strano tipo spagnolo e il mariachi lo svegliò da quel sogno ad occhi aperti, rifacendolo precipitare in una specie di abisso interiore e senza fondo. Quando vide il parcheggio quasi pieno fermò l’auto, perché qualcosa non gli tornava – era una situazione familiare, ma non ne capiva il motivo.
Entrando nel locale, fu investito da musica, grida e decine di persone abbracciate che ballavano sulle note di Gardel; sorridendo, pensò di aver appena avuto un déjà vu.
– Ah, señor, che piacere! Sono contento abbia cambiado idea e sia tornato per el tango!
– Ma-
– Yo se che lei también balla el tango.
– Aspetti, ma lei-
– Venga, venga…
Lo strano tipo condusse Francesco Rossi al bancone, dove una bellissima donna stava bevendo un bicchiere di bianco.
– Le presento Esmeralda, señor, la mia compagna.
– Cosa…
Esmeralda strinse la mano di Francesco Rossi e guardandolo dritto negli occhi sembrò quasi divorarlo – la moglie di Francesco Rossi non era così sensuale anche nei movimenti e nei gesti più ovvi e naturali.
– Carlos mi ha parlato molto di lei, señor…
– R-rossi. Francesco.
– Rossi. Mi dica, cosa la porta qui?
– Ma la città…
– Ah, capisco… Io adoro la città, anche se lì quasi nessuno sa ballare il tango.
– Io…
In quel momento il mariachi smise di suonare, e Carlos ed Esmeralda si gettarono in pista dicendo che la prossima canzone sarebbe stata la loro. Francesco Rossi ne approfittò per fuggire via da quell’incubo.
Mentre guidava – chiedendosi come mai avesse avuto l’impressione di conoscere già Esmeralda – cercò di ritrovare il profilo della città sull’orizzonte senza riuscirci, come se entrare e uscire dal locale fosse stato entrare da un mondo e uscire in un altro; le uniche cosa familiari erano il lago sulla destra che incrociò poco dopo e il solito inventore intento allo stesso lavoro probabilmente da sempre.
– Ancora lei! – disse l’inventore quando la Lancia si fermò davanti al suo banchetto con uno stridore di freni da far accapponare la pelle.
– Sì! Io! Senta!, lei è un inventore, quindi mi deve aiutare.
– Ho solo inventato questo sbucciatore di insalate, in realtà. Vede, si mette il caspio qui, si preme qui, la lama fa così e zac, taglia qui foglia per foglia e pure il fondo.
– Non basterebbe un… coltello?
– Ma che sciocchezza, col coltello si rischia di tagliarsi, ci si sporca le mani e si fa fatica; qui invece basta mettere il caspio qui, si preme qui, la lama fa così e zac, taglia qui foglia per foglia e pure il fondo. Semplice.
– …
– L’unica cosa è che costa un… beh, un po’. Sa, l’idea, l’ingegneria, la costruzione… In ogni modo, è la rivoluzione, questa, il sogno delle casalinghe e delle massaie.
– Ssì… In ogni modo io sono arrabbiatissimo con lei!, cosa sto qui a perder tempo!
– Questo dovrebbe dirmelo lei. Io sono ancora offeso per quello che mi ha detto prima.
– Ma se è lei che ha cominciato a parlare del suo alimentatore di patate!
– Insalate!, ho detto insalate!, ed è uno sbucciatore, esse-bi-u-ci-ci-atore!, non un alimentatore! Lei è un ignorante, oltre ad essere uno stupido, visto che sono ore che sta girando in tondo!
Francesco Rossi fece un passo in avanti, strinse il pugno e ribollì fino quasi a scoppiare; poi si calmò, si distese, pensò all’autoradio, a sua moglie e a tutto quello che gli stava accadendo e veloce come si era alterato tornò calmo e compassato come al suo solito, riflettendo che non era certo colpa dell’inventore se stava vivendo quella strana avventura.
– Mi… scusi. Devo… devo andare.
– Non compra neanche uno sbucciatore per la sua signora?
– Se lo infili nel culo lo sbucciatore.
Francesco Rossi risalì in auto e schiacciò il piede sull’acceleratore finché non sentì male, poi, giunto il dolore e sbollita la rabbia, riprese a guidare normalmente com’era abituato a fare quando ancora aveva una casa, una moglie e degli amici; e mentre ripercorreva l’interminabile partita di capodanno a Monopoly – in cui aveva perso perché era finito su Viale dei Giardini con un albergo – si ritrovò nuovamente in mezzo al campo di pale eoliche.
Lo scrittore vide la Lancia fermarsi proprio davanti a lui, come poco tempo prima, e tutto arrabbiato andò a picchiare sul finestrino, spaventando un già furioso Francesco Rossi.
– Che c’è!?, che c’è per l’amor del cielo!
– Io le stavo leggendo l’unico scritto che ho trovato di Larry, che in realtà ho scritto io perché Larry non esiste, e lei è andato via! È un maleducato!
– A quanto pare faccio incazzare tutti, oggi, forse sono davvero pazzo e voi siete davvero proiezioni del mio inconscio o che ne so e in realtà sono una specie di complessato autolesionista del cazzo, lei che dice?
– Io non so cos’è lei, ma di certo se io fossi una proiezione del suo inconscio preferirei ammazzarmi piuttosto che stare nel suo cervello ancora un po’!
– Ma se ne vada a fare in culo, stronzo!
Francesco Rossi ingranò la marcia e ripartì sgommando, lasciando lo scrittore solo come una sbiadita immagine di un uomo che alzava il dito medio nello specchietto retrovisore.
Mentre guidava ascoltando la radio e cercando di cantare per distrarsi vide un cartello che indicava un bivio: da una parte la città e dall’altra un certo “Maso del cacciatore”, luogo che Francesco Rossi non aveva mai sentito; ma la cosa strana era che la strada proseguiva dritta, senza bivi, senza svolte né stradine sterrate o al massimo sentieri d’erba, solo, in mezzo alla carreggiata, c’era un vecchio con una camicia a scacchi che gli arrivava alle ginocchia e un paio di blu jeans smacchiati, sporchi e logori che agitava una vanga sopra la testa imprecando ad alta voce contro chissà chi.
– M-mi scusi…
– Chi cazzo sei te adesso porca ladra vacca della malora! Vai via!, pussa!, sciò!, scio!, sparisci!
Francesco Rossi pensò di scendere dall’auto per capire meglio, ma quando il contadino lo minacciò con la vanga decise di ripartire e basta.
Chiedendosi come mai avesse la stessa sensazione di quando si guarda un film senza ricordarsi si averlo già visto, passò davanti ad un tepee e si fermò, sempre più disperato; lentamente, scese dall’auto e si avvicinò alla tenda – la sua disperazione era aggravata dal fatto che associava quel tipo di abitazione a sole due cose, cioè agli hippy e agli indiani, ed entrambe gli scenari lo preoccupavano parecchio: gli indiani perché al cinema erano sempre cattivi, e gli hippy per la droga. Magari, si disse, avrebbe potuto prendere qualche funghetto o una pasticca o due, perché cominciare a vedere i draghi o il cielo squarciarsi in due non poteva peggiorare di molto la situazione. Dentro la tenda, comunque, c’era un vecchio apache che sorseggiava mate da un piccolo bicchiere in ceramica.
– Mi… scusi.
L’indiano alzò lo sguardo, strinse gli occhi, guardò Francesco Rossi per un po’ come per studiarlo e poi riabbassò lo sguardo sul suo mate – che continuò a bere a piccoli sorsi.
– Mi… scusi?
L’indiano risollevò lo sguardo, guardò ancora Francesco Rossi e ancora tornò a sorseggiare il mate senza turbamenti.
– Ah, lasciamo perdere.
Mentre Francesco Rossi procedeva tranquillamente, entrò senza accorgersene in un campo di pale eoliche. Fra quei giganti bianchi, l’unica nota nera era un minuscolo puntino all’orizzonte.
Il puntino, scoprì Francesco Rossi raggiungendolo, era una fermata dell’autobus. Sulla freddissima panchina di ferro sedeva un uomo avvolto in un lungo cappotto a scacchi, che scriveva appunti su un quaderno bianco con tranquillità. Francesco Rossi abbassò il finestrino scricchiolando il silenzio del pomeriggio e della campagna con l’acuto fischio della manovella, e sportosi verso l’esterno disse:
– M-mi… mi scusi…
L’uomo alzò la testa dal suo quaderno e guardò Francesco Rossi, poi disse:
– Si?
– …
– Che c’è?
– Beh… – disse Francesco Rossi – mi domandavo… c-cioè, io devo andare in città ma… credo di, di essermi p-perso, ecco.
– Ah. Capisco. Beh, io sto aspettando l’autobus per cui… beh, la città è da quella parte.
– Ah… mmh, sì, però… cioè… È sicuro?
– Assolutamente.
– Davvero? Perché io-
– Se le dico che sono sicuro, lo sono. Prendo questo autobus tutti i giorni, e tutti i giorni l’autobus va da quella parte, in città.
– D-d’accordo, allora. Grazie, grazie mille.
– Si figuri.
Francesco Rossi sorrise indeciso, tirò su il finestrino con l’agghiacciante urlo della manovella e ripartì più nervoso e più spaventato di prima per quello che sarebbe potuto succedere ora che gli sembrava di girare e girare dentro la centrifuga di una lavatrice, come quando da bambino lo bendavano e lo facevano roteare per fargli rompere la pignatta, o come se stesse subendo un’inquietante tortura psichica fatta di déjà vu in serie ritmati e ripetuti. Mentre pensava che la cosa più strana e paurosa era in effetti quella di non comprendere gli avvenimenti di cui era protagonista, si disse che la sua preoccupazione era diventata forse rassegnazione e che la follia lo aveva preso senza dirglielo – e lui l’aveva abbracciata senza volerlo, come stringendo Esmeralda a sé (ma chi era Esmeralda, già?).
Pensando che non avrebbe mai visto la città, che avrebbe per sempre girovagato per una campagna che sembrava inventata o frutto di un sogno dal quale presto si sarebbe svegliato – anche se il tempo all’interno dei sogni può durare per sempre –, Francesco Rossi vide sul ciglio della strada un benzinaio, ed esausto, stanco, nervoso e forse pazzo si fermò per chiedere l’ennesima e inutile indicazione.
Il benzinaio si chinò e guardò l’uomo seduto dentro la vecchia Lancia Flavia: era un omino piccolo, magro, con due occhiali enormi e la cravatta allentata; stava ansimando, stringeva le mani sul volante e poi le rilassava – facendole scorrere in basso e strisciandole sui pantaloni – e sudava sgocciolando dalla fronte e dal naso. Il benzinaio ascoltò quanto l’uomo aveva da dire, poi si alzò, mise le mani sui fianchi e guardò verso destra, seguendo con lo sguardo la strada che si perdeva nella campagna; infine disse:
– Mmh, beh… per la città direi che le basta andare sempre dritto per di là.
L’uomo dentro la Lancia ringraziò con un singhiozzo, mise la prima e partì lentamente, come se dovesse guidare su un’enorme lastra di ghiaccio o su un mare di uova, e guardando nello specchietto vide il benzinaio in piedi davanti alla pompa, con le mani ancora sui fianchi, che lo osservava incuriosito pensando a chissà cosa.
Copertina e racconto di Alessandro Mambelli
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Alessandro Mambelli nasce a Cesena nel 1997. Dopo aver frequentato il liceo scientifico capisce che la sua vera vocazione è un’altra, così comincia a scrivere e a frequentare Lettere Moderne a Bologna. Dopo alcune auto-pubblicazioni e comparse su antologie di concorsi letterari, nel 2018 pubblica per i tipi di Geekoeditor il suo primo romanzo breve, Sunset Strip, e poi poesie e racconti sulle riviste Alibi, Narrandom, Rapsodia, Globusmag, Spore, ROA, Digressioni, Offline, Comò Mag, Schegge e Whiri Whiri.