Vigilia 2007
Stavano insieme da due mesi e Laura fin da subito aveva precisato che la sera della vigilia di Natale l’avrebbero passata da lei. Per Laura era una tradizione da portare avanti e condividere con le persone cui voleva bene e ora voleva bene a Livio. Livio avrebbe cenato anche fuori, ma Laura gli aveva ribadito l’importanza di trascorrere la ricorrenza in un ambiente familiare. Più volte gli aveva raccontato di come la sera del ventiquattro, da bambina, tutta la sua famiglia si riuniva e di come lei percepisse pieno di puro amore l’agitare il pandoro per spargere lo zucchero a velo, l’ennesimo pezzo di legno a rinvigorire un fuoco accesso dalla mattina, la paura di sua nonna di fare tardi per la messa di mezzanotte.
La casa di Laura non era estranea a Livio che ora però sentiva quei quarantaquattro metri quadri, con le mattonelle a rombo del bagno, con la cucina senza cappa, con la locandina de I Quattrocento Colpi sulla porta della camera, con il puffo di velluto sempre più stropicciato, carichi di un significato diverso da quello delle ricreazioni quotidiane di quei due mesi appena trascorsi.
Laura ci teneva alla buona riuscita della serata, lo si capiva da come cercava di leggere negli occhi di Livio il desiderio di non essere da nessun altra parte. Non gli aveva fatto muovere un dito: gli aveva servito una cena natalizia rivisitata con estro, si era mostrata più affettuosa del solito e, con leggerezza, si era preoccupata che non gli fosse mancato nulla.
Quando Laura prese il tabacco e lo posò sulla tavola, Livio capì che era arrivato il momento in cui lei avrebbe messo su la moka e, per la prima volta nella serata, lasciò cadere il suo sguardo nel vuoto e fece di tutto per non seguire i movimenti di Laura, indaffarata a caricare la caffettiera.
Tornata alla tavola per girarsi una sigaretta, Laura non poté fare a meno di accorgersi dello stato confusionale di Livio, con il volto basso, illuminato a scatti dalle lucine dell’albero.
«Tutto bene?» gli chiese, sedendosi su di lui e avvicinandosi con le labbra per baciarlo.
Livio fece segno di sì, evitò le labbra di Laura, le mise il braccio dietro la schiena e la strinse forte. Con il mento appoggiato sulla spalla di Laura, fissava l’alternarsi dei colori nella stanza imposto dalle decorazioni natalizie.
«Bello, no?» gli domandò Laura, con la testa girata verso l’aura cremisi del soggiorno.
«Già» si limitò a dire Livio, impegnato a scrutare gli umori della caffettiera.
L’ambiente era illuminato di turchese quando Laura rispose al fischio della moka. Prese due tazzine, le adagiò sulla tavola, le riempì di caffè e posizionò la moka proprio sotto gli occhi di Livio che, come se provasse a trattenere un impeto di origini lontane, corrugò la fronte e si nascose la faccia con la mano.
«Hai mal di testa?» chiese Laura.
Livio si riprese. Con uno scatto fulmineo, prese la moka e la scagliò con forza contro l’albero di natale.
Due o tre rami cedettero, l’albero fu scosso dalla moka che si schiantò sul termosifone adiacente, scheggiandolo. Il caffè rimasto si sparse qua e là in macchie prive di senso.
Laura scattò in piedi. Il suo stupore durò poco. Un pianto isterico, colmo di singhiozzi, prese il sopravvento. Livio si era alzato, abbandonato in un’espressione mortificata. Non si capiva se fosse dispiaciuto per il suo gesto o per qualcos’altro che solo lui sapeva.
Senza chiedere spiegazioni, piangendo, Laura lo supplicò di andarsene.
Livio, con una postura da sconfitto ancora una volta, si fermò sulla soglia della porta. Si girò verso Laura, che lo guardava attraverso lacrime infinite.
«Anche a me piace la vigilia» le disse, quasi per precisare, con un tono rassegnato. Poi uscì. Quando richiuse la porta, la sentì singhiozzare ancora più forte.
Il giorno dopo le inviò un messaggio di scuse. Laura non rispose. Livio non le scrisse più.
Vigilia 2010
Livio non si era fatto molti amici da quando si era trasferito per lavoro. In città aveva provato a fare nuove conoscenze senza grandi risultati. Durante le giornate di campionato o di Champions si sceglieva un bar e si fingeva tifoso, cercando di capire per chi tifassero le facce più amichevoli. La sua assoluta ignoranza calcistica veniva fuori subito o con una domanda di troppo o con un commento sconveniente, e anche chi gli aveva prestato un minimo di educata attenzione non ci metteva troppo a liquidarlo.
All’inizio si consolava con lunghe chiacchierate al telefono con qualche amico e con l’aumento di stipendio procurato dal trasferimento, con il tempo però si annoiò a non avere nessuna novità da raccontare ai vecchi amici e a non averne dei nuovi da presentare.
Quando il direttore dell’azienda dove lavorava lo invitò a cena, a Livio non sembrò vero. Poteva essere la serata giusta per socializzare. Il direttore lo aveva invitato in modo confidenziale: non ci sarebbero stati altri colleghi di lavoro, solo la famiglia del direttore e qualche amico. A Livio parve un bel gesto, soprattutto in una sera così particolare, e apprezzò molto la sensibilità del superiore che sicuramente aveva intuito le sue difficoltà nell’integrarsi in un contesto estraneo.
Era il ventiquattro dicembre.
Dovette tenersela bene a mente la gentilezza dell’invito all’ennesima precisazione del direttore di ricordarsi esattamente il giorno in cui l’attività era decollata, indicando ai presenti, come aveva indicato la prima volta, il dipinto monocromatico della serie today di On Kawara appeso in bella vista sul muro del soggiorno.
Il cinque marzo del duemila erano arrivati i soldi veri e, infatti, aveva evidenziato con il dito, Mar. 5, 2000 era il titolo del dipinto, ed era originale, aveva tenuto a scandire il direttore. «L’acquisto è venuto da sé» aveva concluso il padrone di casa con un’alzata di spalle già collaudata.
Tutti gli altri sembravano divertiti ad ascoltare come il direttore aveva voluto far sua quella fortunata casualità cosmica. La moglie, con ampi movimenti delle braccia, sembrava volesse sottolineare le parole del marito mentre il figlio guardava con smania i regali ancora impacchettati che non erano sotto l’albero ma sotto il quadro di On Kawara.
Livio, non un appassionato d’arte, buttava là qualche occhiata incuriosita, avvicinandosi in modo impacciato all’opera. Fresco dell’esperienza maturata nei bar, sapeva che era meglio tenere la bocca chiusa e si limitava a proferire dei sorrisetti complici alla reiterata esclamazione «Pazzesco, no?» del direttore.
La padrona di casa portò in tavola i caffè con un vassoio che a Livio sembrò pregiato. Versò il caffè a tutti e posò la caffettiera al centro del tavolo.
Livio passò in rassegna i suoi commensali tutti impegnati nel far domande mai ritenute ovvie dal direttore. Un formicolio gli attraversò la nuca e si grattò nella maniera che sul momento gli riuscì più discreta.
Erano tutti seduti a gustarsi il caffè, il direttore si compiaceva della curiosità dei suoi invitati, la moglie faceva un segno di approvazione con la testa quando lo riteneva utile.
Per afferrare la caffettiera al centro della tavola, Livio si dovette sporgere con il busto. Il direttore, affabile, gli fece un cenno di intesa sulla bontà di quella particolare miscela arabica, e lui era già con la caffettiera tra le mani e lo sguardo in un punto non precisato della stanza.
Nel momento del lancio Livio non riuscì a prevedere che la caffettiera sarebbe rimbalzata su un controtelaio e si sarebbe sfracellata sul muro dove era appeso Mar. 5, 2000: lui aveva mirato verso l’angolo in fondo al soggiorno, ritenuto il punto più lontano dalla tavola e il più profondo della stanza.
On Kawara giaceva a terra, vinto da una pozza nera di miscela arabica.
Il figlio del direttore scoppiò in un pianto disperato, intanto la madre del bambino era persa in una smorfia impassibile come se si fosse appena ricordata di un’ischemia in corso.
Il direttore afferrò Livio per il collo e lo trascinò quasi a terra. Nessuno accennò a far niente anche quando il direttore era lì lì per colpirlo. Quel pugno Livio lo sentì anche se non arrivò mai. Il direttore si ricompose, lo rialzò dal pavimento, senza preoccuparsi di essere delicato, e risoluto aprì la porta di casa che non vedeva l’ora di richiudersi al passaggio di Livio.
Dopo Natale, Livio tornò al suo paese. Aspettò gennaio e la fine delle feste per recarsi al patronato e presentare la domanda di disoccupazione.
Vigilia 2013
Nell’ultimo periodo, Livio era stato lontano per lavoro e gli sembrò doveroso passare la sera della vigilia da sua madre.
Sballottato tra hotel di lusso, mete esotiche, ristoranti stellati, pronto a testare la qualità dei coupon messi in vendita dai siti online, si ritrovò ad aver bisogno della quiete che possono garantire solo gli spazi dell’infanzia.
Con un panettone in mano percorse il vialetto di ingresso della sua vecchia casa. A dargli il benvenuto, sopra il tappetino della porta d’ingresso, c’erano quattro caffettiere.
Senza aver suonato, la porta si aprì e comparve sua madre, dimostrando una maggior reattività ai passi del figlio che al campanello.
«Mi prendi già in giro?» le chiese senza neanche salutarla.
«Volevo mettere le mani avanti» gli sorrise. «Queste le lanci fuori però» e gli diede un caloroso abbraccio materno di benvenuto.
Durante la cena si aggiornarono sulle ultime novità delle rispettive vite. L’abituarsi alla pensione, il tempo a disposizione di cui non sapere che fare, le crepe a causa del maltempo sulla tomba del marito, quelle di sua madre. Il lavoro che aveva ingranato bene, le foto dei posti in cui era stato, qualche pettegolezzo su vecchi amici di infanzia e l’aver iniziato a frequentare una ragazza, quelle di Livio.
Al fischio della caffettiera, sua madre andò a versare il caffè.
«Quante vigilie ormai?» gli chiese.
«Ventinove» rispose Livio con la testa bassa e anche la voce.
Sua madre emise un risolino, non divertito, di circostanza, per stemperare un po’ la situazione.
«C’è poco da ridere» disse Livio. Poi la guardò con uno sguardo supplichevole e bisognoso al tempo stesso, per ottenere un permesso senza infastidire le parole.
«Vai» disse lei. «Però fuori, non in casa» e gli passò anche la caffettiera nuova appena liberata dall’ultima goccia di caffè.
La donna, dalla finestra di cucina, osservava il figlio in giardino intento a lanciare caffettiere, poi guardò una vecchia fotografia del marito per spartire i sensi di colpa che le bussavano al cuore.
Vigilia 2019
Il bambino aveva quasi cinque anni quando la moglie di Livio fermò suo marito sulla soglia di casa. In diversi anni di matrimonio, ogni ventiquattro dicembre era la stessa storia: Livio, puntualmente, dopo aver servito il caffè si defilava fuori con la caffettiera per poi riapparire con aria assente e pensierosa. L’ipotesi più probabile era che gli piacesse prendere il caffè al fresco, cosa che però non faceva mai il resto dell’anno, e soprattutto non si portava mai dietro la tazzina. Probabilmente era una qualche superstizione, ma era arrivato il momento in cui la discrezione era degenerata nella più incontrollabile curiosità.
Lo fermò un attimo prima che uscisse e gli tolse la caffettiera dalle mani. Suo figlio era seduto a tavola, osservava tutto e si leccava il cioccolato dalle dita.
«Ma si può sapere dove vai, ogni anno, con questa caffettiera?» gli chiese faccia a faccia, con quella di Livio incredula.
In tanti anni nessuno gli aveva fatto questa domanda. Né quando aveva fatto quello che doveva fare davanti a tutti né quando si era nascosto per farlo. Aveva perso baci desiderati, amici che avrebbe voluto conoscere, occasioni di cui avrebbe approfittato, e nessuno gli aveva mai chiesto perché.
Livio sorrise a sua moglie e cercò di togliersi dagli occhi la lieve ostilità nei suoi confronti per non avere in mano la caffettiera.
Senza farsi pregare, Livio raccontò di una vigilia di Natale di quando era ancora un bambino. Raccontò di sua madre intenta a preparare il caffè e di suo padre intento a seguirne ogni mossa come se la volesse ritrarre nei gesti. Raccontò di una domanda che gli era venuta spontanea e di come, subito dopo aver ricevuto la risposta, aveva lanciato la sua prima caffettiera colpendo il frigorifero. Raccontò di come sua madre e suo padre non lo avevano rimproverato e di come sua madre aveva sminuito il gesto con un «Andrà meglio l’anno prossimo, vedrai». Raccontò di come, negli ultimi trentacinque anni, aveva lanciato caffettiere a destra e a manca in attesa di quell’unica caffettiera che gli dimostrasse la possibilità dell’esistenza al mondo di un uomo veramente buono. Spiegò alla moglie la teoria di sua madre, convalidata da un cenno della testa del padre, di come le possibilità dell’esistenza di Babbo Natale fossero uguali alle possibilità che una caffettiera, lanciata in un punto qualsiasi, finisse in un buco nero.
«Non potevo dimostrare l’esistenza di un uomo veramente buono» spiegò Livio amareggiato. «Era più probabile che mi si manifestasse un buco nero».
Prese la caffettiera dalle mani della moglie e gliela portò al volto. «Se questa caffettiera finisse in un buco nero, allora non sarebbe impossibile che, da qualche parte, esista un qualche esempio di pura bontà» le disse con la liberazione di essersi una volta per tutte discolpato e di come il motivo del suo gesto fosse così importante da averlo tenuto segreto per tutti quegli anni. «Non tutto sarebbe perduto» affermò Livio, con un entusiasmo che implorava comprensione.
«La posso lanciare io?» supplicò il bambino, avvicinatosi, che adesso giocava a intrecciarsi con le gambe della madre.
La moglie di Livio guardò il marito. Gli prese nuovamente la caffettiera dalle mani e la passò al bambino. «Magari è la volta buona» sorrise la donna.
La caffettiera fece appena due metri e si afflosciò sul prato.
«Dovremmo costruire una macchina, papà, per lanciarla a tutta velocità!» suggerì il bambino per distogliere l’attenzione dal suo fallimento.
Livio lo prese in braccio e, agitandolo dolcemente, scherzò sul fatto che poteva provare a lanciare lui.
Appena la moglie di Livio cominciò a sentire freddo, rientrarono in casa.
Guardarono S.O.S. Fantasmi tutti insieme sul divano e, a mezzanotte, scartarono i regali.
Vigilia 2038
Il figlio di Livio si laureò in Fisica Quantistica il 17 dicembre.
Una settimana dopo, appena versato il caffè a tutti gli invitati, Livio si recò in cucina con la caffettiera ancora in mano, la pulì ben bene e la rimise con riguardo a posto.
Quella caffettiera, prima o poi, avrebbe prodotto nelle sue vicinanze una deformazione tale che la luce in allontanamento da essa avrebbe subito uno spostamento verso il rosso gravitazionale infinito.
Livio, questo, lo sapeva.
Copertina di Domitilla Marzuoli
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Luca Giommoni ha pubblicato racconti su antologie e riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, Narrandom, Spazinclusi, Clean, Malgrado le mosche, Il Corriere Fiorentino, ecc.
Il rosso e il blu – Una comune favola di migrazione (effequ) è il suo primo romanzo.