I sassi affondano i bordi affilati nella carne delle mie mani, si insinuano tra le pieghe delle ginocchia. Mi trascino carponi lungo il bordo del recinto, respirando a fatica la polvere sporca che si alza da terra ad ogni mio movimento. Mi si impasta addosso, si infila nei polmoni. Tossisco. Il collo mi fa male sotto il peso della catena ma è un dolore insignificante rispetto a quello che provo dentro. È colpa mia se sono qui? Me lo chiedo ogni volta che sorge il sole, ogni volta che tramonta. Il domatore fa schioccare la frusta in aria, poi infierisce su di me, sul mio corpo nudo che scatena la bramosia di questa gente. Al di là delle transenne arrugginite, si leva all’unisono un urlo di entusiasmo misto a compiacimento, tutti applaudono estasiati dallo spettacolo della mia umiliazione. Uomini, con i loro cappelli, i vestiti eleganti, i baffi impomatati, e donne, con i gioielli e i ventagli di seta, le pellicce pregiate. Mi gettano addosso pugni di noccioline di cui pensano mi nutra. Sembrano animali agitati dal calore. I maschi cercano di contenere la loro eccitazione con gesti rapidi ad aggiustare il cavallo dei pantaloni, alcuni fanno avanzare davanti a loro le donne per strofinarsi sui loro corpi. Le femmine, animate dalla stessa smania, non sembrano affatto infastidite da queste manovre. Tutti continuano a fissarmi con occhi ingordi e a lanciare grida acute, chiedono all’uomo che mi tiene al guinzaglio: Ancora! Ancora! Lui esegue le richieste del pubblico pagante e apre l’ennesima piaga su quello che dice essere il suo tesoro.
Fa freddo qui, un freddo che non ho mai conosciuto prima. Un freddo penetrante che non passa nemmeno quando, alla fine delle esibizioni, mi permettono di rivestirmi e di tornare nella mia stanza. Posso tenere la stufa accesa per tutto il giorno e mangiare quanto mi pare. Il cibo non manca. E nemmeno l’alcol. Ma non posso andarmene, non posso fuggire. La mia immagine è aggrappata su ogni muro di questa città, inquadrata nei manifesti pubblicitari del tutto simili a quelli per i ricercati. E poi, scappare per andare dove? Non ho più nessuno, la mia famiglia è stata sterminata in una guerra tribale quando ero una bambina. La gente che mi ha raccolto dopo la morte di mio padre mi ha cresciuta in una fattoria. Là ho dovuto imparare la loro lingua, le loro abitudini, i loro costumi. Poi sono andata a servizio presso altre famiglie. Pulivo le loro immense case, servivo alle loro cene. Gli ospiti erano divertiti dal mio aspetto che trovavano folcloristico. Io non trovavo divertenti le attenzioni dei signori, che non lesinavano nel toccare la prominenza delle mie natiche, oscenamente sproporzionate secondo i loro canoni estetici, ogni volta che mi avvicinavo a versare lo stamppot nei piatti. L’ultima famiglia che mi ha presa ha deciso di trasferirsi nel Vecchio Continente. Mi hanno portata con loro e durante quel viaggio interminabile non hanno fatto altro che raccontarmi del nuovo Paese, come se fosse la terra promessa. Avrei potuto avere tutto quello che avevo sempre desiderato, dicevano. Ad una condizione: accettare di lavorare nel mondo dello spettacolo, che prospettavano come un settore moderno ed estremamente remunerativo. Non ho mai creduto a una sola parola. Avrei potuto rifiutare di seguirli. Mi sarei potuta ribellare. Ma che alternative avevo? Ho perso la libertà quando mi hanno strappato via mia madre e mio padre. L’ultimo ricordo che ho di loro è quello dei loro corpi straziati, abbandonati sulle sponde del grande fiume.
Prendo la bottiglia di liquore, lo verso sulle ferite delle ginocchia, sul palmo delle mani. La mia pelle brucia. Bevo un sorso, poi due. Svuoto tutto il contenuto. Il mio stomaco è in fiamme. Mi alzo e mi metto davanti allo specchio appoggiato al muro scrostato dall’umidità, mi restituisce una porzione del mio corpo, stimolo innocente dell’infetta curiosità dei bianchi. I segni delle frustate creano un reticolo chiaro sulla cute bruna, la mappa delle ingiustizie che questa gente mi ha inflitto. Un rigurgito mi sale fino al naso, mi piego sul piccolo lavandino dietro l’armadio. Schizzi di liquido bruno colano sulle piastrelle sbeccate del pavimento. Qualcuno bussa alla porta. I miei spettacoli non hanno più il successo di una volta, quindi devo rendermi utile in altro modo, ripete il mio datore di lavoro. Devo intrattenere i suoi amici eleganti. L’uomo dell’appuntamento è alto, ha i capelli biondi e gli occhi torvi. Non parla, indica il letto e inizia a slacciarsi i pantaloni. Eseguo, come ho fatto sempre nella mia vita. Eseguo perché a ribellarsi si riceve solo altra spietata violenza. Non mi resta che essere docile. Come l’animale selvatico da domare che io sono nelle loro fantasie. Nello specchio vedo agitarsi un essere gracile, immondo, ridicolo nella pallida nudità che si affanna quotidianamente a dissimulare sotto i suoi costosi vestiti. Cerco di trattenere i conati che mi attorcigliano le viscere. La schifosa danza meccanica ha breve durata. Lui si ricompone, getta qualche spicciolo a terra ed esce dalla porta. Nessuno sguardo, nessuna parola. Meglio, così posso tornare subito a letto e abbandonarmi al sonno. Sono stanca. Sento la stanchezza di anni, di tutta una vita, delle vite perdute dei miei cari. È colpa mia se sono qui? Non ha più importanza. Altro liquore, per lenire un po’ il dolore e ottundere i sensi. Chiudo gli occhi e finalmente mi vedo: sono piccola, corro nuda e libera con i miei fratelli e le mie sorelle sulla terra rossa, verso il nostro villaggio. Mia madre e mio padre aprono le braccia e ci accolgono sorridendo, sotto l’azzurro sconfinato del cielo lungo il corso del grande fiume.
Copertina originale di Elisabetta Panico
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Ottavia Marchiori: suoi racconti e haiku sono pubblicati su riviste letterarie e antologie. Artista specializzata in collage analogico, ha all’attivo diverse collaborazioni con numerose riviste in qualità di illustratrice.