Astarte 4

Astarte e i suoi fratelli

Novemila anni prima della nascita di Cristo, centinaia di migliaia di persone lasciarono i loro villaggi e si raccolsero a Babilonia. Pastori, contadini e pescatori, illusi dalle promesse di una nuova economia fondata sul baratto, affollarono la prima metropoli della storia. Una città che, appena sorta, era già morente. I suoi vicoli, dopo il tramonto, brulicavano di prostitute e rapinatori; le merci più richieste erano alcolici e armi di ossidiana.

Senza la ruota né la scrittura, privi di qualunque forma di organizzazione sociale, gli abitanti di Babilonia non potevano sapere che il Mar Nero, da lì a pochi anni, incalzato da piogge incessanti e dai frequenti terremoti, avrebbe sommerso la loro civiltà cancellandone per sempre il ricordo. Non lo sapevano ma forse, anche se lo avessero saputo, nulla sarebbe cambiato.

NELLE PUNTATE PRECEDENTI:

In “Astarte”, un uomo ferito ha bisogno di erbe e carne per rimettersi in forze. E lo farà chiedendo aiuto al losco Marduk.

In “Astarte e il carico di zafferano”, un gruppo di uomini scuri d’oriente offre un incarico apparentemente semplice: far entrare a Babilonia alcune casse di spezie. Ma niente andrà come deve.

In “Astarte e il metallo misterioso” l’economia di Babilonia è in pericolo, a causa di un metallo giallo e morbido, inutile per qualunque uso, ma capace di affascinare le menti deboli.

ASTARTE E I SUOI FRATELLI

L’odore acre dei datteri fermentati riempie il buio della locanda. Lot guarda a lungo la donna, prima di ricevere un cenno da Astarte. Solo a quel punto la fa passare.

“Ho bisogno del tuo aiuto” dice la donna. “Mia figlia sta male”.

La ragazza, poco più grande di un cane da pianura, giace fuori dalla locanda, nella polvere, sudata e rattrappita.

“Lot, portala dentro” dice Astarte. Poi si gira verso la madre. “Come si chiama?”

“Cabiria”.

“Da quanto tempo è in questo stato?”

La donna singhiozza e non risponde. Astarte le tocca la spalla.

“Quasi un’intera luna” dice allora la donna, poi lo guarda dritto negli occhi. “E se fosse peste?”

Astarte stringe gli occhi, riflette. Ma non risponde.

I due corpi erano stesi uno accanto all’altro.

Una selva di piccole gocce di sudore copriva la fronte e la punta del naso del bambino, che ansimava tenendosi le ginocchia coi palmi delle mani. I capelli, color del grano, erano sporchi e impastati di polvere. Il frinire delle cicale riempiva il vuoto della pianura che si allungava fino all’orizzonte.

Non era stato semplice. Aveva dovuto trascinare i cadaveri fin lì da solo, e lo testimoniavano i solchi che la slitta aveva inciso nella terra secca.

Il bimbo, dopo aver ripreso fiato mentre lambiva con lo sguardo il paesaggio desolante, si mise a raccogliere ciottoli piccoli e rotondi. Ne prese in abbondanza e li portò accanto ai cadaveri dei suoi genitori. Ne posò alcuni sugli occhi chiusi, altri li infilò nelle mani strette dagli spasmi della morte, gli ultimi li appoggiò attorno ai corpi.

Poi fu il turno delle pietre grosse e squadrate. Aveva coperto per intero le gambe di sua madre quando notò, accanto a sé, l’ombra di qualcuno.

Con la velocità di un gatto selvatico prese un sasso appuntito e si scostò di lato. Davanti a lui un uomo anziano, con la barba bianca che spiccava sulla pelle olivastra e bruciata dal sole.

“Non voglio farti del male” disse l’uomo sorridendo.

Il bambino non si mosse. Stringeva con forza la pietra nella mano, tanto che una goccia di sangue colò dal palmo e cadde nella polvere.

L’uomo lo ignorò e si avvicinò ai cadaveri. Si chinò e li ispezionò a lungo, senza toccarli.

“Sembra la peste dell’est. Da quanto sono morti, ragazzo?”

Il bambino rimase colpito. Abbassò la mano con la pietra, senza lasciare la presa.

“Mio padre se n’è andato al tramonto prima di ieri, mia madre stamattina”.

“E tu, non sei ammalato?”

“Sono sano”.

“Bene” fu la risposta. “Quello laggiù, Mikhail, è mio figlio. Tu non hai fratelli o sorelle?”.

Il bimbo scosse la testa, poi volse lo sguardo all’orizzonte e vide un ragazzo alto, robusto, muscoloso, che lo guardava in malo modo.

L’uomo invece sembrava interessato alla slitta in legno. La toccava con le dita, tastava i solchi nel terreno, infine alzò lo sguardo verso la casa cui le tracce conducevano.

“Hai usato questa per trasportare i corpi?”

Il bambino annuì.

“Tuo padre era un bravo costruttore, non ho mai visto una slitta così”.

“L’ho fatta io” disse il bambino.

Il vecchio prese a lisciarsi la barba bianca.

“Non sei un po’ piccolo per costruire oggetti come questo?”

“Se mi aiuti con le pietre” rispose il bambino, “ti farò vedere altre cose che ho fatto”.

Il vecchio continuava a lisciarsi la barba.

“Va bene” disse alla fine. “Hai un nome, piccolo?”

Il bambino lo fissò con uno sguardo fermo.

“Il mio nome è Astarte”.

La piccola Cabiria è stesa sull’ultimo tavolo della locanda, accanto all’uscita sul retro. Astarte ha fatto allontanare tutti e tasta schiena e gambe, alla ricerca di pustole.

“Non è peste” dice alla fine dell’ispezione.

La madre, per un attimo, sembra sollevata ma dura poco: la schiena della piccola Cabiria si inarca per gli spasmi, le braccia sbattono sul legno mentre la pancia sale e scende ritmicamente.

“Prendimi lo spuntone di rame” grida Astarte. “E anche una pietra, grande, di quelle che devi sollevare con entrambe le mani”.

Lot sparisce in cucina e la madre cerca di avvicinarsi a Cabiria. Astarte la blocca con il braccio.

“Ha battuto la testa?” le chiede.

Lei non risponde. Astarte allora alza la voce.

“Ha battuto la testa?” grida.

Il bambino sudava e ansimava nonostante la brezza che muoveva la vegetazione rigogliosa. Appoggiò i palmi delle mani alle ginocchia piegandosi in avanti.

“Ho sete” disse.

“Berrai dopo” replicò il vecchio con la barba bianca. “Ora dobbiamo continuare con l’allenamento”. E mentre lo diceva portò un attacco. Brandiva un osso di bovino, lungo, sbiancato dal sole, ricurvo.

Astarte riuscì a schivare l’assalto ma il vecchio gli sferrò un calcio al ginocchio e il bambino cadde nella polvere.

“Ti piace attaccare” disse il vecchio, “perché hai fantasia. Mi sono accorto che usi sempre mosse imprevedibili. Ma se non impari a difenderti non sopravvivrai molto, là fuori”.

Astarte lo guardava senza capire e lui se ne accorse.

“Chi attacca sembra forte, ma è solo un’illusione. È quello il suo vero momento di debolezza. Se riesci a comprendere il suo attacco per tempo, anziché indietreggiare potrai avanzare, anziché parare dovrai colpire. E così, anziché perdere, vincerai”.

Questa volta gli occhi di Astarte erano diversi: aveva capito.

“Come fra i rami di un albero” disse fra sé e sé.

Il vecchio lo sentì e indietreggiò di un passo. Poi avanzò di nuovo, roteando l’osso, attaccando dall’alto.

Il bambino sentì l’impulso di indietreggiare ma lo vinse. Avanzò spostandosi di lato. L’osso calò nel vuoto mentre Astarte colpiva la gola del vecchio con la mano aperta. Quello lasciò l’osso e prese a respirare affannosamente.

“Ti ho fatto male?” chiese Astarte angosciato.

Il vecchio sorrideva, mentre scuoteva la testa. Prese aria ancora qualche istante.

“Sei stato bravissimo” disse guardandolo con dolcezza. Continuava a massaggiarsi la gola. Fu allora che sentirono le grida.

Poco distante anche i fratelli di Astarte si stavano allenando. Ma Jibril era steso nella polvere, gli occhi sbarrati, e non si muoveva.

“Si è distratto e l’ho colpito” disse Mikhail allargando le braccia. “Ma non è stato un colpo forte, davvero…”

Il vecchio li raggiunse. Era furente. Prese il sasso dalla mano del figlio, era insanguinato. Tastò il corpo di Jibril e trovò sangue sulla nuca.

“Fammi vedere dove l’hai colpito, e soprattutto come. Sbrigati!”

Mikhail, un po’ intimorito, ma anche visibilmente infastidito, cercò di ricreare la scena. Fu allora che il corpo di Jibril prese a muoversi come quello di un serpente d’acqua mentre lotta coi topi. Astarte corse alle gambe, per tenerle, mentre il vecchio prese le spalle e le spinse contro il terreno polveroso.

“Padre” disse Astarte, “cosa sta succedendo?”

“Non è tuo padre” intervenne Mikhail, ma il vecchio lo gelò con lo sguardo.

“Dobbiamo portarlo al campo” disse poi. “La sua testa si sta gonfiando. L’unica possibilità per salvarlo è quella di forare il cranio, per far uscire il flusso di sangue”.

Astarte lo fissò con gli occhi sbarrati.

“Ma se gli buchiamo la testa morirà” disse.

Il vecchio lo guardò con tenerezza.

“Ci sono tante cose che ancora non sai, ma le imparerai tutte. Ora muoviamoci, la situazione è grave”.

Astarte tasta il cranio di Cabiria. La madre non l’ha vista sbattere la testa, e questa potrebbe essere una buona notizia. Ma una bambina così piccola difficilmente sta ferma tutto il giorno; avrebbe potuto farsi male senza essere vista.

“La testa non c’entra” sentenzia alla fine. “Ma non è per forza una buona notizia. Potrebbe essere una malattia del sangue”.

Lot lo guarda serio, si slaccia la camicia e allunga il braccio. “Io posso dare il mio” dice. “Sono sano in questo periodo”.

Ma Astarte scuote la testa.

“Da dove venite?” chiede alla donna.

“Abitiamo nel quartiere di Dite, nella zona sul confine con Eridu, dove stanno i pastori”.

“No, intendo: da dove venivate prima di Babilonia? E cerca di essere precisa, mi serve sapere la regione, ma anche il villaggio dove siete nate, e quello dei vostri avi”.

Gli uomini adulti, guidati dal vecchio, erano partiti da molte lune ormai. Alcuni dei ragazzi più maturi li avevano accompagnati. Il gruppo aveva costeggiato il Mare Salato, stringendo preziose alleanze. Aveva sfiorato il grande Mare Bianco, dove i popoli erano troppo arretrati per poterli avvicinare senza pericolo. Infine si era infilato fra il Mare Nero e il Mare Dolce, risalendo verso nord dopo la zona dei vulcani che sputavano fuoco solido, e così era giunto dove nessuno si era mai spinto prima.

Allora erano iniziati i problemi. Mentre il vecchio avrebbe portato gli uomini in avanscoperta in territori troppo pericolosi, Astarte avrebbe dovuto attendere, assieme ai fratelli, nella fitta e buia boscaglia. Ma obbedire non apparteneva al suo carattere e aveva convinto Azaria a seguire le flebili orme degli adulti, a distanza, pensando che sarebbe stato utile, in caso di problemi, un piccolo contingente nelle retrovie. Ma quando li avevano infine raggiunti, si erano trovati di fronte a uno spettacolo inaspettato.

Il silenzio della vegetazione era interrotto solo dai lamenti degli uomini a terra. E i lamenti erano pochi, rispetto alla schiera di morti. Ovunque giacevano corpi senza vita, con le membra amputate e i crani spaccati, dai quali colavano sangue e cervella. Uomini coperti di pelli d’orso, altri con indosso armature di corteccia, altri ancora completamente nudi ma con la pelle cosparsa di torba e fango; sembravano tutti simili a strani animali della foresta.

Azaria si bloccò davanti a quella scena. Astarte lo scosse e gli indicò il padre, chino su un ferito, al quale parlava in una lingua sconosciuta.

“Questo ha bisogno di sangue” gridò il vecchio.

Poi, voltandosi per cercare i suoi compari, notò invece Azaria e Astarte.

“Voi due datemi una mano, svelti” gridò.

Astarte si mosse per primo e arrivò accanto al ferito.

“Stai qui e spingi sulla ferita con questo pezzo di muschio” disse il vecchio. Poi sparì.

Astarte spinse il blocco di muschio sul corpo dell’uomo ferito. Era un giovane muscoloso, con la barba fitta e rossa e gli occhi di un verde scuro simile alla foresta. Indossava una corazza di corteccia che gli copriva il petto e gli arti. Era ben fatta, ma la selce dell’aggressore lo aveva colto nell’interstizio fra due placche, la ferita era profonda.

Quando il vecchio tornò aveva in mano un’arteria secca di maiale. Punse il braccio del ferito con un dente di serpente, un altro finì nell’incavo del suo braccio; poi li collegò con l’arteria secca.

Astarte guardava il sangue che, dal corpo del vecchio, fluiva verso il braccio del forestiero.

“Non è grave, ma le ferite sono profonde e l’hanno svuotato. Dopo la trasfusione starà meglio” disse il vecchio ad Astarte.

Azaria li fissava imbambolato.

“Figliolo” disse il vecchio, “riprenditi. Sei il migliore quando la situazione è calma, ma non puoi sempre agitarti così”.

Azaria non parlava.

“Cos’è accaduto?” chiese Astarte.

“Siamo arrivati da poco. Pare siano stati aggrediti da una tribù delle montagne. Hanno attaccato il villaggio per prendere il cibo, le donne e…”

Ma il vecchio non riuscì a completare la frase. Il ferito, con gli occhi sbarrati, si contorceva per il dolore. Le gambe sbatterono brevemente, poi si accasciò di lato, senza tensione nei muscoli.

“Com’è possibile?” disse il vecchio. “Non è mai successo nulla del genere”.

Astarte gli toccò la spalla, indicando il resto del campo di battaglia.

Gli altri feriti attorno a loro, che stavano tutti ricevendo trasfusioni dagli altri adulti del gruppo, si stavano contorcendo per il dolore. Uno dopo l’altro, tutti i sopravvissuti sparsi nella terra umida morirono fra gli spasmi, con le arterie secche di maiale ancora attaccate alle braccia.

Sotto lo sguardo attonito di chi li voleva soccorrere.

“Se siete del nord” dice Astarte, “le trasfusioni sono escluse. Troppo pericoloso. È probabile che la piccola Cabiria abbia il sangue diverso dal nostro, e la uccideremmo”.

Esce di nuovo dalla locanda e guarda Babilonia che lo circonda, ogni giorno più grande, ogni giorno più caotica. Ripensa a quando erano giunti dalla fattoria, il vecchio ancora vivo, pieno di progetti, a quando i suoi fratelli si comportavano in maniera decorosa. Quanto tempo…

Lot lo raggiunge e gli tocca un braccio.

“Mi dici cos’hai?” chiede.

“Sono nervoso” risponde Astarte. “Per tutte le capre di Babilonia, è come se questo corpo stesse giocando al gatto e al topo con me. Come se mi volesse imbrogliare”.

Lot lo guarda scuotendo la testa.

“Nessuno può ingannare Astarte” dice. “Questo lo sanno tutti”.

Il vecchio sedeva sulla riva del fiume. Osservò Astarte che lanciava con rabbia un sasso nell’acqua. Era quasi un ragazzo fatto e finito, lo testimoniavano le spalle larghe e i capelli color del grano che ondulavano sotto la luna.

“Cos’hai imparato oggi?” gli chiese il vecchio con voce calma.

“Che ho perso” rispose Astarte, lanciando con rabbia un altro sasso.

“Figliolo, una sconfitta è il regalo più grande che ti possa capitare. Ti consente di imparare e sai che imparare è la cosa più preziosa”.

Astarte lo guardava con poca convinzione.

“Raccontami com’è andata”.

Astarte iniziò a parlare.

“Eravamo ammassati prima della partenza. Io volevo a tutti i costi diventare uomo, volevo tornare prima del tramonto con un cervo rosso adulto. Sapevo come fare. Già dai tempi dell’ultimo equinozio sapevo di una piccola radura, me lo aveva confidato un pescatore, una radura dove i cervi si ritirano quando il bosco viene invaso da rumori ostili. Sapevo che, quando gli altri ragazzi, che non sono avvezzi alla caccia come me, avessero raggiunto la boscaglia, gli animali si sarebbero nascosti in luoghi sicuri. Ero tornato spesso alla radura e avevo osservato a lungo un cervo che vi si rifugiava. Una bestia maestosa, un maschio adulto dal pelo fulvo e i palchi ampi. Era stato bravo quel cervo, aveva scovato un rifugio sicuro, quasi impossibile da raggiungere a causa della strana conformazione della vegetazione in quel cuore di foresta. Faticavo a trovarla ogni volta, tanto che avevo lasciato segni sui tronchi, per orientarmi, ma ero contento stamattina. Sarei arrivato alla radura, avrei avuto il mio cervo e sarebbe stata una vittoria perfetta. Però qualcosa non ha funzionato, continuavo a perdermi e, quando sono tornato al campo, senza una preda, erano già tutti lì ad aspettarmi, e a ridere di me. Ma questa non è la cosa peggiore. Uriel aveva catturato il mio cervo. Il mio!”

“E come è stato possibile?” chiese il vecchio guardando verso il fiume. Parlava con serietà ma un sorriso faceva capolino dalla barba bianca.

Astarte appoggiò il mento sulle ginocchia e fissò verso l’acqua che gli scorreva davanti.

“Non lo so”.

“Impegnati, e rifletti”.

Astarte, colpito dal tono di voce del padre, chiuse gli occhi, e in breve tutto gli fu chiaro.

“Uriel mi ha ingannato” disse. “Ha disseminato false tracce e ha cancellato quelle vere. Mi ha fatto perdere tempo mentre lui andava a prendersi il mio cervo”.

“Io non so cos’abbia combinato tuo fratello, ma conoscendolo… niente di più facile. Vai avanti”.

“Per fare le cose per bene” continuò Astarte, “non gli bastava tornare con un cervo. Doveva fare anche in modo che io fallissi. Quindi è stato Uriel a mandare il pescatore da me, cosicché io sapessi della radura, mi concentrassi solo su quella, e non mi dedicassi alla caccia in altre zone del bosco. È colpa sua!”

“Tutto quello che dici è vero, Astarte, tranne un piccolo dettaglio, che così piccolo non è. Chi è il responsabile del tuo fallimento?”

“Uriel” fu la risposta.

Il vecchio rise.

“No” disse. “È solo tua, perché sei stato tu a perdere la testa. Avevi tutto il tempo per trovare la strada in un altro modo, se avessi capito subito che i segni erano stati manomessi. E avresti dovuto capirlo. Se tu fossi rimasto calmo, avresti trovato facilmente un altro cervo, con le tue capacità. Ma ti sei intestardito e hai fallito. Uriel ti ha reso un gran servizio oggi”.

Astarte a queste parole drizzò la testa.

“È così, figliolo. Ti ha dato la possibilità di esplorare i tuoi limiti. Ora sta a te decidere: cambiare, e prendere il meglio da questa esperienza, o arrabbiarti e continuare ad agire come prima, per continuare a fallire”.

Dopodiché il vecchio si alzò, scompigliò i capelli del ragazzo con una mano e se ne andò.

Quella volta Astarte si era lasciato fregare. Come sta accadendo ora, pensa. E si arrabbia. Deve rimettere insieme i fili del problema.

“Non è peste”, pensa, “non ci sono pustole; e non è un colpo al cranio, che non si è gonfiato; e neppure una malattia del sangue, o sarebbe già morta. Non vomita, quindi non ha mangiato nulla di strano. E non ci sono morsi di serpenti o scorpioni, li avrei visti, quando ho ispezionato il corpo. A meno che… Ma certo, abitano accanto a Eridu, sono circondati da pastori”.

Astarte corre nella locanda e si carica sulle spalle la bambina.

“Vieni con me” dice alla madre.

Arrivano di corsa fino al piccolo fiume Lete.

“Aiutami a spogliarla” dice alla donna. Lei è titubante, ma il tono è fermo.

Astarte allora immerge completamente Cabiria nel fiume, le tappa bocca e naso, la tiene sommersa.

“Così morirà” grida la madre, ma Astarte non distoglie lo sguardo dal pelo dell’acqua. Aspetta e osserva, aspetta ancora, finché la vede: una piccola bolla d’aria.

Porta Cabiria a riva, la copre e la asciuga coi suoi piccoli vestiti, intanto afferra dalla cintola una lama di ossidiana, lunga e appuntita. La madre si porta la mano alla bocca, mentre Astarte spinge la lama, con gesto rapido e preciso, nell’orecchio della bambina. Quando la estrae, trafitto dall’ossidiana, un piccolo animaletto agita le sue molte zampe.

“Cos’è?” chiede la donna.

Cabiria intanto apre gli occhi e se li stropiccia con le dita. La madre la abbraccia, i pochi passanti osservano la scena con sguardo annoiato, nessuno si sta veramente rendendo conto di quello che è successo.

Nessuno tranne Lot. Che è arrivato con i suoi tempi, in ritardo come al solito, e guarda l’amico annuendo con la testa. Ha in volto lo sguardo soddisfatto di chi pensa, te l’avevo detto. E infatti lo dice.

“Te l’avevo detto, amico mio: nessuno inganna Astarte. E di sicuro non una piccola zecca”.

Immagine creata con gpt4

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