Novemila anni prima della nascita di Cristo, centinaia di migliaia di persone lasciarono i loro villaggi e si raccolsero a Babilonia. Pastori, contadini e pescatori, illusi dalle promesse di una nuova economia fondata sul baratto, affollarono la prima metropoli della storia. Una città che, appena sorta, era già morente. I suoi vicoli, dopo il tramonto, brulicavano di prostitute e rapinatori; le merci più richieste erano alcolici e armi di ossidiana.
Senza la ruota né la scrittura, privi di qualunque forma di organizzazione sociale, gli abitanti di Babilonia non potevano sapere che il Mar Nero, da lì a pochi anni, incalzato da piogge incessanti e dai frequenti terremoti, avrebbe sommerso la loro civiltà cancellandone per sempre il ricordo. Non lo sapevano ma forse, anche se lo avessero saputo, nulla sarebbe cambiato.
La poca luce filtrava nella stanza attraverso le crepe nella roccia. I suoni di Babilonia giungevano attutiti, come se le mercanzie e le spezie fossero vendute in lontananza, in una qualunque delle tante, inutili, cittadine del nord; e il chiacchiericcio e lo scalpitio degli zoccoli fosse quello di popoli distanti e sconosciuti. Invece la stanza era scavata proprio sotto l’Empureo, il palazzo più imponente e impenetrabile della città vecchia, e l’uomo steso a terra, sanguinante, era Marduk.
Marduk il leggendario, avrebbe detto lui; Marduk il truffatore, avrebbero risposto in molti.
“Cosa sa Astarte di preciso?” chiese l’uomo in piedi. Indossava una tunica di lino pregiato, tinta nella porpora, e impugnava un bastoncino di legno stagionato. Lo faceva girare tra le dita, senza guardarlo. Teneva gli occhi fissi su Marduk e non erano occhi amichevoli.
“Dimmi cosa sa Astarte” disse, “oppure sai già come finisce”.
Marduk sorrise, di un sorriso ebete, con le palpebre socchiuse e i denti marci bene in vista. L’uomo gli prese di scatto la mano destra, infilò il bastoncino sotto il dito medio, e spinse. L’osso della falange si spezzò con un rumore grave e il dito si piegò, a penzoloni, come gli altri accanto a lui, rotti nello stesso modo. Marduk si guardò la mano, un accrocchio di ossa disordinate, la mosse facendo sbatacchiare le dita una contro l’altra, come zampe di un granchio morto. Sembrava quasi divertito.
“Mikail, sei proprio un idiota” disse una voce dall’ingresso. Anche l’uomo che aveva parlato, appoggiato allo stipite, indossava una tunica di lino, ma tinta di azzurro con pigmenti pregiati. “Non vedi che è insensibile al dolore? Di sicuro Astarte gli ha fatto bere qualche intruglio. Se tu avessi ascoltato, quando nostro padre ci insegnava come usare le erbe, lo capiresti. Astarte, se ti ricordi, invece ascoltava, e imparava…”
“Ah sì? Vediamo allora cosa sai fare tu. Vieni Jibril, vieni. O hai paura di sporcarti le mani?”
Jibril scattò dallo stipite muovendo anca e schiena, raggiunse il tavolo e infilò le mani in tasca.
“Adesso vedrai, stupido idiota”. Si mise a lavorare alcune erbe sulla tavolata in legno. “Aprigli la bocca, così capirai finalmente che i miei metodi funzionano e i tuoi no. E sai perché?”
Mikail afferrò Marduk per il collo sudato, col pollice gli divaricò le mascelle.
“No, fratello, dimmi perché?”
Jibril sorrise mentre finiva di lavorare le erbe sfruttando il calore del palmo della mano.
“Perché sei uno stupido idiota” disse poi, e spinse il composto nella bocca di Marduk. “Deve buttarla giù, e fra cinque minuti gli possiamo chiedere quello che vogliamo. Ecco come si fa. Un lavoro pulito ed efficace”.
Mikail non commentò, lasciò cadere il prigioniero a terra e si guardò attorno. Le lame di luce, dopo aver penetrato la stanza, tagliavano lo sporco in sospensione: il sole era alto sopra Babilonia e l’aria, nel buio della cella, sembrava una zuppa impolverata.
“Ho fame, quando possiamo cominciare?” chiese Mikail dopo un’attesa silenziosa, che era sembrata più lunga di quanto fosse durata in realtà.
Jibril prese la testa di Marduk, gli aprì le palpebre con due dita. “È pronto” disse, poi lo schiaffeggiò sulle tempie.
Marduk aprì gli occhi e sorrise, di un sorriso più ebete del solito.
“Dicci quello che sai!” gridò Mikail.
Jibril sbuffò e si voltò lento verso il fratello. “Posso fare io?” chiese, e restò in attesa. Mikail non rispose subito, valutava la situazione. “D’accordo” disse alla fine, e si posizionò dove era prima suo fratello.
“Bene” disse Jibril. Poi prese la testa di Marduk e la appoggiò alla parete umida. “Ascoltami attentamente, tu adesso mi devi raccontare tutto quello che sai del metallo misterioso. Comincia dall’inizio. Quand’è che Astarte ha scoperto della sua esistenza?”
Marduk, con gli occhi socchiusi e un sorriso innaturale, iniziò a parlare.
“Astarte mi aveva già rivelato del metallo misterioso. Era prima della scorsa semina, quando le pecore dei pastori avevano ancora il pelo lungo. Stavamo giù alla locanda di Lot a bere fermentato di datteri e spiluccare pezzi di montone sotto sale. La situazione era tranquilla. Astarte aveva bevuto parecchio, ma non più del solito, quando è entrato un forestiero. Ha ordinato cavallo stufato, ed è per quello che ha attirato l’attenzione. Nessuno mangia il cavallo da Lot. Tutti sanno che li raccatta nel bosco dopo che sono morti di vecchiaia, e infatti la carne era talmente dura che il forestiero ha dovuto estrarre il pugnale per tagliarla. Lo guardavamo tutti, per goderci la scena, se capite, perché non era detto che riuscisse a spezzettarla nemmeno così. Magari con l’ossidiana ci sarebbe riuscito, ma quello aveva un pugnale di metallo, era uno messo bene, ed è così che ho visto la lama. Era di un colore strano, simile alla luna grigia, anche Astarte l’ha notata, ed è scattato in piedi, aveva gli occhi infiammati, si percepiva nell’aria lo scontro imminente. Ma poi quel forestiero si è sputato sulla mano, l’ha passata sul pugnale, e la lama pulita si è mostrata per quello che era: semplice rame. Astarte è tornato seduto, come nulla fosse, e ha ricominciato a bere il fermentato. Ma io avevo notato la sua reazione e insistendo un po’ mi sono fatto raccontare cosa c’era dietro. Mi disse che molto tempo addietro, quando suo padre era ancora vivo, aveva camminato varie lune verso il levante, fino a giungere presso un popolo di uomini piccoli e timidi, gli occhi privi di espressione, i capelli fini fini e neri e lucenti, come le schegge fredde che restano attaccate al legno dopo un incendio. Era un popolo pacifico di contadini, al quale interessava solo coltivare un grano particolare, che cresceva sott’acqua; ma quegli uomini possedevano attrezzi che Astarte non aveva mai visto prima, attrezzi che non si sbeccavano con l’urto della pietra. Gli anziani raccontarono ad Astarte una storia: molte stagioni prima che il più vecchio di loro fosse ancora nato, una stella era caduta dal cielo, e gli avi di quel popolo, seguendo la scia di luce, avevano trovato un blocco di metallo duro e pesante. Era quasi impossibile da lavorare, ma con fatica e ingegno erano riusciti a costruire zappe, vanghe, rostri, perfino aratri. Astarte aveva provato a intaccare quegli arnesi con la spada, a quel tempo la portava ancora, ma disse che la sua lama non aveva lasciato nessun segno. Erano attrezzi tanto resistenti che quei contadini se li passavano di padre in figlio, una generazione dopo l’altra. Astarte me ne parlò per mettermi in guardia, lo ricordo come fosse ieri, perché quando Astarte è serio, allora è serio davvero. Se vedi arrivare a Babilonia un metallo dal colore della luna, disse, avvertimi subito. Perché se qualcuno riuscisse a usarlo per costruire una spada, o un pugnale, anziché attrezzi agricoli, allora non lo potremmo contrastare né col rame, né coi sassi duri dell’Eufrate, e neppure con la selce o l’ossidiana. Così mi disse, poi non tornò più sull’argomento. Finché alla scorsa luna calante venne da me; aveva la preoccupazione in volto, alcune strane voci in città lo avevano turbato. A Babilonia tutti sanno che Astarte vi tiene sotto controllo, perciò chiunque scopra qualcosa su quello che combinate, o che progettate di combinare, corre da lui. E nessuno chiede di barattare qualcosa in cambio, gli forniscono informazioni come regalo, perché da queste parti vi odiano tutti. E fanno bene, guardatevi, siete soltanto un branco di mangiatori di sterco…”
“Fallo stare zitto” gridò Mikail dallo stipite, “o lo faccio io”.
Jibril si passò la mano aperta sulla faccia. “Stupido idiota” disse, “dobbiamo lasciarlo parlare, non farlo stare zitto. Non mi sembra un concetto complicato, dovresti riuscire a capirlo perfino tu”.
Mikail si fermò a riflettere su quelle parole e Jibril, che non si era nemmeno voltato, toccò la spalla di Marduk. “Continua” disse.
“Vi odiano, l’ho già detto questo? Sì, l’ho detto. Vi odiano perché cercate sempre di obbligare gli altri a fare quello che volete. Siete prepotenti come la capra più fastidiosa del gregge, quella che, come voi, si nutre del suo stesso sterco. Comunque, qualcuno era andato da Astarte a raccontare del metallo misterioso. Ve l’ho già detto che non mi disse chi era il suo informatore? Sì, ve l’ho detto. O forse no. Non importa. Comunque mi chiese di aiutarlo. Sapete, io per lui sono come un pezzo del corpo, un braccio o una spalla, senza di me è perduto, menomato, non ce la farebbe. E quindi ho accettato. Sono una persona generosa e disponibile, per questo tutti mi adorano in città. Anche se a dire il vero ci sono molti invidiosi che sparlano di me. Non dicono che mangio il letame, come fate voi, solo che sono tirchio, e tengo per me una quota della merce barattata, e non restituisco gli attrezzi. Ma sono dicerie. Come quella che circola nel mio quartiere, a Pandemonium, secondo la quale io non pagherei i servizi alle ragazze della città vecchia. Non è mai capitato, al massimo una volta o due, e solo perché…”
“Ascoltami” disse Jibril afferrando con delicatezza la testa di Marduk, “raccontami di Astarte e del metallo”.
“Se lo interrompo io sono idiota” bofonchiò Mikail allargando le braccia, “se lo fai tu va tutto bene”. Jibril lo fulminò con lo sguardo e Marduk riprese a parlare.
“Astarte era molto preoccupato per la questione del metallo. Mi chiese di aiutarlo, dovevo seguire vostro fratello Uriel, ovunque andasse. Astarte riteneva che, scoprendo chi incontrava, avremmo individuato la persona che aveva portato il metallo in città. Ed è così che mi avete catturato. Ho fallito, maledizione, ho sbagliato tutto”.
Una risata rimbombò nella cella. Da un angolo in ombra spuntò la figura di Uriel. Indossava una tunica di lino, di quel nero opaco che si ricava dalle seppie del mar Rosa.
“Astarte è un incompetente” disse. “Io l’ho sempre saputo e finalmente eccone la prova. Non ha capito niente dei nostri progetti”.
Mikail sorrise, annuendo vistosamente.
“Ora che abbiamo accertato che Astarte non sospetta nulla” continuò Uriel, “possiamo procedere col piano”.
Intanto Marduk, accucciato sul pavimento, si lagnava tenendosi la testa con le mani.
“Ma perché?” si lamentava. “È andato tutto male, e non sono riuscito a scoprire dove Uriel abbia preso il metallo di luna. E dire che sono così bravo di solito, non capisco, non capisco proprio, come avete fatto a scoprirmi?”
Uriel scoppiò a ridere. “Ti abbiamo individuato subito, incompetente. Perché sei un incompetente, come il tuo amico Astarte. Gli incompetenti si circondano di incompetenti, è normale, ma non ti angustiare, anche se tu mi avessi seguito per giorni e giorni, non avresti trovato comunque il metallo che cercavi. E sai perché?”
Marduk scosse la testa.
“Perché non esiste. O meglio, a Babilonia non ce n’è, purtroppo. La storia dei contadini con le zappe che non si consumano la conosciamo tutti, ma non siamo mai riusciti a trovarli. Probabilmente era solo un’invenzione di Astarte per farsi bello con nostro padre. Il comportamento tipico di uno come lui, un incompetente, che ha spedito il suo amico incompetente a compiere la missione sbagliata. Ti ha messo in una bella grana, sai? Bell’amico ti sei scelto”.
Marduk lo guardava con gli occhi sgranati.
“Magari vorresti sapere cosa stiamo combinando, vero? Te lo posso anche dire, tanto sei già morto. Che pericolo potremmo mai correre”.
I fratelli annuirono.
“Una delle nostre guardie è caduta in un pozzo naturale, e si è ritrovato illeso nella caverna sottostante. Le pareti scintillavano, c’era metallo giallo, brillante, ovunque. Sembrava una scoperta sensazionale, abbiamo staccato alcuni pezzi di quella grotta e abbiamo provato a costruire spade, chiodi, martelli. Ma è un metallo troppo morbido. Non ci si può fare nulla, nemmeno gli aghi da pesca. Stavamo per buttarlo e dimenticarci della faccenda, quando è passata una delle nostre ragazze, quelle che teniamo qui al palazzo, le conosci bene, venivi spesso prima di metterti a frequentare Astarte. E hai ancora qualche debito, se ricordi. La ragazza comunque ha visto quel metallo luccicante e ne è rimasta abbacinata. Le piaceva così tanto, ha insistito e insistito in modo così sfacciato, che alla fine gliel’ho regalato. Del resto a noi non serviva. Lei l’ha schiacciato con una pietra e se l’è messo al collo, ai polsi, alle orecchie, dappertutto. Pochi giorni dopo sono arrivate altre ragazze, per chiedere pezzi dello stesso metallo giallo. Ci imploravano, sembravano isteriche, una follia. E poi sono arrivati i commercianti, offrivano baratti molto vantaggiosi, proposte mai viste prima. E infine ci siamo trovati alla porta perfino quelli di Ubaid. La gente di quel quartiere la conosci, Marduk, a furia di baratti si sono sistemati, possono ottenere quello che vogliono. Ci hanno offerto qualunque cosa per quel metallo inutile. La gente a Babilonia è pazza, ma se per averlo offrono in baratto montoni e reti da pesca, sacchi di granaglia o carichi di anguille, perfino palazzi interi e flotte di barche, allora noi chi siamo per dire di no? Scambieremo quello stupido metallo giallo con chiunque finché, un po’ alla volta, la città sarà nostra”.
Marduk lo guardava con un sopracciglio alzato. “Non ho capito cosa c’entra il metallo giallo col fatto che mangiate letame” disse.
È capitato a tutti di avere a che fare, talvolta, con individui senza speranza. Persone che non concludono nulla nella vita. Alcuni sono simpatici, altri solamente irritanti. Non è importante stabilire a quale categoria appartenga Marduk. Ora se ne sta accasciato addosso al muro, nell’aria torrida della cella, illuminato solo da qualche lama di luce. Ha lo sguardo ancora ebete, l’effetto delle erbe non sembra passato.
“Sappiamo quello che ci serve” dice Uriel. “Uccidetelo. Io vado al lago Ninive, i miei uomini aspettano alla grotta; il primo carico sarà in città già domani e potremo iniziare i baratti”.
“Non credo” dice una voce dall’ombra. Mikail stringe la mano sull’impugnatura, un pezzetto di lama spunta dal fodero, il rame brilla nella stanza. Due occhi bianchi si aprono nel buio. Poi un uomo, con un passo, emerge dall’ombra.
“Astarte” dice Marduk sorridendo. Ma si fa subito triste. “Scusami, gli ho raccontato tutto”.
Ma Astarte non lo sta ascoltando, si è già mosso. Ha un ciottolo del basso Eufrate in ogni mano, colpisce per primo Uriel, alla nuca, che sviene. E mentre il suo corpo sta ancora cadendo a terra, raggiunge Mikail. Gli batte i due ciottoli sulle tempie e questi, che non ha ancora fatto in tempo a estrarre la spada, crolla al suolo con tutta la sua mole. Astarte si trova davanti a Jibril, la cui mano sfiora il coltello di ossidiana, nella cintura. Ma Astarte scuote la testa e glielo sfila. Gli porge in cambio un laccio con due nodi già formati.
“Stringiti i polsi” dice “o finisci come loro”.
Jibril deglutisce e infila i polsi nel laccio.
“Ora fai aaaaa” dice Astarte. E quando quello obbedisce, gli caccia uno straccio nella bocca aperta. Poi lo fa cadere a terra, con un colpo secco al ginocchio, e raggiunge Marduk. Gli prende la mano con delicatezza.
“Guarda che disastro” dice, “ma non preoccuparti. Ora troviamo le guardie, e la grotta, risolviamo questa piccola questione, poi ti sistemo le dita. Vedrai, torneranno come nuove”.
Marduk lo guarda serio. “Sei sempre stato nascosto lì nell’angolo. Perché non li hai fermati? Mi hai abbandonato a me stesso. Aspetta, ho capito, tu mi hai fatto catturare apposta!”
Astarte gli sorride. “Lo vedi che non sei stupido come dicono”.
“E chi dice un’assurdità del genere?” chiede serio Marduk. Poi le ginocchia gli cedono e Astarte lo afferra al volo. Si passa il suo braccio attorno al collo.
“Andiamo” dice, “c’è ancora molto da fare”. Intanto guarda per la stanza; due dei suoi fratelli sono svenuti, il terzo è legato, imbavagliato, e lo fissa con un misto di rabbia e paura. Anche Marduk, che ha scostato il braccio di Astarte, lo sta guardando.
“Una cosa te la voglio proprio dire, sai, non me la tengo. Ora te la dico proprio”.
Astarte annuisce.
“Sei tu che mi hai messo in questa situazione, io ti consideravo un amico, davvero, quante volte te l’ho detto? Sei un amico. E tu invece mi hai fatto catturare, e chiudere in questa cella, quindi le cose come stanno diversamente; non sei mio amico, proprio per niente. Con te ho chiuso”.
Astarte pensa a uno scherzo, ma poi ricorda, non può essere, l’effetto delle erbe di Jibril non è ancora finito. Si rattrista, abbassa lo sguardo e raggiunge la porta della cella. Lancia un’occhiata verso il corridoio, in cerca di guardie. “Tu per me sei un amico” sussurra senza voltarsi. Poi alza la voce: “Andiamo. Non c’è nessuno”. E si incammina verso le scale.
Marduk però si attarda, e dopo che Astarte si è allontanato raggiunge Jibril. Si spinge due dita in bocca, chiude un occhio e piega la testa, sposta la mandibola di lato per cercare meglio. Poi lo trova, il bolo di erbe. Lo sputa e prende Jibril in piena faccia, il verde cola sulla tunica macchiandone il lino. Jibril non dice nulla, e non potrebbe farlo, imbavagliato com’è. Marduk si abbassa sulle ginocchia, lo fissa.
“Sapevo che Astarte non mi aveva raccontato tutto” dice, “ma le tue stupide erbe non avevo comunque voglia di mandarle giù”. Marduk strizza un occhio e continua. “Adesso Astarte si sente in colpa, lo conosco bene, mi offrirà da bere fino alla luna nuova. Io sì che sono un genio”.
Ride, mentre alza la mano destra per colpire la testa di Jibril con uno schiaffo. Ma si guarda le dita ciondolanti, si ferma, scuote le spalle, e gli tira un calcio.
Poi, sempre ridendo, se ne va.
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Michele Frisia è perito balistico. Ha iniziato scrivendo racconti di genere e sceneggiature, poi ha smesso. Alcuni suoi racconti si trovano su Osservatorio Cattedrale, Nazione Indiana, inutile, Carie, Verde e altre riviste. Con Dino Audino Editore ha pubblicatoDelitti e castighi(2019) e Corpi del delitto(2020). Nel 2021 uscirà il terzo volume della trilogia. Ha curato il volume Je suis Charlie, Divergenze Editore, 2021, col quale Eva Luna Mascolina ha vinto il XX Premio Campiello Giovani. Gestisce un blog con aspirazioni interdisciplinari su www.michelefrisia.it, è autore aggiunto di Spazinclusi e redattore di Narrandom.