Studio per Ofelia (ritratto di Elizabeth Siddal), John Everett Millais, Public Domain via Wikimedia Commons

Parlami di Miriam

Nonna dorme con la cornice tra le mani. Gliela sfilo piano, facendo attenzione per non svegliarla, e la riappoggio sul comodino. Nella fotografia in bianco e nero, lei e Miriam, spalla contro spalla, sedute su un covone, belle della bellezza dei vent’anni appena nati. Due regine in abiti da serve.

Quasi mi sembra di conoscerle da sempre, è strano pensare che fino a poco tempo fa Miriam fosse soltanto un nome che sentivo mormorare a nonna quando venivo in visita. Quando parla schiude appena le labbra e bisogna fare uno sforzo per comprendere, tanto che all’inizio ho creduto che fosse una storpiatura di Amelia, mia madre. Presto però è diventato chiaro che era proprio Miriam che invocava così spesso. Un’altra degente della casa di riposo? Le infermiere non conoscevano nessuna che si chiamasse così. Una lontana parente di cui ignoravo l’esistenza?

Ho chiesto a mamma. «Una sua amica d’infanzia. Morì giovane.»

Per lei il discorso era chiuso, ma non per nonna.

«Miriam, dove sei?»

«Sono stanca, Miriam.»

«Non è ancora arrivata Miriam? Dobbiamo battere i tappeti.»

Perdeva tutti i nomi, ma non quello. Ne ero quasi gelosa: la sua memoria cancellava ogni cosa, me compresa, ma preservava una tizia morta da chissà quanto. Perché, pur vivendo nell’oblio quasi anche di sé stessa, non poteva dimenticarla?

Ho dovuto sfruttare i momenti, sempre più rari, in cui la nebbia che le consuma la mente si attenua, gli attimi in cui ti riconosce, o quanto meno si riconosce, ricorda qualcosa della propria vita.

Un venerdì pomeriggio l’ho trovata distesa, serena, credevo dormisse, come oggi, invece mi ha guardata e ha sorriso «Anna, tesoro, vieni a darmi un bacio.»

Mi riconosceva per la prima volta da giorni. Seduta sul letto accanto a lei, le ho tenuto la mano e raccontato inezie: uno scherzo tra colleghi; un magnifico vestito troppo caro visto in vetrina… Mi ascoltava, era lì, sorrideva, davvero presente, la domanda è uscita da sé: «Nonna, chi è Miriam?»

Ha sussultato, uno scatto brusco del corpo esile e stanco. «Perché? Che t’hanno detto?» aveva un tono strano. Ostile, oppure impaurito. Ho spiegato che la invocava spesso ed ero curiosa.

Si è pacata ma non ha detto granché quel giorno. Ce ne sono voluti molti altri perché poco alla volta Miriam riprendesse vita nelle sue parole. Mi raccontava la loro infanzia: nate nello stesso scampolo di campagna, in due case vicine, cresciute insieme e diventate presto inseparabili; la scuola, la domenica a messa e poi ad aiutare gli uomini nei campi e le donne dentro casa; i rari giochi, i sogni ancora più rari. Poi il lavoro, due domestiche al servizio della stessa famiglia. Stavano sempre appiccicate, Alma e Miriam, in paese le chiamavano le gemelle siamesi.

«Non immaginavano…» ha sussurrato con una smorfia a metà tra ghigno e spavento. C’erano cose che non poteva pronunciare a voce alta.

Le occorreva tempo per riuscire a fidarsi. Ma di tempo la sua mente ne ha poco. Forse per quello ha deciso di affidarmi il suo segreto, custodito in un baule, uno di quelli che da bambina scambiavo per forzieri dei pirati. Il suo stava in cantina. Dentro non ci ho trovato né gioielli né dobloni, ma il velo da sposa ingiallito, le lenzuola ricamate del corredo mai utilizzate per non sgualcirle, e sotto a tutto, avvolti in un foulard, un plico di lettere e un quaderno.

«Ho deciso di scriverlo quando la testa ha iniziato a perdere colpi. Non volevo…»

Mi ha detto di prendere tutto, di leggere, di proteggere la memoria che l’abbandona.

Amore mio, le lettere cominciano tutte così, vergate nella grafia elegante e leggera di nonna, ne è sempre stata molto fiera. Scrisse la prima a un anno esatto dalla morte di Miriam. Sola, incinta di un uomo infelice quanto lei. Vivevano insieme eppure soli, rinchiusi ognuno nella propria prigione invisibile: il ricordo della vita perduta prima al fronte e poi da internato in Germania per lui, la perdita di Miriam per lei. Due estranei che spartivano il letto e poco altro.

“Amore mio, non riesco a dire il peso di stare senza di te. Perdonami per non aver trovato il coraggio di seguirti.”

Perché la morte di Miriam fu una scelta. Si buttò nel fiume, lo stesso in cui ogni settimana andava a lavare i panni con le altre donne del paese. Le tasche del grembiule zeppe di sassi pesanti quanto il suo dolore. Fu sepolta in fretta e vergogna nella parte sconsacrata del cimitero.

Nessuna pietà per i suicidi, come per l’amore tra due donne.

Ho ricostruito la loro storia dai rimpianti scritti nelle lettere, dai ricordi affidati al diario; ho immaginato il resto, colmato i vuoti. Le vedevo sorridersi al fiume, le mani a sfiorarsi sotto il pelo dell’acqua, mentre strofinavano i panni. Baci e carezze scambiati di nascosto nella casa padronale o nei campi, sempre attente, sempre sul chi vive. Fino al giorno in cui il figlio dei padroni, giocando con l’attrezzatura fotografica nuova di zecca, non le colse insieme.

“Riguardo la fotografia, Miriam, e so che, come sempre, avevi già capito. Lo dicono gli occhi con cui fissi l’obiettivo, spia sciagurata. Mentre io ti stringo la mano che vorresti sfilare via e sorrido.”

Il padroncino regalò la foto alle due domestiche. A chi la mostrò, prima? Forse a nessuno, forse qualcun altro aveva visto la scena. Poco importa: il muro di precauzioni con cui avevano custodito il loro segreto era incrinato. Le crepe s’insinuarono fino alle famiglie, che s’affrettarono a mettere riparo all’indicibile.

Spedite a lavorare in posti diversi, mariti rimediati in fretta senza guardare per il sottile. Nonna si piegò, ma non Miriam.

La sopravvissuta tenne vivo l’amore, e il rimorso. S’occupò della casa, crebbe la figlia, poi i nipoti, serbando l’amata ogni giorno dentro di sé e infine sulla carta, nel terrore di perderla per sempre.

Ho trovato la foto, lisa e ingiallita, tra le pagine del diario. La fotografia che forse fu la loro condanna. La sola immagine di loro due insieme. Il viso tondo di Miriam, così giovane, lo sguardo scuro velato di timore. Una ragazzina educata a lavorare e obbedire, ma così colma di forza e dignità che preferì morire piuttosto che cedere. Quello di nonna, sorridente e fiducioso, ignaro del futuro di rimpianti che l’aspettava. Sessant’anni di rimpianti.

Lettere e diario ora stanno a casa mia. Ho fatto restaurare la foto. Un ingrandimento incorniciato troneggia sul comodino nella stanza di nonna, perché possa vederlo ogni giorno, che ricordi oppure no.

Mamma ce l’ha con me, per questo. Non so se sia scandalizzata dalla passione tra due donne o rifiuti l’idea d’essere nata da un matrimonio senza amore. Le passerà, spero. Non è lei il punto, adesso.

Nonna apre gli occhi, cerca la foto con gli occhi e sorride.

«Siamo belle…» sussurra.

«Bellissime.»

In copertina “Studio per Ofelia”,  di John Everett Millais

Public Domain via Wikimedia Commons

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