Un tffo in piscina

Un tuffo in piscina #1

Era il terzo giorno che era lì, fermo.

Il primo giorno non ci aveva neanche fatto caso, non più di tanto: erano tutti col sangue al cervello per via del Fondo Lagumitas e anche lui s’era fatto in quattro per sistemare quella palla pelosa e aggrovigliata di numeri grossi – come la chiamavano giù alla Ricerca. Gli era sembrato il solito stronzo barbone che qualcuno della sicurezza, ai piani bassi, avrebbe dovuto mandar via; qualcuno che non era lui, comunque: da lassù, ventiquattresimo piano della Trentacinquesima, a malapena si vedeva il colore dell’impermeabile.

Eppure, a ripensarci, anche quel primo giorno, nel trambusto della chiusura, mentre cercavano di sminuzzare la palla pelosa e di nasconderla sotto i tappeti della finanza malata, gli aveva rifilato qualcosa di più di una semplice occhiata. Da sopra, guardando dalla vetrata che ogni mattina gli omini in giallo tiravano a lucido, col cellulare incollato all’orecchio aveva colto quell’impermeabile gonfio, sformato, sul marciapiede. Aveva fatto altro poi, la giornata era volata, ma prima di andar via, potevano essere le ventidue, mentre usciva dal garage sotterraneo si era ricordato di averlo notato di nuovo, con la coda dell’occhio, al buio, illuminato dai fari di un taxi che s’erano acquattati contro l’ingresso del palazzo. Fermo, lì sotto, sul marciapiede.

Il giorno seguente stessa solfa, ma più lenta: il grosso del lavoro era andato e bisognava soltanto dare l’ultima imbiancata – come dicevano i timorati di dio della Ricerca, quei fighetti. Potevano sbrigarsela anche da soli, lui aveva fatto tutto quello che doveva fare e, se lo ripeteva, si era confermato sui suoi livelli. Così, aveva avuto molto tempo per soffermarsi: l’impermeabile era spuntato intorno alle nove, sempre giù, allo stesso punto del giorno prima. Aveva fatto telefonate di routine, inviato e-mail e dato un’occhiata distratta ai titoli, camminando avanti e indietro sul parquet scuro, dalla sua postazione illuminata dal sole all’enorme stampa di Kandinskij che occupava un’intera parete all’ingresso. Si era fermato più volte, quel secondo giorno, dinanzi alla stampa: le lune, i pianeti o quel cavolo che erano fluttuavano geometrici nell’universo oscuro della fantasia russa del pittore, come sempre avevano fatto in quegli anni, retaggio di chissà quale appassionato di arte astratta che aveva occupato l’ufficio prima di lui. A sera, intorno alle venti, aveva chiesto a Melissa se sapeva niente dell’uomo con l’impermeabile, se qualcuno era andato giù a dirgli qualcosa, se non era il solito stronzo barbone sputato per sbaglio dalla Penn Station, uno di quelli che avevano perso il posto al dormitorio o roba del genere. L’aveva osservato dalla vetrata, ancora una volta, calcolando alla buona quante ore avesse trascorso lì, seduto su un marciapiede della Trentacinquesima, a Manhattan, tra Flatiron e Coreatown.

E così era andato anche il terzo giorno: una macchia incurvata grigia che non svaniva nella vetrata translucida del grattacielo, che quelli delle pulizie con le tutine gialle non erano riusciti a mandare via neanche quel mattino, lavorando di spatola e secchio. Aveva provato a non pensarci per tutta la giornata, tornando di slancio al Fondo Lagumitas – anche se ormai non c’erano più numeri pelosi, solo piccole cifre che chiunque avrebbe potuto smaltire – e profondendo il suo aiuto non richiesto ai piani bassi, ai novellini, alle cravatte agitate che correvano lungo il corridoio, chiedendo continuamente notizie inutili a Melissa, domandando di altri fondi, altri numeri, altre palle di pelo in realtà sotto controllo. Davanti, le lune vorticanti di Kandinskij e dietro, nella vetrata, quella cazzo di macchia che non voleva andar via, che sembrava anzi ingrandirsi, espandersi, tanto da portarlo talvolta a voltarsi di scatto, a girare la testa tra una comunicazione e l’altra, tra una carrellata di numeri e l’altra su uno dei tre schermi con i quali lavorava, quasi si sentisse osservato, nonostante i ventiquattro piani tra lui e l’impermeabile grigio. Nonostante la follia consapevole di quella sensazione.

Alle diciotto circa aveva allentato il nodo della cravatta, era andato in bagno, si era lavato la faccia con acqua ghiacciata e si era guardato allo specchio: il Fondo era svanito, il mondo era salvo ma lui aveva un volto che non si addiceva alla camicia italiana di sartoria che aderiva su misura al di sotto del mento – il colletto perfetto, le iniziali perfette, le cuciture ai polsi, anch’esse, perfette. Si era detto Miguel, Mike, che ti succede, perché fai così, perché non ti rilassi e non torni di là con la tua solita faccia, con la tua solita calma, con la virtù che ti ha portato fin qui e che ti contraddistingue agli occhi del mondo e che ogni giorno ti accompagna in ufficio, seduta accanto, sorridente, come una sorella maggiore? Perché non ti asciughi quella bella faccia latina e non te ne vai a casa prima, a goderti la cena con le tue ragazze? Perché non un tuffo, magari, più tardi, un tuffo in piscina?

«Melissa, mi scusi» aveva detto qualche minuto dopo, calando le labbra carnose sul microfono del fisso. «Melissa, le devo chiedere un piccolo favore».

Aveva osservato la scena con l’asciugamano ancora sul collo, le mani in tasca, ventiquattro piani più su, dentro la vetrata alta due metri e mezzo del grattacielo. Si era ricordato del binocolo che qualcuno gli aveva regalato per il suo trentaquattresimo compleanno e che aveva dimenticato nell’ultimo cassetto della scrivania. Melissa si era chinata ma era rimasta a distanza e un tizio della sicurezza era comparso alle sue spalle, guardingo. L’uomo si era sollevato dal marciapiede, l’impermeabile si era ampliato prima e curvato poi, quasi ingrossandosi. Melissa aveva fatto un cenno verso l’alto, e l’uomo, anche lui, aveva seguito il suo sguardo, la posizione del capo di chi guarda in alto ma non vede altro che vetro riflesso. Miguel, Mike, non si era mosso – la scrivania alle sue spalle e l’asciugamano bagnato ancora attorno al collo, il colletto italiano della camicia italiana incrinato, sgualcito, e la macchia grigia nella vetrata del grattacielo che scompariva pian piano così come raccontavano le lenti graduate del binocolo.

«Signor Rosa, quell’uomo è qui, lo faccio passare?».

Aveva esitato. Si era rimesso a posto la cravatta, aveva indossato nuovamente la giacca e con un paio di tocchi aveva sistemato gli schermi sulla scrivania, occultando l’asciugamano e nascondendo il binocolo in un cassetto a caso. «Melissa» aveva aggiunto prima di chiudere la comunicazione, «Melissa, ancora una cosa: da domattina gradirei non avere più davanti agli occhi questa stampa orrenda».

«Quale stampa?».

«Quella cosa enorme, astratta, che sta proprio davanti alla mia postazione».

«Ah, quella stampa».

«La faccia sparire, la sostituisca, veda lei: non la voglio più vedere».

No, comunque. Non era uno stronzo barbone. Intanto, non puzzava: un elemento che Mike avrebbe notato all’istante, sensibile com’era agli odori sgradevoli. E poi, nonostante quelle sembianze così strane, insolite, non ne aveva affatto l’aria.

Melissa l’aveva introdotto con circospezione, soffermandosi qualche secondo in più del solito, una mano sullo stipite e l’altra a tenere in ordine un ciuffo biondo sfuggito alla coda, gli occhi un poco sgranati di chi sta assecondando qualcosa di talmente insolito da sfuggire alla propria comprensione. Ne aveva visti di tipi strambi, Mike, la stessa Manhattan era una stramberia a cielo aperto, un circo umano che non badava a regole comportamentali, caratteriali, di vestiario, e a cui si era subito abituato, lavorando anzi di entusiasmo sin dal primo giorno in cui aveva messo piede negli Stati Uniti, ormai quasi vent’anni prima. Ma il tizio che aveva di fronte sembrava appartenere a una categoria a sé stante.

«Insomma, dovrà scusarci, ma ci stavamo chiedendo se non avesse bisogno di aiuto, semplicemente questo».

Aveva parlato solo lui fino a quel momento, la voce modulata verso il basso così come gli avevano insegnato i coach comportamentali del periodo post-laurea – è il contesto che regola il tono. L’altro si era limitato ad ascoltare, prima sostando sulla soglia e poi accogliendo l’invito di sedersi su una delle due poltroncine di pelle poste di fronte alla scrivania. Aveva occupato la seduta come se fosse un abuso, qualcosa di illegale.

«Sono tre giorni che è qui da noi, per così dire», gli sfuggì un sorriso, «ma non è nelle nostre politiche allontanare nessuno, men che meno con la forza, e tanto più che, voglio dire, ci sembra una brava persona».

L’impermeabile era del secolo scorso, su questo c’erano pochi dubbi. Miguel ne aveva visti di simili in Europa, a Parigi, da studente: la stoffa rumorosa, di un tipo di autunno che all’epoca non aveva ancora incontrato. Sotto quel drappo grigio gli si intravedeva una rientranza innaturale della schiena dalla forma di una grossa virgola capovolta, quasi a soffocargli il collo verso il basso, infondendogli quell’aria apparentemente dimessa che gli riusciva così naturale – e dunque no, non aveva sbagliato durante gli avvistamenti, guardando col binocolo dentro la vetrata, era proprio una gobba quella, una grossa gobba informe. Aveva i capelli sul castano rossiccio, con qualche striatura bianca ai lati, piuttosto male organizzati e molto radi, a parte uno strano ciuffo poco sopra gli occhi. Era grosso, la faccia grossa, le guance arrossate di chi è sensibile ai cambi di temperatura nonostante le ore trascorse tra la metropolitana e la strada. Sudava, era evidente, ma non sembrava nervoso.

«È qui di passaggio, per caso?». Si chiese quanti anni avesse, di preciso. Guardandolo così, ravvolto com’era, era veramente difficile a dirsi. «A Manhattan, dico?».

«Di passaggio?».

«È sceso alla Penn Station?».

«La stazione, sì».

«Sta cercando qualcosa? Qualcuno? Un lavoro?».

«No, non direi, non in questo momento».

A dispetto delle sembianze, aveva una voce morbida, che spiazzava. Mike ci faceva caso soltanto ora, durante quella breve pausa, cercando di intercettare il suo sguardo che, lento, si muoveva attorno alla scrivania, come sorvegliando qualcosa o qualcuno.

«Sto solo aspettando» aggiunse poco dopo, quasi non ci fosse granché da spiegare.

Arrivò una telefonata, Mike si scusò e la prese, alzandosi dalla poltrona e facendo due passi verso la stampa che aveva deciso di eliminare – i pianeti, le lune, che cazzata. Si accordò per un paio di cifre e diede indicazioni millesimali a chi gli parlava dall’altra parte, nonostante non avesse neanche capito chi fosse – aveva solo riconosciuto il settore, il piano, il comparto. Con la coda dell’occhio sorvolava le spalle del tizio che gli occupava l’ufficio, osservando la postura, il modo in cui teneva intrecciate le gambe sotto la poltrona, i piedi incrociati in un’unica stretta immobile, gli scarponi invernali fuori stagione.

«Bene». Era riapparso dietro la scrivania, ma senza sedersi. «Se non ha nulla in contrario, se la cosa non offende la sua sensibilità, mi farebbe piacere se per questa sera fosse nostro ospite alla buvette della società, che ne pensa?».

«La buvette?».

«Sì, insomma, il nostro caffè, al primo piano».

Gli venne fuori un sorriso un po’ instabile, non ancora imbarazzato, ad anticipare il fruscio della linea due dell’interno. «La mia segretaria, Melissa» fece poi, discostandosi dal microfono ma tenendo premuto il tasto, «si occuperà di tutto: può prendere quello che vuole, da mangiare e da bere, sarà lei ad accompagnarla alla buvette».

L’uomo non aveva mosso ciglio, non l’aveva ringraziato, né aveva detto altro. Aveva osservato Mike dare indicazioni alla segretaria, parlare alla tastiera di un telefono. Poi, con lo sguardo, era sceso sull’etichetta dorata che campeggiava lateralmente, sulla scrivania, un intarsio in legno di ciliegio che la società gli aveva fatto trovare il giorno del suo insediamento.

«Adesso, se non c’è altro…».

Mike aveva teso la propria mano e l’altro, l’uomo con l’impermeabile, anche se in ritardo di alcuni secondi aveva capito che era giunto il momento di andar via. Si era alzato anche lui, gli aveva dato la mano, l’aveva stretta.

«Per cosa sta quell’acca?».

«Come?».

«L’acca del nome, la scritta, lì».

Mike aveva girato l’intarsio di legno dalla sua parte, quasi non ne sapesse nulla o guardasse quell’etichetta per la prima volta. Aveva letto poi, come se davvero non ricordasse il suo nome: “Miguel H. Rosa”.

«Oh, quella?».

L’uomo con la gobba gli stringeva ancora la mano, non aveva intenzione di lasciargliela o quanto meno non prima di aver visto soddisfatta la propria curiosità.

«Sta per Harlem, l’acca».

«Harlem?».

«Harlem, sì…è un quartiere di New York City, ha presente?».

Le mani si erano slacciate, Miguel aveva distolto lo sguardo, riposizionando nel giusto verso l’etichetta di legno che recava il suo nome completo – erano anni che non ci faceva caso. Nel frattempo, Melissa aveva fatto capolino in ufficio, aspettando che l’uomo con l’impermeabile grigio la seguisse, stavolta con uno sguardo a metà strada tra il sorpreso e l’inorridito. Non aveva risposto alla domanda, se conosceva Harlem o meno. Si era voltato con uno slancio inaspettato per uno della sua stazza e subito si era avviato fuori dallo studio, aveva tolto il disturbo, evitando qualsiasi forma di saluto o di gratitudine per l’invito ricevuto. Una volta da solo, Miguel, Mike, si era strofinato le dita contro i polpastrelli della mano con cui aveva stretto per diversi secondi quella del suo strano ospite, ricordandone la ruvidezza, quasi scannerizzandone il vissuto. Non aveva senso, eppure la mano gli era sembrata familiare.

Parcheggiò come ogni sera nel viale d’ingresso della sua casa, a North Riverdale. La Mercedes nera lucente che incedeva lenta e muta, a fari spenti, come un panfilo di ritorno nel porticciolo di famiglia. In casa, al secondo piano, una luce gialla annunciava una presenza e giù, nel living, qualcuno stava guardando la TV – o più probabilmente non era stata spenta, al solito. La serata era eccessivamente tiepida e si era solo a maggio, la ristrutturazione era terminata soltanto qualche mese prima eppure, agli occhi di Mike, già sembrava avesse bisogno di qualche ritocco qua e là, dal giardino non ancora definito al bovindo laterale che dava sulla piscina.

«Eccoci arrivati».

A dispetto di quanto aveva immaginato, la visione della sua abitazione non aveva suscitato alcuna reazione di stupore. Lo vide aprire la portiera con fare distratto, familiarizzare sull’acciottolato in marmo che luccicava sotto i lampioni azzurrini del porticato, muovere due passi di lato e un paio in avanti, alle sue spalle, senza proferire verbo. Dentro, in casa, stessa reazione: le modanature “urban style” di cui andava tanto fiero, luccicanti e in armonioso disaccordo con il legno bruno che aveva deciso di mantenere nonostante le smorfie dell’arredatore, il vetro smerigliato con il quale aveva sostituito un paio di pareti, inscenando un unico e arioso living che si prendeva quasi l’intero piano e le decorazioni giapponesi, quelle erotiche, che tanto divertivano i suoi ospiti, non avevano sortito il benché minimo indizio di meraviglia nel nuovo arrivato. Aveva annunciato la sua presenza con un messaggio laconico, parlando di un ospite, senza specificare o anticipare nulla, inviandolo quand’era già sulla strada, senza preoccuparsi di una eventuale risposta.

«Lei è Jane» aveva semplicemente detto, poggiando la ventiquattrore sullo snack in formica della cucina openspace e indicando una giovane donna che scendeva i gradini del piano di sopra, scalza e con l’aria un po’ smarrita. «E lì fuori, in piscina, dovrebbe esserci Janine».

Jane gli aveva teso la mano e lui gliel’aveva stretta, accennando persino un sorriso ma senza dire nulla, senza presentarsi, inciampando poco nella limpidezza dei suoi lineamenti, solitamente così stranianti, almeno a primo acchito.

«Il signore si chiama…ehm, Quasimodo».

D’altronde, era stato lui a dirglielo. O meglio, a rivelargli che tutti, ormai da tempo immemore, lo chiamavano in quel modo, Quasimodo, un po’ per scherno e un po’ per abitudine, proprio come era sembrato a Mike ch’egli volesse intendere. Dopo quel loro primo colloquio, in ufficio, l’uomo non si era mai presentato alla buvette, né quella sera né nelle sere a venire. Tuttavia, puntuale, già dal giorno dopo, aveva fatto la sua comparsa sul marciapiede di sotto, presentandosi poi per tutta la settimana successiva e sostando lì ogni volta, talora acquattato, talora in piedi, fino a tramonto inoltrato. La stampa di Kandinskij era stata rimossa lasciando un’ombra più chiara sulla parete ma l’uomo con l’impermeabile, il gobbo che si chiamava o si faceva chiamare Quasimodo e che occupava la vetrata limpida della sua porzione di grattacielo, era invece rimasto al suo posto. Era stato lo stesso Mike a evitare che fosse allontanato, tanto con le buone che con le cattive, e questo nonostante le sollecitazioni dei suoi collaboratori, della sua segretaria, del capo della vigilanza preposto alla sicurezza dell’intero palazzo, tutti stupiti dal suo atteggiamento, tutti in attesa che fosse proprio lui, di persona, così come li aveva rassicurati, a risolvere la situazione.

«Ho pensato che stasera può venire da me, che ne dice?».

«Dove?».

«A casa mia».

Gliel’aveva detto quand’era ormai scuro, con le luci del grattacielo quasi del tutto spente, al termine di una settimana in cui aveva lavorato poco e male, distratto dal binocolo che adesso faceva tappa fissa sulla scrivania. Venerdì, per l’esattezza.

Come ogni sera era sceso nel garage, solo che, anziché volare sulla Broadway, stavolta era rientrato sulla Trentacinquesima, dalla parte opposta, fermandosi in sosta vietata davanti al palazzo di vetro che da circa dieci anni frequentava per lavoro. Era sceso dalla macchina, in giacca e cravatta, superato dai taxi gialli che sfrecciavano con i turisti coi nasi contro i finestrini; aveva tirato un gran sospiro e poi aveva colmato la distanza che lo separava da lui. L’uomo l’aveva guardato dal basso verso l’alto, era seduto a terra, le ginocchia piegate in una posa sgraziata aggravata dalle sue stesse fattezze, le braccia in tensione ad avvolgere le gambe grosse. Gli aveva risposto in modo ambiguo, dandogli solo il sospetto di aver accettato quell’invito, quella mano tesa, per poi rivelargli il suo nome, accettando di rispondere alla sua domanda di amicizia o quello che era e con cui pensava così di risolvere quella strana situazione, di mettere fine alla cosa. Dei due, quello agitato, in difficoltà, era Mike, su questo non c’erano dubbi e non ne ebbe lui stesso, lì, mentre gli chiedeva il nome, guardandolo dall’alto verso il basso, con una Mercedes luccicante alle sue spalle, il motore che si spegneva in automatico per limitare le emissioni di anidride carbonica. Quello stesso pomeriggio, qualche ora prima, aveva sbraitato ingiustamente contro una tizia occhialuta della Ricerca e il giorno precedente aveva mandato a riposo un giovane asiatico che la sapeva lunga sul mercato obbligazionario mondiale. Erano tre notti che non chiudeva occhio.

«Mi sono persa le presentazioni ufficiali?».

Janine era comparsa alle spalle di Quasimodo, in accappatoio bianco, la solita uscita. Sotto aveva unicamente il costume, l’odore del cloro addosso, i capelli ancora bagnati, tirati all’indietro, pettinati di fresco. Rispetto a Jane sembrava non aver notato l’aspetto insolito dell’ospite, lo sguardo stralunato, le pose goffe e, soprattutto, quell’enormità che lo sormontava oltre le spalle curve, malcelata dall’impermeabile liso e d’altro secolo.

«Io sono Janine» disse con naturalezza, allargando il suo sorriso da trentenne realizzata e tendendogli la mano.

«Mike non è il massimo quando si tratta di convenevoli».

«Ti ho annunciata poco fa, immaginavo fossi in piscina, con questo caldo poi…».

«Jane non mi ha voluto seguire».

Un breve sorriso, complice e un poco imbarazzato, comparve anche sul volto di Jane, rendendola ancora più giovane e bella e producendo uno strano silenzio interrotto soltanto dal ronzare della televisione, dimenticata in un angolo dell’ampia sala e accresciuto dalla curiosità limpida di Quasimodo, l’ideale centro di quella suspense domestica. Miguel si era tolto la giacca e sbottonato i polsini della camicia, in automatico, proprio come faceva da ragazzino, migliaia di chilometri più a sud di New York, North Riverdale, e stava valutando se intervenire o meno, se rendere più chiara la situazione al loro ospite inaspettato, nel frattempo prendendo tempo con un bicchiere di vino rosso recuperato in giro. Ma fu Janine, ancora una volta, a parlare.

«Noi stiamo insieme, noi tre», rivelò di colpo, abbracciando con un gesto della mano la ventenne Jane e il trentaseienne Miguel H. Rosa, il padrone di casa. «Insieme, sì, tutti e tre, come una cosa sola, una famiglia» aggiunse poi, sorridendo allegra e avviandosi verso il frigorifero.

Quasimodo non disse nulla, guardò soltanto dalla parte di Mike, quasi aspettasse una conferma. Questi gli sorrise, rimbalzando poi lo sguardo su Jane che, avvolta in un golfino da casa, si sentì in dovere di intervenire anche lei.
«Mai sentito parlare del poliamore?».

«Poliamore?».

«Sì, il non possesso».

Quasimodo rimase sulle sue e Mike parlò di esperimento, cercando di rendere meno impegnativa la cosa, meno filosofica di come la vedeva Janine e di come, da qualche tempo, cominciava a interpretarla anche la giovane Jane – quando la mettevano su questi termini non c’era modo di uscirne puliti.

«Non è un esperimento» lo interruppe Janine, dando un sorso alla Pepsi, «è un rapporto, una relazione che dura oramai da due anni».

«Certo, Janine, ma forse non è il caso di…».

«Una cosa filosofica che si rifà all’antica Grecia» aggiunse con fare serioso, rivolgendosi unicamente a Quasimodo e
avvicinandoglisi. «Ha presente, signor Quasimodo, i filosofi greci?».

«Temo di non essere un grande lettore, signora».

«Comunque, ne parlano spesso anche su canale trentuno» si era intromessa Jane, prendendo la mano di Mike, visibilmente in affanno. «Forse ci è capitato anche lei, qualche volta, su quella trasmissione che parla di sesso e cose così, no?».

Il giardino aveva bisogno di una sistemata, in effetti. La piscina di una maggiore cura. Janine la frequentava ma non se ne occupava e a Jane interessava poco, aveva la pelle troppo chiara, temeva le scottature anche in primavera. Quasimodo non aveva bagaglio, indossava una felpa sformata con la squadra di basket stampata davanti, le lettere scrostate, pescata da un vecchio baule che Mike gli aveva messo a disposizione il giorno in cui l’aveva sistemato giù, nella stanza degli ospiti che non aveva mai ospitato nessuno. Si aggirava con quella indosso, in giardino, il tagliaerba impugnato con fermezza, curvo alla sua maniera ma sempre con l’impermeabile sulle spalle, come un manto. Jane lo guardava lavorare dalla finestra del suo studio, erano giorni che lo osservava staccando gli occhi dal computer, affascinata da ciò che più di ogni altra cosa voleva contenere, serbare, quasi che avesse qualcosa di vivo, là dietro. Qualche volta preparava da mangiare, un sandwich, un’insalata, un panino con pollo e patatine ordinato su internet per entrambi.

«Quasi non mi rivolge la parola».

«Parla poco, sì».

«Mi sembra spaventato».

Al telefono, Mike la rassicurava. Era soltanto un uomo che aveva bisogno di aiuto, che stavano aiutando per qualche giorno, le diceva, non c’era nulla da temere. Lei gli lasciava le cose da mangiare fuori, sul tavolino, coperte con una pellicola trasparente.

«È innocuo, Jane, l’hai visto anche tu, no?».

«Sì, ma non riesco a togliergli gli occhi di dosso, mi sento in dovere di controllarlo, non ti so spiegare, quasi di proteggerlo».

A letto, qualche sera prima, Janine gli aveva chiesto che intenzioni avesse. Mike, in mezzo tra loro due, sentiva il respiro regolare di Jane, immerso nei sogni, e quello leggermente rauco di Janine dall’altra parte, interrotto dalle boccate di fumo – fumava solo in assenza di Jane, o quando lei dormiva profondamente, era uno dei loro punti fermi. Gli avvolgibili della camera da letto erano alzati, la luce della luna li affrancava dall’oscurità e lui era con le spalle contro la testata del letto, lo sguardo fisso sul televisore, l’audio azzerato su una vecchia sit-com anni ’80 in cui risaltavano pullover arancioni e dolcevita verdi. Janine era nuda, il seno piccolo ma ancora teso verso l’alto che seguiva il ritmo del respiro, i capelli corti scompigliati sulla fronte e la voce seria che intraprendeva in rari momenti della giornata.

«Non ho nessuna intenzione in particolare, Janine, e non fare la voce da avvocato».

«Nessuna? Vuoi dire che lo adotteremo? Adotteremo un signore gobbo incontrato per strada? Un senzatetto?».

«Non adotteremo nessuno».

«Fantastico».

«E poi non è un senzatetto».

«Io mi occupo di minori, Mike, non sono ferrata negli affidamenti di persone di mezz’età».

«Ti prego, Janine, vedrai che presto risolveremo la cosa».

«Non mi dà fastidio la sua presenza, non fraintendermi, anzi: quasi non si avverte… Solo, non sappiamo nulla di lui».

«Si tratta di un girovago, credo, un viaggiatore».

Senza alcun preavviso, mentre rassicurava Janine, con gli occhi della mente era andato velocissimo all’armadio alla loro sinistra, la sua anta, l’aveva aperta ed era andato giù, frugando in una rientranza che fungeva da antro nascosto e ritrovandosi davanti la cassetta di alluminio con il marchio di Stato impresso, mai utilizzata. L’aveva aperta e aveva inquadrato la pistola.

«Voglio dire: non parla, non racconta, non dice niente, come facciamo a fidarci di lui?».

«Sta aspettando».

«Questo me l’hai già detto, Mike, ma cosa? Chi?».

In ufficio tornarono le lunghe riunioni, sedute affannose nella famosa “stanza ovale” – era stata soprannominata così dai più vecchi della società. In ballo c’era un nuovo fondo, una palla bella grossa – «un bel pelo, signori» aveva detto il capo della Ricerca, quello che si dava un tono da umorista. C’erano di mezzo gli arabi e Miguel, Mike, sapeva che il suo apporto sarebbe stato determinante, quanto meno in partenza: doveva mediare, assicurarsi il terreno giusto e muoversi tra centinaia di telefonate, individuare i varchi, scorporare, delineare la strada che altri, dopo di lui, avrebbero smaltito nel minor tempo possibile – «Non c’è nulla di illegale in quello che facciamo» diceva in questi casi ai suoi collaboratori, «certo, neanche di etico».

Discuteva, montava e smontava cifre, svolgeva quello che ormai da vent’anni era il suo lavoro senza perdere di vista ciò che stava accadendo dalle sue parti, a North Riverdale, scrivendosi in chat con le ragazze, chiedendo di lui, dell’uomo con l’impermeabile che in quel momento stava tirando fuori dalla piscina le api cadute, il retino calato in acqua e il sole sempre più caldo di quei giorni stranamente afosi a sbattergli sul volto.

«Ma si dà da fare, no?». Chiedeva al telefono. «Voglio dire, è uno che lavora?».

Da una parte, sul banco ovale di cristallo con le impronte di caffè lasciate dalle tazze, conduceva i giochi miliardari di una manciata di eletti sparsi per il mondo, alla sua maniera, alzando la voce quando era il caso e abbassando i toni durante le ore più sfiancanti – coaching, né più né meno. Dall’altra, si informava della quotidianità di uno sconosciuto con una strana gobba comparso per caso giorni prima dentro al vetro del suo mondo verticale, dandogli da mangiare, di che vestirsi, persino allestendogli una stanza da letto improvvisata in una camera ormai più magazzino, più riserva di vini mal conservati che vera e propria stanza degli ospiti. Sul fondo della stessa, rivestita di legno grezzo e con le assi del pavimento scricchiolanti, era posizionato un organo Hammond che Miguel non suonava da un secolo e che si era portato con sé durante i tanti traslochi, il panno verde impolverato sulla tastiera impolverata.

Un mattino, sul presto, prima di andare al lavoro, approfittando dell’assenza di Quasimodo aveva fatto qualche passo lì dentro, provando a violare la sua intimità impersonale, cercando indizi che non c’erano e portando i suoi mocassini inglesi fino in fondo, laddove era posizionato quello strano oggetto con i tasti bianchi e neri, i pedali sotto.

«Sembra un pianoforte, ma è un po’ diverso».

Miguel aveva sussultato, non si era accorto del passo di Quasimodo. Questi era comparso alle sue spalle, nella solita felpa sformata, l’asciugamano in una mano, pronto per il giardino. Si era voltato, l’aveva guardato negli occhi, visibilmente agitato, spaventato.

«È un Hammond» aveva poi detto, ricomponendosi. «Un vecchio organo Hammond».

Quasimodo l’aveva visto andar via, tamponandosi la fronte già sudata, l’aria irrespirabile della mansarda accentuata dal calore di una giornata che si annunciava ancora più afosa della precedente, nonostante fossero appena le sette del mattino.

«E comunque, non deve necessariamente svegliarsi così presto» aveva aggiunto Mike, parlando sulla soglia, le goccioline di sudore che si incamminavano anche sulle sue tempie. «Può occuparsi del giardino, della piscina, di quello che vuole, anche più tardi, non ci sono orari da rispettare».

«Va bene».

«Io rispetto questi orari perché ogni ora in meno può costarmi qualche migliaio di dollari, altrimenti me ne starei a letto fino mezzogiorno, mi creda».

Quasimodo l’aveva guardato senza dire nulla, producendo un’espressione che sembrava dirgli: “e allora, perché non lo fa? Perché non se ne sta a dormire fino a tardi?” – o almeno, questa era l’impressione che aveva avuto Mike.

«Anzi» aveva concluso prima di andare, «si faccia un tuffo, ogni tanto».

«Un tuffo?».

«In piscina, sì».

All’etichetta con il nome impresso, l’intaglio in legno di ciliegio con su scritto Miguel H. Rosa, era toccata la stessa sorte della stampa di Kandinskij. L’aveva messa via proprio quel giorno, dopo l’incontro avuto con Quasimodo, fatta sparire. Era entrato in ufficio, si era seduto davanti ai tre monitor, aveva chiesto qualcosa a Melissa premendo il solito tasto e poi si era strofinato gli occhi con l’indice e il pollice della mano, quasi fosse la fine di una lunga giornata di lavoro che invece era appena iniziata. Poi, con una strana foga, aveva tirato a sé l’etichetta e di forza l’aveva cacciata dentro un cassetto, sbattendo l’anta con il piede. Il telefonino, qualche tempo dopo, aveva squillato.

«Non c’è più, se n’è andato».

«Cosa? Chi?».

«Quasimodo!».

«Che vuol dire se n’è andato, Jane? Ti ha detto qualcosa?».

«L’ho visto uscire in giardino, come sempre, si è seduto sul prato davanti alla piscina, è rimasto lì quasi un’ora ma senza lavorare, senza fare nulla…».

«E poi?».

«E poi si è alzato, ha aperto il cancello sul retro che dà sulla strada ed è uscito, è andato via».

«Ma da quanto tempo? Forse è andato solo a fare una passeggiata».

«Non ha mai fatto niente del genere in tutti questi giorni».

«Non vuol dire nulla, ma ti ha parlato? Avete parlato?».

«Macché! Sono tre ore, ormai, che è fuori».

«Tre ore?».

«Se n’è andato, Mike, è andato via».

Foto di Alessandro Galano

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Alessandro Galano è nato a Foggia il 21 luglio del 1982. Laureato in Lettere Moderne (110/110 con lode) con Master biennale in Giornalismo. Giornalista pubblicista dal 2006, idoneo all’esame di Stato come giornalista professionista dal 2018. È docente di italiano non di ruolo presso le scuole secondarie di primo e secondo grado. Dal 2001 collabora con testate giornalistiche locali, regionali e nazionali, ha svolto stage presso la Gazzetta del Mezzogiorno e l’Ansa (redazione politico-parlamentare di Montecitorio), e attualmente è redattore per Jazzit e Foggia Città Aperta. Dal 2009 si occupa dell’organizzazione degli eventi e dell’ufficio stampa per Ubik Librerie, curando le attività culturali della libreria Ubik di Foggia (con oltre 60 incontri annuali con i più autorevoli intellettuali del panorama nazionale). Svolge service giornalistici per Cooperativa Controra ed è il responsabile della comunicazione del progetto di housing sociale “Abitare le Relazioni” della Fondazione Siniscalco Ceci – Emmaus. È co-fondatore e responsabile della comunicazione del concorso-progetto Leggo Quindi Sono-premio Le giovani parole, rivolto agli studenti italiani e dedicato all’editoria indipendente. Dal 2016 organizza il Foggia Festival Sport Story, manifestazione nazionale che racconta lo sport attraverso le arti e di cui è tra i fondatori.

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