Un tffo in piscina

Un tuffo in piscina #2

La sera prima Jane si era dissociata: era consentito, nel poliamore – un punto fermo. Janine aveva tentato di tirarla dentro ma lei era parsa scostante, persino angosciata da qualcosa. Forse stava pensando di darci un taglio, si era detto Mike, mentre Janine gli stava sopra, entrambi accanto alla terza persona che componeva il rapporto, quella più giovane. Era voltata, dava loro le spalle, sul bordo del letto a tre piazze che occupava l’intera stanza, segnando un vuoto tangibile amplificato dagli specchi ai lati della camera – Mike aveva fermato la mano di Janine, comunicandole di lasciarla in pace, di non forzare, di rispettare il patto del non possesso come previsto dalla loro triplice unione secondo quanto appreso su internet una notte di tre anni prima, quando tra loro tutto accadeva soltanto nei week-end, assecondando un gioco che era soprattutto di Mike e di Janine.

«Melissa», aveva annunciato Mike dopo aver chiuso la chiamata con Jane, «mi allontano per qualche ora, intesi? Non mancherò molto».

Una strana ansia si era impadronita di lui. Dopo aver camminato a vuoto nell’ufficio era andato più volte davanti alla vetrata dietro alla scrivania, guardando dabbasso, quasi si aspettasse da un momento all’altro di veder comparire l’uomo con l’impermeabile. Poi, come ricordandosi di un impegno, si era fiondato in bagno e aveva tirato fuori da un armadietto un paio di scarpe da ginnastica immacolate, bianche con la striscia arancione. Si era liberato di forza della giacca, della camicia, dei calzoni. Il fisico ancora asciutto, la carnagione imbrunita che la metropoli non era riuscita a ingrigire, la pelle secca, i peli scuri come i capelli che gli ricadevano da un lato, sulla fronte, smossi dalla t-shirt azzurra dell’Adidas indossata rapidamente, tra un’occhiata e l’altra allo specchio, i pantaloncini da basket sotto, larghissimi. Respirava con un certo affanno, sudava, e due occhiaie gli chiedevano conto di quei giorni così strani, così diversi dagli ultimi dieci, dodici, quindici…quanti cazzo di anni erano passati lì dentro, in quell’ufficio al ventiquattresimo piano?

«Io credo che dovremmo fare qualcosa».

«Che vuoi dire? Non cominciare Jane».

«Capirci qualcosa, qualcosa… Se è qui, se è stato mandato qui…».

«Nessuno l’ha mandato, nessuno ha mandato nessuno, piccola, ti prego!».

Qualche ora prima di mettersi a letto e di farsi in disparte, sempre la sera precedente, approfittando dell’assenza di Janine, Jane si era chiusa con lui in macchina, nel garage. Lo stava aspettando lì dentro già da diverso tempo, Mike se l’era ritrovata davanti, in pantaloncini corti e canotta, l’infradito ai piedi. Era entrata dentro di slancio prima che lui potesse spegnere i fari e fuoriuscire dall’automobile e gli aveva detto che era preoccupata, che qualcosa, di tutta quella situazione, la preoccupava, ma che non riusciva a capire cosa.

«Ho una brutta sensazione, Mike».

«Ma ti ha fatto qualcosa? È successo qualcosa?».

Naturalmente non le aveva fatto nulla. Solo, l’aveva sentito lamentarsi.

«Lamentarsi? Come? Di cosa?».

«Dentro, giù, nella sua camera».

«Ma che tipo di lamenti?».

«Come di dolore, Mike, di uno che sta male!».

Jane gli aveva chiesto se non avesse bisogno di aiuto, parlandogli da dietro la porta, impaurita ma anche preoccupata, così come la stava raccontando all’uomo di casa.

«L’ho sentito rientrare da fuori e chiudersi lì dentro, sembrava stesse correndo».

«Correva?».

«Ha fatto molto rumore, non saprei, ero di sopra e poi l’impermeabile…».

«Cosa?».
«L’impermeabile, ho visto che gli era caduto sul pavimento, in casa, oppure l’aveva buttato lì, come scaraventato. L’ho preso in mano, Mike, dentro c’erano macchie di sangue, sangue fresco, recente, delle strisce…».

Miguel si era passato le mani tra i capelli, aveva sbuffato, maledicendosi per averlo portato a casa, per aver prestato un aiuto non richiesto a un tizio sconosciuto comparso per caso sul marciapiede di uno stronzo di grattacielo, per non averlo affidato alle cure della security del building come avrebbe fatto chiunque e come chiunque gli aveva consigliato di fare. E per averlo lasciato da solo in casa con Jane, soprattutto per quello.

«Ma quando gli hai chiesto se gli serviva aiuto, in camera, cosa ti ha risposto?».

«Non mi ha risposto, ma di colpo ha smesso di lamentarsi».

Ripensava all’episodio del garage, Miguel. Mike. Rivedeva gli occhi smarriti di Jane, il caschetto biondo che si teneva dietro le orecchie mentre gli parlava in macchina, l’incanto dei lineamenti che risaltavano anche quand’era preoccupata – la sensibilità che diventa bellezza, aveva detto una volta Janine, prendendoci in pieno. E rivedeva Quasimodo, anche, la sua faccia. L’espressione che sembrava dimessa ma che dimessa non era, a ben guardare, e che aveva ritrovato in piena luce soltanto poche ore prima, mentre gli parlava dell’organo Hammond abbandonato che lui aveva scambiato per un pianoforte, riscoprendo di colpo lo strumento così come aveva riscoperto diversi giorni addietro l’acca del suo nome – l’acca di Harlem che aveva cacciato via poco prima di infilarsi la tenuta da jogging e di riversarsi fuori, un martedì di maggio, nel pieno di una settimana determinante per la sua società.

Pensava e ripensava a tutto questo Mike e intanto correva, metteva svelto una davanti all’altra le scarpe bianche con il baffo arancione, percorreva il perimetro di Bryant Park, dentro il cuore di Midtown, nel fuoco inopportuno di New York City, sovrastato dai grattacieli che attorniavano quell’isola verde che d’inverno la gente frequentava per venirci a pattinare sul ghiaccio. Correva forte, superando altri corridori, splendide quarantenni che non volevano saperne di invecchiare e stempiati uomini d’affari con le chiazze di sudore sotto i pettorali cadenti, cercando di scrollarsi di dosso tutta la tensione accumulata nelle ultime settimane, fino allo scarico sui nervi delle ultime ore, il collo rigido, le spalle incavate, la fronte corrugata. Correva e la vedeva, poi, la faccia segnata, perseguitata da chilometri di sventura o chissà cos’altro, l’espressione d’impudente attesa stampata sul volto, senza contare quell’orrida curva che cominciava oltre le spalle e che stava inquietando la sua compagna più giovane e debole – e che si era persino portato a casa, nella stanza con l’organo dimenticato nell’angolo – Quasimodo, quell’uomo con quello strano nome, gli stava davanti, dietro, gli correva di fianco sull’erba rada di Bryant Park, mentre fiancheggiava la fontana che a gennaio si trasformava in una stalattite di ghiaccio, il fiatone, le gambe poco allenate che rallentavano, la sete sempre più impellente e la fottutissima sensazione di non avere più salda la presa su ciò che fino a pochissimo tempo prima era stato il mondo, il suo mondo – Manhattan, la Trentacinquesima, i fondi, la piscina, il poliamore, Jane e Janine.

«Ce l’ho fatta, papà».

Non si era trattenuto quella volta. Avrebbe tanto voluto nascondere la lettera, la risposta che aveva trovato nella cassetta della posta che teneva d’occhio da settimane e di cui si era sempre occupata sua madre, almeno fino a quando non aveva cominciato a stare male. Forse avrebbe persino desiderato che la domanda di iscrizione con la richiesta per la borsa di studio non fosse mai arrivata a destinazione, che qualche negligente del servizio postale della sua stupida cittadina, di quel buco di culo che si affacciava sul Golfo del Messico, avesse sbagliato timbro, confuso le buste, fosse stato così ubriaco da cestinare le lettere da inviare e inviare quelle da cestinare. Sicuramente, col senno di poi, mai avrebbe dovuto dirlo a suo padre: sarebbe stato meglio partire senza neanche salutare, come si era ripromesso, oppure tacere e restare, come anche si era ripromesso di fare.

«Sono entrato, pa’, mi hanno preso».

Risentiva la sua stupida voce da ragazzino mentre le goccioline di sudore si infilavano tra le palpebre bruciandogli gli occhi, la mano appoggiata a un albero, il respiro affannoso di chi si allena male, piegato sulle ginocchia, sfinito. Aveva tirato fuori il telefonino per controllare se Jane avesse richiamato, calcolando il tempo necessario a rientrare in ufficio, farsi una doccia, togliersi quella stupida tenuta da jogging e indossare nuovamente i suoi mocassini inglesi, il completo scuro in coordinato e la camicia su misura di fine sartoria italiana. Si era visto nell’atto di indossarla, la camicia, scendendo con lo sguardo sulle iniziali ricamate in petto, azzurro su bianco. Aveva trovato la emme di Miguel e la erre di Rosa, nella sua visione, nella previsione di ciò che avrebbe fatto di lì a poco. Ma non l’acca, l’acca di Harlem.

«Andrò a New York City, papà, all’università».

Ce l’aveva messa perché quello era il quartiere in cui avrebbe tanto desiderato vivere, sicuramente suonare o quanto meno assistere a quello che era stato una specie di miracolo. Ne aveva sentito solo i racconti, intercettato l’aroma attraverso i pochi cenni diretti che aveva ricevuto da qualche suo collega più fortunato, più bravo di lui. Avrebbe tanto desiderato viverci ad Harlem, soprattutto negli anni in cui Harlem era la musica che più amava e che più tentava di suonare, senza successo, senza riconoscimenti, forse senza talento, la musica su cui aveva involuto tutta un’esistenza trascorsa nel quartiere ispanico di una piccola cittadina del sud degli Stati Uniti, imponendola a sua moglie, la musica, persino al suo unico figlio del quale aveva intravisto un talento innato, smisurato, fuori dal comune. Un talento da Harlem.

«Non dici niente, pa’?».

E no, non diceva niente. Chino sul pianoforte a coda che gli era costato più di quanto avrebbe mai potuto permettersi, in una posa innaturale, ingobbita dall’ostinazione, congiungeva degli accordi fiacchi sotto la luce giallognola di una lampada a muro, in uno studio sudicio sommerso di dischi graffiati, di bachi di polvere, di ridicola dedizione a una causa morta. Forse ne avrebbe parlato solo con sua madre, Miguel, forse l’avrebbe lasciato lì a domandarsi di lui, se mai se ne fosse accorto nei mesi a venire, nell’unica camera in cui ormai viveva, pisciava e dormiva. Ma sua madre era morta, c’era soltanto lui e quella maledetta musica.

«Perché fai quella faccia, papà?».

Non lo sentiva da un secolo, non sapeva se fosse ancora vivo, non gli telefonava da quando era arrivato a New York, alla Columbia University, proprio ad Harlem. La faccia spaventata e giovane e bella che si rifletteva nei vetri plastificati della cabina telefonica del campus, la valigia bloccata tra le gambe, la pioggia che cominciava a cadere sopra la sua voce che diventava adulta, infrangendosi contro il silenzio dall’altro capo del filo.

«Economia e finanza» gli aveva specificato quel giorno, nella camera gialla con le zanzare nell’angolo, quasi potesse servire a qualcosa, osservandolo tacere, tacere e suonare, tacere e guardare verso di lui come se non ne riconoscesse più i tratti del viso, come se rivolesse indietro in un colpo solo tutto quello straordinario e innato talento per la musica che solo e sempre lui gli aveva attribuito sin da quand’era bambino. Come se gli dovesse un risarcimento, suo figlio, un pezzo di vita. Un nome.

«New York City, la Grande Mela, ma ci pensi pa’?».

Non tornava in quel quartiere ispanico del cazzo da quando era partito alla conquista di Manhattan, quella stessa isola su cui adesso stava sprofondando, la schiena poggiata contro un albero, i palazzoni attorno, i corridori che lo superavano e suo padre che gli parlava all’orecchio in spagnolo, la voce rauca d’alcol e di fumo che riemergeva da Bryant Park, sovrastando il frastuono del traffico della città più incasinata del mondo e che fino a qualche giorno prima, forse persino fino a qualche ora prima, aveva così tanto amato.

«Il mio sogno, papà, proprio il mio sogno!». Aveva ripetuto senza nemmeno entrare nella stanza, tirando l’ultimo dado inutile.

«Ten cuidado Miguel» gli aveva risposto suo padre, smettendo di suonare per un istante e alzando la testa verso di lui – quella voce, quella voce che tornava a impastargli le orecchie.

«Ten cuidado, pero deja los sueños en paz».

Un rumore, un tonfo secco. E poi, uno scalpiccio strano.

Si era alzato nel cuore della notte, caldissima e umida, la coperta del letto a tre piazze sacrificata sulla moquette e le sue compagne nel pieno dei loro sogni – l’una rannicchiata su se stessa, l’altra con la bocca aperta. Si era svegliato da un sonno sottile, teso da un capo all’altro come la corda di violino che era stata quella giornata così movimentata, sul cui budello si era dovuto muovere, Miguel, aveva dovuto correre, andare avanti e indietro nel tempo. Quasimodo era tornato a pomeriggio inoltrato e si era chiuso in stanza, non aveva dato spiegazioni a nessuno, nemmeno a Janine, rientrata di fretta dopo la telefonata di Jane. La trentenne aveva provato a chiedergli qualcosa, parlando anche lei da dietro la porta, se avesse avuto un problema, se soffrisse per dei dolori fisici, delle ferite – l’impermeabile grigio macchiato di sangue era nuovamente scomparso, doveva averlo di nuovo con sé.

«C’è qualcuno?».

Mike era a piedi nudi che girava per casa, in mutande, le luci spente mentre scendeva i gradini, il leggero mormorio di qualche automobile che attraversava il quartiere nella notte. Dal vetro smerigliato dell’ampio bovindo la luna si inoltrava nell’abitazione creando una luce bluastra, appena percettibile, rivelando l’ombra inequivocabile di un uomo con una pistola impugnata e fermo a metà scalinata. Aveva i capelli bagnati di sudore e non sapeva se a causa del caldo, dei sogni infelici o della paura di veder comparire qualcuno dal nulla, un ladro, un pazzo, un assassino o tutte e tre le cose insieme – ma non era vero, non era del tutto vero questo e lui faticava ad ammetterlo, a dirselo in faccia, nonostante la sua coscienza scombinata e ferita parlasse al suo posto e gli dicesse che era Quasimodo il problema, era di quell’uomo con l’impermeabile grigio, di quell’essere informe che viveva a casa sua che aveva paura – era lui il ladro, il pazzo, l’assassino e tutte e tre le cose insieme.

«Perché cazzo non ha avvisato?». L’aveva affrontato così, Mike, poche ore prima, dopo aver abbandonato improvvisamente la riunione nella stanza ovale ed essersi fiondato a casa. «Cristo, ci siamo preoccupati!».
«Non credevo di doverlo fare, ha detto che posso fare le cose anche dopo».

Quasimodo era stato costretto a venir fuori. Aveva la stessa espressione di sempre, anzi, sembrava persino deluso agli occhi di Mike – non era più dimesso, no, non lo era mai stato.

«Sì, ma ci siamo preoccupati e Jane… Jane si è molto spaventata!».

«Lei mi ha detto che non ci sono orari, mi ha detto di fare un tuffo…».

«Cosa?».

«…In piscina».

«Ho detto queste cose, ma questo non vuol dire che può sparire nel nulla per ore, senza, senza…».

«Non sono sparito».

«…Ci sentiamo responsabili per lei, lo sa? Lo capisce questo?».

Fece il giro della casa con la pistola impugnata verso l’alto, la presa incerta, varcando a passi lentissimi prima la soglia della cucina e poi quella della sala grande, dando un’occhiata fuori, sul vialetto d’ingresso e aspettandosi un agguato improvviso, alle sue spalle, temendo qualcosa di spaventoso che avrebbe potuto scaraventarlo per terra, disarmarlo, sbattergli la testa contro il muro e ucciderlo. Rimase immobile al centro del living, tra i vetri smerigliati che giocavano sonori con l’elettricità azzurra della luna, trascorrendo diversi minuti in attesa di sentire un altro rumore, un segno, qualcosa di simile a quel breve tonfo sordo che l’aveva svegliato di soprassalto e di cui era sicurissimo, non se l’era affatto sognato.

«C’è nessuno?».

Non ci fu altro da fare, come si disse, se non dirigersi verso di lui, andargli incontro, raggiungere la tana del mostro e verificare di persona se le sue paure abitavano realmente lì. Si fece avanti piano, vide un’esile filo di luce provenire dal piano inferiore, scese i pochi gradini che lo separavano dalla camera in legno che custodiva l’organo che suo padre gli aveva regalato quand’era ancora un bambino e chiamò, sforzandosi di avere una voce naturale, il nome dello sconosciuto a cui dava asilo. Quella stessa sera avevano avuto uno scontro, l’aveva trattato con durezza, gli aveva forse negato qualsiasi possibilità di spiegarsi, dicendogli quelle cose davanti a Jane e Janine: non sapeva quale sarebbe potuta essere la sua reazione, non ne aveva idea.

«Quasimodo?». Fece ancora, accostandosi alla mansarda. «Quasimodo?».

Aprì la porta con il piede scalzo, calò la pistola lungo il fianco, pronto per metterla dietro la schiena o, in alternativa, per puntargliela contro. Ma nella camera non trovò nessuno.

Rimase dentro per qualche minuto, ispezionando rapidamente la stanza che ben conosceva, il divano-letto aperto, le coperte arrotolate e poi l’Hammond, quell’Hammond, in fondo, abbandonato contro il muro. Notò l’impermeabile grigio poggiato sullo schienale della sedia e la felpa della squadra di basket che gli aveva dato e che utilizzava per i lavori in giardino appallottolata sul letto. Si accostò all’impermeabile, lo sollevò appena con la punta della pistola e notò alcune macchie scure, indurite, opache. E fu in quel momento che udì nuovamente quel tonfo improvviso, lo stesso che l’aveva tirato giù dal letto in piena notte.

«Cristo, le ragazze!».

Di slancio si fiondò su per le scale e da lì oltre la sala grande e poi veloce, calcando forte con i talloni scoperti, su, al piano di sopra, calpestando i gradini con il cuore che gli risaliva in gola e dando vita a un ritmo irregolare di battiti in costante aumento, di colpi sordi che salgono e si avvicinano a chi è in ascolto, in questo caso alle sue ragazze, a Jane, a Janine. Andando a cento all’ora con i pensieri si maledisse di nuovo, era la seconda volta, per aver introdotto in casa un estraneo, un essere informe, ignoto e senza passato: aveva fatto tutto da solo, si era portato l’Uomo Nero a casa, si disse, gli aveva dato da mangiare, un lavoro, persino una stanza e delle prede indifese. Le trovò in camera da letto, sveglie, una di loro aveva pronunciato il suo nome, aveva chiamato Mike, l’altra l’aveva solo sussurrato, le gambe incrociate, le mani strette tra loro, le espressioni dei visi di chi non capisce cosa sta accadendo, tra veglia e sonno.

«State bene?».

Lo videro comparire, ansimante. La pistola lungo il fianco, scalzo.

«Lui dov’è?».

Non risposero. Mike, Miguel, rimase nuovamente in ascolto, tese l’orecchio, comunicando loro che qualcosa stava accadendo, che bisognava tacere, non fare domande – non l’avevano mai visto così agitato, non sapevano neanche che possedesse una pistola in casa. Il rumore si ripresentò e stavolta tutti e tre ne carpirono la direzione: la finestra, la finestra aperta che Mike aveva di fronte. Si avvicinò calandosi leggermente sulle ginocchia, avanzando piano e facendosi guidare dalla luna di tre quarti che sorvolava North Riverdale, il suo quartiere, il mondo dentro al mondo che si era conquistato lavorando sodo, perseguendo il sogno, il suo e di nessun altro.

Ritrovò quel rumore, ancora una volta, il tonfo: lo squarcio sordo di un corpo che entra in acqua. Vide Quasimodo che si muoveva nella sua piscina, che dava bracciate lente, che si bagnava nel caldo umido e insolito di maggio che in quasi vent’anni che era lì, a New York, non gli era mai capitato. I calzoni logori abbandonati sul bordo bianco, una camicia che non gli aveva mai intravisto, anche, poggiata sulla sdraio che occupava di solito Janine, i capelli disordinati davanti agli occhi e quelle ali poi, quelle ali di carne pallida, quelle enormi ali con le punte striate di sangue che si aprivano dietro la nuca, da lì cominciavano, si muovevano e si agitavano piano, implumi, sfavillando nell’acqua e producendo minuscole onde che si infrangevano da una parte e dall’altra della piscina. Poco lontano, un paio di corde, di tiranti sfilacciati stavano abbandonati sul prato che lui stesso aveva tagliato di fresco neanche ventiquattr’ore prima.

«Eccolo».

La faccia di Quasimodo si volse verso la casa, la finestra: gli sguardi si incontrarono in un punto preciso e Mike, Miguel, ritrovò la frase che suo padre gli aveva detto in spagnolo quel giorno in cui stava per cominciare la sua nuova vita. La disse proprio mentre alzava il braccio e puntava la pistola fuori dalla finestra, verso l’uomo che nuotava nella sua piscina: la luna nell’acqua, l’espressione dimessa che dimessa non era, l’attesa di chi ha smesso di attendere. Mise anche l’altra mano sull’impugnatura, ignorò le voci che gli imploravano di fermarsi, strinse forte e mirò dritto a quelle grosse ali bianche.

«Stai attento Miguel», ripeté in inglese, nella sua lingua. «Stai attento, ma lascia in pace i sogni».

Foto di Alessandro Galano

Per leggere la prima parte, clicca qui

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Alessandro Galano è nato a Foggia il 21 luglio del 1982. Laureato in Lettere Moderne (110/110 con lode) con Master biennale in Giornalismo. Giornalista pubblicista dal 2006, idoneo all’esame di Stato come giornalista professionista dal 2018. È docente di italiano non di ruolo presso le scuole secondarie di primo e secondo grado. Dal 2001 collabora con testate giornalistiche locali, regionali e nazionali, ha svolto stage presso la Gazzetta del Mezzogiorno e l’Ansa (redazione politico-parlamentare di Montecitorio), e attualmente è redattore per Jazzit e Foggia Città Aperta. Dal 2009 si occupa dell’organizzazione degli eventi e dell’ufficio stampa per Ubik Librerie, curando le attività culturali della libreria Ubik di Foggia (con oltre 60 incontri annuali con i più autorevoli intellettuali del panorama nazionale). Svolge service giornalistici per Cooperativa Controra ed è il responsabile della comunicazione del progetto di housing sociale “Abitare le Relazioni” della Fondazione Siniscalco Ceci – Emmaus. È co-fondatore e responsabile della comunicazione del concorso-progetto Leggo Quindi Sono-premio Le giovani parole, rivolto agli studenti italiani e dedicato all’editoria indipendente. Dal 2016 organizza il Foggia Festival Sport Story, manifestazione nazionale che racconta lo sport attraverso le arti e di cui è tra i fondatori.

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