Un racconto di Riccardo Meozzi

Věřící

Io ho paura. Son tempi duri e io ho paura, ma continuo a proteggere la statua. Nessuno vuole ammettere che sono tempi duri, ma uno come me queste cose le sente prima degli altri; io non ho nessuno a cui badare, nessuno che mi distragga, e per questo so per certo che sono tempi duri. Gli uomini muoiono come insetti, diceva papà puntando il dito verso il ritratto del Padre dei Popoli, che anche se lercio era la cosa più preziosa della casa; il papà picchiava la mamma se lei non lo spolverava per primo. Il ritratto era bellissimo. Lo amavo come pensavo non avrei amato altro, ma quando mi hanno assunto al museo l’ho subito tradito con la statua. Grigia, lei se ne sta all’ingresso e accoglie tutti come soltanto il Padre dei Popoli potrebbe fare. Ha una mano poggiata sul petto, sul suo cuore colmo d’amore per le genti del Caucaso e della Siberia, e tiene gli occhi puntati sul visitatore facendolo sentire il membro più importante di tutto il Soviet. È la statua di un uomo morto che però pare ancora vivo e che sempre lo sarà nelle nostre vite, volenti o nolenti che siamo, anche in questo paese che non lo vuole più e che si vuole liberare della Grande Madre. Sono tempi duri, dicevo, e io temo per la statua. Se tutti fossero věřící come me non dovrei proteggerla, ma so che la gente sobilla e sputa per terra quando sente il nome del Padre e lo chiama schiavista e assassino e io incurvo le spalle e tremo per la tristezza e la rabbia.
Dalla mia cabina la osservo in ogni momento. Prendo i soldi, stacco un biglietto, saluto cordialmente, e non appena il visitatore entra nella prima stanza io torno a rimirare la statua e la accarezzo con le pupille. Se vengono famiglie con bambini in età scolare mi permetto di parlare. Emozionato di fronte alla loro piccola statura, all’entusiasmo puro e grondante che so essere in loro, dico «Quella è la statua di Stalin, il capo supremo dei Soviet e nostro salvatore». Ma non lo faccio sempre, e ormai succede che non mi espongo quasi più; i genitori afferrano le mani ai figli e si tengono alla larga dalla statua perché, mi pare, se le andassero vicino sarebbe soltanto per buttarla giù. E io ho paura. Così la sorveglio, le tengo gli occhi addosso e noto ogni piccolo movimento che avviene intorno a lei. Gli altri mi prendono in giro. C’è una guardia notturna che, quando esco dal museo e torno a casa, mi ferma sulla porta d’ingresso.
«L’hai baciato?»
Io provo a scansarmi, ma la verità è che sono troppo magro e basso e non ho la forza. La guardia alza un braccio e si appoggia allo stipite.
«Hai sentito se ha l’uccello? Lo so che quando non ti vede nessuno allunghi una mano per toccarglielo. Eh, Beránek, glielo tocchi e lo chiami “papà”?»
A casa, poi, piango. Piango talmente tanto che temo che le mie quattro pareti, l’unica stanza dove mangio e dormo, possano prima o poi allagarsi e io affogare. Sarebbe una bella morte, però, una morte degna della storia comunista di questo paese che vent’anni fa il Padre ha redento e che adesso invece è ricolma di delatori e gente ingrata. Io però proteggo la statua, e piango soltanto in casa mia perché di giorno, al museo, devo essere forte e riuscire a guardarla senza tremare, a testa alta, come colui che ci ha condotti sulla via della liberazione dall’immondezzaio occidentale. Gli altri possono tradire, io no. Ma è dura, durissima, e io ho paura.
Faccio un sogno ricorrente. Nel sogno attraverso Piazza San Venceslao per dirigermi al museo nazionale. L’aria è dapprima immota, poi si agita per via di forte vento che spira da nord e io arranco con sempre più difficoltà. Devo raggiungere la statua del Padre a ogni costo. Gli altri intorno a me invece continuano a camminare come se niente fosse, e non appena si accorgono della mia difficoltà iniziano a sputarmi addosso. Bagnato della saliva dei delatori, infine, entro nel museo. La statua del Padre è lì e io mi commuovo nel vederla, finalmente ricompensato dei miei sforzi, e decido di toccarla anche se non l’ho mai fatto per timore e reverenza. Ma quando le mie dita stanno per accarezzarla la statua si incendia; le fiamme crepitano sulla pietra e ne spaccano il volto e ne anneriscono il petto. Ai miei piedi rotola, bruciante, un pezzo di testa. Scoppio a piangere, mentre tutti i miei colleghi mi si affollano intorno e iniziano a ululare e a ballare come se fossero a un matrimonio.
Dal sogno mi sveglio piangendo, come stamattina, quando la disperazione è stata così tanta che sono riuscito a smettere soltanto premendo la faccia sul cuscino e stringendomi la gola. Dicevo il suo nome, il nome del Padre, e dicevo anche perdonaci perdonaci perdonaci, non siamo degni. Quando mi sono calmato, mi sono vestito e sono uscito. In corridoio, nel budello che ogni giorno devo percorrere per scansare i delatori, ho incontrato la vecchia Svoboda. Stava spazzando. Ha alzato gli occhi verso di me, e non ho fatto in tempo a passarle accanto che mi ha colpito due volte, tre, cinque, e io sono inciampato e lei ha infierito un altro po’. I suoi colpi hanno riacceso le braci del pianto.
«Sporco traditore», ha detto, «lo sento che piangi ogni mattina per quel maiale invasore che ci fa vivere queste vite di merda. Che uomo sei? Eh, che uomo sei? Tutti i miei figli son morti per lui, tutti».
Ha continuato a picchiarmi finché il fiato non le si è spezzato. Al primo rantolo mi sono trascinato sui gomiti, e al secondo sono scattato in piedi. Sono corso via; dietro di me, urla e bestemmie. In strada ho preso due grandi respiri e mi sono appoggiato a un muro. Ho tentato di calmarmi, ma al posto della pace che si dovrebbe respirare nei vicoli di questa città, ho sentito il cuore accartocciarsi. Mi sono messo a correre, certo che quello era il giorno in cui tutto sarebbe crollato. Le persone, vedendomi, si sono fatte da parte, e più ne superavo più pensavo che se avessero conosciuto il motivo di tanta fretta mi avrebbero atterrato e mi avrebbero divelto la pelle. Ingrati, ingrati bastardi che non hanno nient’altro da fare che sparare a vista su tutto ciò che di buono è stato fatto in questo paese per mano sua e per volontà di tutti quelli come me, che ogni giorno si prostrano di fronte alle statue e ne traggono la forza per andare avanti.
Sono arrivato al museo in ritardo. La corsa non è servita a nulla e, quando ne ho varcato le soglie, la guardia che smontava dal turno di notte mi ha riso in faccia. Sudato, ho preso posto dietro alla biglietteria aspettandomi il peggio. Ma non è arrivato subito. Si è fatto attendere, e pure molto. Ha lasciato che mi calmassi, che iniziassi a pensare all’incubo come a una fantasia, quando la mia povera mamma mi ha sempre detto che gli incubi esistono, me che stanno bene attenti a non farsi vedere se non quando possono vincere e dominare tutto. Ecco, solo nel momento in cui è arrivata quella calma, quel vuoto che per un attimo non mi ha fatto più avere paura, ho sentito il primo urlo.
Femminile, ha aperto l’aria più delle parole che ne sono seguite, di quella serie di no, no, smetti, non lo fare, che adesso, fra le lacrime, mi chiedo come sia stato possibile che quella donna abbia subito compreso tutto. Le grida venivano da fuori. Ho alzato gli occhi dall’orologio: erano passate sei ore dal mio ingresso, e come tutti sono uscito dal museo.
Il ragazzo era in fondo alla scalinata e guardava dritto di fronte a sé. Accanto aveva una tanica bianca e lui brillava, i capelli tutti schiacciati sul capo e i vestiti zuppi a mettere in evidenza la sua giovinezza. Siamo rimasti tutti in attesa, tutti fermi, annichiliti dalla sua calma. Poi, dalla tasca, ha preso un minuscolo accendino. Ce l’ha mostrato, poi l’ha osservato con cura e infine, in silenzio, lo ha fatto scattare. Soltanto allora si è messo a urlare, e io con lui, che sapevo che questo giorno sarebbe arrivato ma che pensavo di avere ancora tempo. Sono corso dentro, e per la prima volta ho abbracciato la statua del Padre dei popoli. Mi è parsa rovente, ma ho continuato a stringerla pregando che mi prendesse con sé, che il suo fuoco mangiasse anche la mia carne.
Dicono che il ragazzo è sopravvissuto, che è in ospedale. Jan, questo è il suo nome. Molti credono che morirà, ma io spero di no, spero che quella carne nera e immonda divenga la sua forma mortale e che sia costretto a portarla in giro sotto il disgusto di tutti gli altri. No, Il ragazzo non morirà, perché se lo farà allora anche il Padre dei Popoli, colui che ci ha dato la vita, morirà con lui, e l’incubo diventerà reale e su questa terra non ci sarà più spazio per gli uomini come me.
È innaturale che i padri sopravvivano ai figli.
Io ho paura.

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Racconto di Riccardo Meozzi. 1994, è nato a Città di Castello, in Umbria. Vive fra Bologna e la città natale. Ha pubblicato racconti su Verde Rivista, Crapula Club, Pastrengo rivista e agenzia letteraria, Narrandom, Tre Racconti, Malgrado le Mosche, Spazi Inclusi, In fuga dalla bocciofila, Grado Zero. Ha una rubrica narrativa intitolata “Tutte le mie vite” su Il loggione letterario. Nel 2019 il vincitore del Premio Letterario dell’Unione Europea Giovanni Dozzini lo ha inserito nell’antologia “A casa nostra, lontano da casa”, pubblicata da Aguaplano libri. È stato ospite dell’edizione 2019 di CaLibro Festival.

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