Ciofini

Per pura formalità, ovvero Turandot non esiste

«Signor commissario, devo confessare un crimine: un omicidio. Un femminicidio, per la precisione. Questa è l’arma del delitto».

Quando la signora Soledad Carceres Rivero fece irruzione nel suo ufficio, il commissario Pablo Rey Vincente si trovò davanti due cose che, alle tre di uno spietato pomeriggio d’estate, non potevano lasciarlo felice di abbandonare lo stato di sonnolenta sorveglianza in cui latitava: un’assassina, seduta all’altro capo della scrivania, e una pistola, adagiata davanti a lui, sulla scrivania. O meglio, adagiata su un cuscino che, se non avesse avuto la forma gibbosa e anonima di tutti i cuscini privati di federa, a prima vista gli sarebbe sembrato di sicuro un’oca morta, per il buco che l’attraversava da parte a parte e per il carnevale di piume che si era sollevato quando la donna lo aveva sbattuto sul tavolo. Da un pezzo le piume avevano raggiunto il pavimento dell’ufficio con il loro lento ondeggiare da barchette palustri, e l’iniziale eccitazione che aveva scosso il commissariato per la novità del caso si era ben presto tramutata in una generale indolenza per il rimpianto della siesta – tutto sembrava tornato come prima: nonostante fuori le cicale continuassero a cantare le loro ninnananne frastornanti, l’oscurità e il silenzio avvolgevano la stanza dell’interrogatorio. Senonché adesso il commissario Rey Vincente, sotto lo sguardo della signora Soledad, inclemente quanto quella giornata d’estate, sudava freddo dalla punta delle basette brizzolate fin sotto il grasso del collo, e aveva preso, seppur nella massima discrezione, a respirare con gli strascichi di un orso. Da più di una settimana non era tornato a casa per dormire, ma era troppo esperto del suo mestiere per non notare gli aloni di saliva che ne macchiavano la stoffa, e che né la calura era riuscita a prosciugare né la mancanza di federa a nascondere. La foggia dozzinale del cuscino lo avrebbe reso insignificante al livello investigativo per chiunque non fosse stato allenato a trovare indizi. Ma il commissario lo era, eccome.
«Proceda, signor commissario. Stiamo aspettando solo lei» azzardò col suo filo di voce tagliente come un rasoio la signora Soledad, l’unica colpita dal fascio di luce della lampada da inquisizione. A dispetto delle tenebre, per un attimo, la donna riuscì ad agganciare il commissario con gli occhi, e solo quando quel lungo attimo si fu concluso, Pablo Rey Vincente si rese conto della presenza del giovane sottufficiale che gli sedeva accanto con le mani sulla macchina da scrivere e che stava assistendo alla scena con la muta condiscendenza dei novellini sparuti.
Allora si rassegnò a inviargli un cenno con la testa e, di fronte al moto di esitazione che ne ricevette, soffiò: «Scrivi, Felipe. Scrivi».
Poi sussurrò, piegandosi in avanti sul tavolo: «Soledad Carceres Rivero».
«Signora» lo corresse la donna, che, assorta nella sfida della capitolazione, con le dita percorreva i solchi delle rughe che le attraversavano le guance come se li stesse contando uno a uno.
«Signora Carceres Rivero. Dal momento che, a quanto pare, è sua primaria intenzione costituirsi, risponderà alle domande che le sottoporrò, e il mio assistente annoterà tutto quanto in un documento ufficiale che finirà dritto nelle mani del giudice». Attese con il fiato sospeso un qualche segno di ripensamento, ma alla fine fu costretto dall’aria interrogativa di Felipe a proseguire: «Al via con le formalità. Nome?».
«Soledad».
«Cognome?».
«Carceres Rivero».
Il commissario deglutì, nella speranza di sciacquare la bocca da quell’impasto amaro che gli ingombrava il palato. Si sentì a un passo dalla santità quando con estrema pazienza saltò al punto successivo: «Anni?».
«Quarantasei».
«Data e luogo di nascita?».
Il botta e risposta suonava fra i denti dei due tale quale uno scontro di fuoco dall’esito già stabilito, intercalato dal battere della macchina da scrivere.
«Quarantasei anni fa, in un paese come tanti, purtroppo».
Pablo Rey Vincente fece finta di non aver sentito.
«Sesso?».
«Che domande sono? Non ho tempo da perdere» non c’era un solo tremito di indecisione nella sua voce da gatta rugginosa. Un po’ per eludere l’orgoglio, che gli suggeriva che c’era qualcosa di vero nell’affermazione di Soledad Carceres Rivero, un po’ per non dargliela vinta, il commissario si alzò in piedi e cominciò a girare intorno alla scrivania, con le minacce silenziose che i branchi di lupi rivolgono alle prede prima di saltare loro addosso. Ma le sue intenzioni erano diverse.
«Signora Carceres Rivero, sa cos’è un femminicidio, visto che usa questo termine con tanta disinvoltura?» le domandò. Riprese ancor prima che la donna potesse rispondere: «No che non lo sa. Altrimenti non macchierebbe la sua coscienza, nonché la sua fedina penale, di una simile colpa senza alcun timore».
«E invece sì che lo so. Altrimenti non avrei ucciso una donna in quanto donna».
Il commissario e Felipe si scambiarono uno sguardo, e capirono l’uno negli occhi dell’altro che, nonostante l’impercorribile distanza intellettiva che li separava, stavano pensando la stessa cosa: o Soledad era impazzita o stava mirando a un obiettivo che ancora risultava invisibile a entrambi.
Pablo Rey Vincente tornò a sedere, e quando sprofondò nella poltrona, nessuno sarebbe riuscito a dire se il sospiro disperato che seguì provenisse da lui o dal finto cuoio del sedile: «Sicché, mi fermi se sbaglio, lei aveva un’ostilità di qualche tipo con una qualche donna. Chiariremo dopo. Ha aspettato che la vittima andasse a letto. Ormai era sola e nel sonno, allora l’ha soffocata, e per essere sicura, le ha anche sparato» spingeva con attenzione ogni parola oltre l’altra, scandendo col ritmo di un lento. Ma, sebbene fosse un agile ballerino, il commissario dovette aver pestato i piedi a qualcuno, perché appena chiese il luogo e il tempo la donna non esitò a rispondere. Pablo Rey Vincente rabbrividì quando si accorse di conoscere l’indirizzo dell’abitazione dove, in un tardo pomeriggio della settimana prima, era stato compiuto il delitto.
Le cicale cominciarono a gridare più forte del previsto nel buco di silenzio che quella rivelazione aveva aperto con la disinvoltura di uno scherzo. Il commissario si inumidì il labbro superiore con la punta della lingua, e di nuovo si mise in piedi. A un suo gesto, Felipe abbandonò la postazione di scrivano e uscì dalla stanza – le ombre gli inghiottirono la schiena. Erano soli.
«Mi serve il nome della vittima».
«Il nome?» rise Soledad «Non era il nome che mi importava. L’ho fatto in fretta, al buio e nel silenzio, non avrei potuto riconoscere neanche mio marito in quelle condizioni». Forse fu per non crollare, oppure per sondare fin dove Soledad poteva reggere la pressione di quel gioco, ma Pablo appoggiò le mani alla spalliera della sedia dove la donna era seduta.
«Ti prego» la voce gli si incrinò a mezza strada.
«Sa, commissario, all’inizio non volevo rivelare nulla. Ma adesso mi rendo conto di quanto sia più divertente così».
Pablo cedette a un moto di rabbia, e scaricò tutta la sua frustrazione a mano aperta sul tavolo.
«Mi stai prendendo in giro!» l’indice della destra fremeva puntando da sotto al mento di Soledad, quasi che da solo, e da quell’instabile distanza, potesse da un momento all’altro vibrare uno schiaffo sulla smorfia pesta della donna «Non c’è nessun omicidio e tu non hai fatto niente, vero?».
«Io le ho detto quello che so. Investighi: è lei il commissario» suggerì Soledad con la sua retorica da lavandaia, mentre si arricciava i capelli ormai stopposi attorno all’indice, piagato da tutte le camicie che lei aveva stirato per un marito che usciva di casa il lunedì mattina e rientrava la domenica sera, giusto per timbrare il cartellino di buon padre di famiglia.
«E va bene. L’hai voluto tu. Tu scherzi, ma io non scherzo per niente, e andrò fino in fondo» il commissario tacque per un attimo, e con un calcio storto, echeggiante, raddrizzò la propria sedia «Mi sente, eh?!, “signora Carceres Rivero”?» gridò, ma seppe di essere ignorato. Il margine di attenzione concessogli da Soledad era giunto al termine.

Si allontanò qualche attimo nelle tenebre per massaggiarsi le tempie, perché, per la prima volta da ormai diverso tempo, aveva preso sul serio Soledad Carceres Rivero, e adesso, oltre che dall’assedio di presentimenti che gli martellavano l’animo, doveva anche difendersi dall’assalto del sospetto che la saliva sul cuscino appartenesse alla bocca da leonessa di Beatríz Leon Herrera, sparita esattamente un tardo pomeriggio della settimana prima in circostanze misteriose. Non che li unisse un legame indivisibile, o almeno basato sul rispetto, sulla complicità o su qualcuno dei pilastri che si è soliti idealizzare in gioventù. Sapevano l’uno dell’altra quanto bastava, e a loro bastava per divertirsi. Lei era solo una delle piccole trasgressioni anti-età che il commissario si era concesso nel corso della sua vita matrimoniale.
Pablo Rey Vincente sapeva che qualcosa di serio sarebbe stato troppo impegnativo per i suoi cinquant’anni, ma al tempo stesso credeva che non ci fosse donna più donna di Beatríz Leon Herrera. Sperava che anche lei pensasse la stessa cosa al suo riguardo, però non ci contava troppo, perché vedendo le angherie che sopportava sua moglie pur continuando ad amarlo come aveva fatto sull’altare, aveva da tempo supposto a buona ragione che lo spirito di adeguamento femminile fosse di gran lunga più corazzato di quello maschile.
Al primo di tanti incontri con l’amante, si era subito accorto di lei, l’aveva distinta tra mille altre donne, perché era impossibile per un uomo non tracciare una linea netta di separazione tra lei e la normalità, e perché era impossibile per un uomo come Pablo Rey Vincente, che ormai aveva dimenticato il motivo per cui aveva accettato di portare la fede, non notare quanto in tutto fosse l’opposto di sua moglie, anche solo nel fisico. Non che sua moglie pesasse più del necessario. Ma Beatriz volava. Sua moglie non avrebbe guadagnato in leggerezza su di lei neanche se per stringere il proprio girovita l’avesse portata sulle spalle in lungo e in largo per l’intera città – e con la sua pervicacia, ci sarebbe riuscita pur di fare piacere a Pablo.
Mentre Beatriz ballava il tango con la compostezza di un automa, le luci del locale lasciavano intravedere, a piccoli assaggi intermittenti, le labbra carnose, la fronte liscia, senza una ruga, la pelle compatta cui alludeva il vestito ammiccante. Fu difficile per il commissario farsi concedere un giro di pista, le prime volte. Solo quando lui ebbe ripetuto la richiesta all’infinito, quando lui ebbe raggiunto il baratro della follia, e quando lei se lo fu cucinato per bene, Beatríz lo raggiunse al bancone e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, non ricordava cosa. Non importava, perché in quel momento la realtà aveva eguagliato, per Pablo Rey Vincente, l’apice delle sue fantasie maschili; ora che Pigmalione si trovava di fronte a una ninfa in carne ed ossa, sarebbe stato pronto a prostrarsi in ginocchio e a fare qualsiasi cosa per lei.
Tuttavia, ben presto si era dovuto abituare al carattere frigido della sua padrona, la quale, come imparò più tardi, era solita scomparire nel momento del bisogno per poi ripresentarsi da lui a suo piacimento. Ma forse erano proprio questi suoi trucchetti a tenerlo al guinzaglio: Beatríz non aveva niente a che vedere con la moglie. Questa c’era e c’era stata sempre e ovunque per lui, e, nonostante la vergogna, da ragazza non era mai riuscita a nascondere il rossore che le colorava le guance quando Pablo passava sotto la sua finestra.
Il fatto è che il commissario non aveva mai dubitato che nel caso di Beatríz Leon Herrera si trattasse di amore, e che l’atteggiamento dell’amante, che a lui piaceva definire selvaggio, non fosse che un’altra forma di randagismo.

Nell’istante in cui Pablo Rey Vincente riemerse dalla solitudine delle sue fantasie, la porta sbatté contro il muro, e nella frazione di secondo successiva Felipe fu di nuovo visibile alla luce della lampada.
«La squadra mobile è già sul luogo. Marcel le vuole parlare» disse.
«Il tenente Marcel Nuñez, Felipe. Non abbiamo bisogno di confidenze: siamo in un commissariato, non in una telenovela» nonostante le apostrofi, Pablo Rey Vincente non si rivolgeva certo al subalterno «Che ne dice, signora Carceres Rivero?»
Sfilò poi sotto i lampi di Soledad fino al suo posto, e con tutta la lentezza del caso alzò la cornetta del telefono sulla scrivania. Compose il numero.
«Pronto?» la voce nasale di Nuñez crepitò fuori dal ricevitore a un volume abbastanza alto perché anche gli altri sentissero. Il commissario, infastidito, diede le spalle a Felipe e a Soledad, e si coprì la bocca con la mano.
«Sono Pablo».
«Perfetto. Io e i ragazzi siamo arrivati. Siamo dentro, nella camera» sebbene il commissario fosse riuscito a ricostruire il senso logico della frase, gli scoppi della conversazione gli erano arrivati inframezzati da fruscii di vario genere.
«Mi sposto, il fiume qui sotto fa un casino insopportabile» si scusò Nuñez «Costruire una casa su un ponte, non c’è niente di più inutile. Chiudete quella finestra!» gridò a qualcuno che doveva essere nei dintorni «Adesso mi senti?».
«Forte e chiaro».
Ma fu Nuñez a farsi sentire solo dopo un lungo silenzio: «Soledad non vuole aggiungere altro alla confessione?».
«No».
«Ma che senso ha? Da un punto di vista legale, come facciamo a considerarlo un atto di collaborazione alle indagini?».
«Evidentemente, collaborare è l’ultimo dei suoi interessi».
Marcel sospirò, come faceva sempre nei momenti di difficoltà accompagnando il gesto a una passata di mano sui capelli.
«Posso essere sincero?».
«Vai al punto, Marcel» disse Pablo Rey Vincente, dopo essersi voltato un attimo. Incontrare il sorriso di Soledad gli fece ribollire il sangue dal nervoso.
«Se nessuno me l’avesse detto, non crederei che questo sia stato il luogo di un omicidio».
«Cosa intendi?» chiese Pablo con il tono consapevole di chi vede aggiungersi guai su guai a un disastro già sfiancante di suo.
«Intendo che qui è stato fatto un lavoro fin troppo pulito, e ripulito dopo: non c’è una sola macchia di sangue dimenticata sul pavimento. Le lenzuola sono un po’ mosse, manca un cuscino e abbiamo trovato per terra una scatola di cartucce, ma non vuol dire niente, si tratta di ciò che dovevamo trovare. Di fronte a queste prove, un giudice scoppierebbe a ridere».
«E il cadavere?».
«Hai centrato il punto. Non ce n’è alcuna traccia».
«Avete cercato in altre stanze?».
L’orgoglio di Nuñez si fece sentire: «Certo, non sono mica una recluta».
«Aspettiamo la scientifica. Magari sapranno cavare qualcosa da questa faccenda. A più tardi».
Pablo Rey Vincente non aveva ancora abbassato il ricevitore, quando esplose: «Che storia è questa? Dove hai nascosto il corpo?».
Il commissario stava morendo di stizza per quella sottile tortura, o resa dei conti, cui il destino lo aveva sottoposto. Eppure, man mano che il sangue gli pompava rabbia alle tempie, man mano che si accorgeva di avere le vertigini e di star perdendo contatto con la realtà, una strana sensazione si diffondeva nel suo corpo, con un moto simile a quello di un veleno che gli fosse stato iniettato nelle vene e che di conseguenza si stesse spargendo a velocità proporzionale rispetto a quella del sangue bollente. Fu quando Soledad scrollò le spalle che avvertì che in quella mezz’ora la sua considerazione al riguardo della donna aveva fatto in tempo a cambiare. Forse la stimava.
«Ormai potrebbe essere ovunque, in campagna, o dall’altra parte della città» sorrise Soledad Carceres Rivero. Sul volto dipinta l’innocenza di una bambina: il commissario, nel delirio del momento, si ricordò della volta in cui sua figlia ruppe la testa a una bambola e poi perse il pezzo, cosicché, quando lui tornò a casa dal lavoro, la trovò ad aspettarlo in piedi nel cortile con in mano il corpo acefalo e in faccia un’espressione che parlava da sola: “E adesso, che si fa?”.

Dei rumori e delle urla provenienti dall’ufficio risvegliarono Pablo Rey Vincente dai suoi incubi ad occhi aperti. Lo stato di allarme di Felipe, che scattò verso la porta, gli permise di riacquistare lucidità. Si trattò di una sorta di presagio: Soledad gli stava mentendo, non poteva aver fatto tutto questo da sola. Si era fatta aiutare, per l’omicidio e per il trasporto del cadavere. Nessuno, se non la Morte in persona, poteva ammazzare qualcuno al buio, senza svegliarlo, per giunta. Sarebbe stato un delitto compiuto con la precisione di chi agisce a casa propria.
Mentre Felipe stava finendo di dire “Commissario, vado a controllare?” un uomo sulla trentina, trattenuto da due agenti che gli intimavano di non muoversi perché lì non era permesso entrare, fece irruzione e accese con una manata alla cieca l’interruttore centrale. In un lampo di luce la stanza si denudò dell’aura di mistero propizia alle investigazioni, rivelando il tetto in lamiera da baraccopoli, le sbavature sul cemento dei muri e del terreno, e l’assoluta mancanza di qualsiasi tipo di arredamento all’infuori di uno specchio visibilmente trasparente.
A stimare dall’ampiezza del torace e dal vigore con cui, nonostante i poliziotti, aveva sfondato la porta, quell’uomo doveva avere una forza fuori dal comune. Nella confusione generale, riuscì a svincolarsi dalla presa degli agenti, accecati dal cambio di luminosità, e si gettò ai piedi di Soledad, gridando che era una matta, che voleva rovinarsi, che non era vero, che doveva dirglielo, a lui, che non era vero. Soledad invece lo ignorava, ma non per questo non manifestava il proprio sdegno per il fatto che probabilmente, con la stessa gentilezza con cui aveva forzato la porta, l’uomo aveva anche forzato la segretezza del momento ed aveva intravisto dallo specchio buona parte del dialogo.
Al commissario ci vollero alcuni minuti per riprendere il controllo della situazione. Anche quando i poliziotti ebbero afferrato di nuovo l’uomo, questo non si era del tutto calmato. Pablo Rey Vincente riuscì ad estrapolare qualche notizia dalla breve conversazione che tenne con lui, inframezzata da urla simili a quelle precedenti. L’uomo era un meticcio italiano, tenore di professione, che si trovava in città per una tournée. Si chiamava Horacio Fonte. Gli spiegò che la sua compagnia aveva cantato al Teatro dell’Opera la Turandot, e che lui aveva recitato nella parte del protagonista, Calaf.
Proprio in un pomeriggio della settimana prima si era tenuta una delle repliche, e Pablo Rey Vincente era stato tra gli spettatori: aveva portato con sé Beatríz Leon Herrera, nella segretezza di un palco che un amico speciale gli aveva fatto la cortesia di riservare. Sua moglie avrebbe lavorato fino a tardi, cosicché lui e Beatríz si erano incontrati come per sbaglio nella loggia e, a fine spettacolo, si erano separati come per sbaglio nel corridoio – per poi rincontrarsi di nascosto nel vicolo dietro al teatro.
Non l’aveva più vista da allora, e fino a qualche tempo prima aveva creduto che il motivo fosse che a lei non era piaciuta l’opera.
«Quel finale poi… è così scontato» gli aveva riso in faccia di fronte all’uscio di casa. In effetti Beatríz non aveva fatto che sbadigliare e cercare di distrarlo durante tutto il corso della rappresentazione, mentre lui, in estasi, si immedesimava nel principe dall’amore impossibile e si rammaricava che Puccini non avesse fatto in tempo a concludere il capolavoro con un vero finale, al posto di quello smunto di Alfano. Turandot, la donna del mistero e dell’enigma, la donna dal cuore di ghiaccio, bellissima e insieme terribilmente impossibile, era ciò che ogni uomo avrebbe dovuto desiderare: era Beatríz.
Dopo quel pomeriggio, Pablo Rey Vincente aveva iniziato a sognarsela sul palco, nelle vesti della cantante. Ma poi, quando nel sonno andava a portarle i fiori a fine recita, appena provava ad abbracciarla, si ritrovava allacciato nel nodo delle sue stesse mani, senza aver stretto niente. Dopo i suoi vari tentativi, lei usciva dal camerino. Man mano che si allontanava nel corridoio salutandolo con la mano, la sagoma della donna diventava sempre più evanescente, fino a scomparire del tutto. Lui, a quel punto, tornava nel camerino, e chi ci trovava? La moglie che rideva: «Sciocchino, era solo un personaggio!».
Ogni volta si svegliava con un retrogusto di acqua zuccherata sulle labbra.

Così, sia pure per un fattore inconscio, la prima impressione nei confronti di Horacio Fonte fu positiva. Ma siccome questo, senza farsi alcun problema, continuava a lanciare esortazioni di vario genere alla donna mentre intanto il commissario gli porgeva delle domande o sperava di ascoltare delle risposte, la cosa non poteva durare.
«Stia a sentire me» esaurita la pazienza, Pablo lo alzò per il bavero «Lei ha fatto irruzione nel bel mezzo di un interrogatorio, violando decine di norme e superando di gran lunga il limite della legalità. Come la mettiamo?».
O Horacio Fonte era sordo o era duro di cervello.
«Soledad, non ce la faccio senza di te!».
Qualcosa scattò nel commissario.
Il grugno a due centimetri dalla faccia di Fonte: «Che tipo di relazione ha con la signora Carceres Rivero?».
Balbettava.
«Ecco io… sono…».
«Mi faccia indovinare» una punta acuminata di malizia incise sul volto di Pablo un largo sorriso canzonatorio «Qualcosa mi dice che lei non è un parente stretto…».
«No, veramente…».
«E nemmeno un parente alla lontana».
«Signor commissario…».
«Chi crede di essere, quindi? Mi dica. Si sbrighi. Ne va della sua incolumità penale».
«La prego, signor commissario…» stava per piangere come un agnellino.
Pablo fissava Fonte dritto negli occhi. Le pupille dell’uomo, a una simile distanza, facevano impressione: erano ravvicinate fra di loro al limite dello strabismo. Se il commissario lo lasciò e si allontanò da lui di due passi fu solo per il fastidio.
«Glielo dico io chi è lei. Lei è complice di un omicidio: ha aiutato la signora a compiere il delitto e ad allontanare il corpo dal luogo del reato» disse, e si rese conto di avere stretto la mano attorno alla fondina.
«No, io non ho fatto niente, glielo giuro, commissario!» Fonte si piegò in due, ma non cadde, perché gli agenti continuavano a tenerlo stretto «Tutto ma non la prigione!».
«E allora dov’era quando è stato compiuto l’assassinio?».
«Gliel’ho già detto, avevo una recita».
Soledad, da quando la carica di Horacio Fonte era stata fermata, non aveva più pronunciato parola, ma aveva ascoltato ogni singola sillaba del dialogo tra il commissario e l’uomo.
«Sì. Però l’omicidio è stato compiuto quando la recita era terminata già da un’ora. Come lo spiega?» Pablo si avvicinò di nuovo, riaffrontando il potere ipnotizzante dello sguardo del nemico «Ha un alibi? Qualcuno che potrebbe testimoniare per lei?».
«Io non c’entro…» bofonchiò «Soledad, diglielo tu!».
Soledad Carceres Rivero, che in tutta questa confusione era ancora l’unica a non essersi sgranchita un po’ le gambe, si alzò dalla sua sedia.
«Ne ho abbastanza! E così, non crede alla mia confessione. Secondo lei, “signor commissario”» enfatizzò la derisione sottolineando l’appellativo «io mi sarei fatta aiutare da quest’incapace? Da un uomo che, come tanti, a modo suo, mi considera un oggetto!» sembrava in preda al delirio «Cercate tutti la stessa cosa… ma non c’è né c’è mai stata… gliene ho data una prova, no, “signor commissario”?» a quel punto, dopo una lotta di gomitate, Felipe riuscì a frenarla.
Pablo Rey Vincente ormai la pistola l’aveva tirata fuori, e non era più rosso di rabbia, ma nero.
Proprio mentre Felipe stava tappando la bocca a Soledad perché smettesse di urlare, dei passi attraversarono in corsa il corridoio che dagli uffici conduceva nella stanza.
«Pablo, dove sei? Devo farti vedere una cosa che ti lascerà a bocca aperta» una voce nasale rimbalzò sul tetto di lamiera.
Quando il tenente Nuñez raggiunse la soglia e vide Pablo con la pistola in mano, un energumeno in ginocchio sorretto da due poliziotti e Soledad che si divincolava tra le braccia di Felipe – Soledad, Nuñez l’aveva spesso incrociata sulla soglia del commissariato, lui in pausa pranzo, lei in attesa di una pausa pranzo che non arrivava mai, ma neanche una volta l’aveva vista divincolarsi così dalla sua cappa di vergogna –; quando vide tutto questo, insomma, il tenente frenò l’impeto della corsa e sgranò gli occhi.
Si sentì un ospite indesiderato, ma decise lo stesso di continuare in fretta per la sua strada: «L’abbiamo trovata sull’argine del fiume. Sarà fondamentale per il riconoscimento della vittima».
Il commissario gli si avvicinò, senza tuttavia abbandonare la mira verso un bersaglio nemmeno a lui così chiaro. Non sembrò notare il ciondolo che pendeva in un lungo filo d’oro dal pugno proteso di Nuñez. «Fa vedere» disse invece, e per poco non strappò dall’altra mano del collega le foto fresche di inchiostro che questi aveva stampato nell’ufficio attiguo per allegarle al verbale.
«Te ne avrei parlato con più calma» nel rassettarsi l’abito, il tenente trattenne l’imbarazzo tra le falde della giacca «Avevo il cellulare scarico».
Erano immagini del luogo del delitto. Marcel gliene indicò una in particolare. Era visibile la facciata esterna della casa, quella che dava sul fiume. Dalla finestra aperta scendeva giù sul parapetto del ponte una striscia verticale, rossa di sangue. Un fascio di luce, superati gli edifici antistanti, passava preciso attraverso la finestra, illuminando l’interno, fuorché il letto. Il commissario guardò l’ora in cui era stata scattata la foto: 19.47. Conosceva bene quella casa, e sapeva che nel giro di qualche minuto il sole sarebbe calato dietro altri palazzi in cerca dell’orizzonte, e il quartiere sarebbe sprofondato in un’oscurità quasi notturna. Il tempo necessario a uccidere una persona, per poi spingere il corpo giù dalla finestra sotto la protezione del buio, e nelle acque torbide del fiume – dirette verso le fognature, e verso l’oblio.
Pablo Rey Vincente, non così per caso come avrebbe poi creduto, spostò allora lo sguardo sulla collanina d’oro che, dopo aver transitato dalla vetrina del gioielliere alle sue stesse mani e infine a quelle della sua amante, si trovava ora tra le dita di un poliziotto ignaro del suo inestimabile valore. Si sentì risucchiato nel gorgo di una vertigine. Immaginò il sangue di Beatríz, ormai persa per sempre, navigare in una fanghiglia di lacrime, liquame e altri ripensamenti facendo avanti e indietro per le tubature e i gabinetti della città. Si spargeva un po’ qua, un po’ là, fino a essere onnipresente, e a raggiungere anche le vite segrete delle sue mille altre avventure.
Il tetto era umido. Cadde una goccia.
Appena la goccia si spiattellò al suolo, Soledad morse la mano di Felipe, che, preso di sorpresa, la lasciò andare. La donna afferrò la pistola sdraiata sul cuscino e se la portò alla testa.
Premette il grilletto dell’arma. Era carica.

****

«Venga pure, si sieda».
Da dietro la scrivania il colonnello Santiago Pérez gli fece un gesto con la mano. Pablo Rey Vincente, che aveva miagolato da uno spiraglio minuscolo “è permesso?”, aprì la porta appena il necessario per permettere di passare al suo pancione – che dopo dieci giorni di digiuno non era più così grosso. Attraversò a piccoli passi lo studio pieno di drappi e litografie, che sotto la luce splendente di una mattinata d’estate rifulgeva dell’oro dei distintivi. Porse attenzione, tuttavia, a non calpestare il tappeto persiano, come si fa con i giardini ben curati e le aiuole pubbliche.
Si sedette. Aveva provato una soggezione simile anche da ragazzo, la volta che, in seguito a una rissa, era stato convocato nell’ufficio del preside: il busto del colonnello si ergeva oltre al bordo del tavolo con dei modi, con un’autorità statuari, al confronto dei quali lui si sentiva infinitamente piccolo. A quel monumento vivente mancava solo l’iscrizione.
«Signor Rey Vincente, mi capisca» iniziò il colonnello «Non mi sembrava il caso di affidare a lei le investigazioni, dopo tutto quello che è successo» si alzò e gli poggiò una mano sulla spalla «Mi dispiace molto per sua moglie Soledad».

Immagine di Pixabay

*****

Elisa Ciofini (2000) è studentessa di Lettere Classiche all’Università di Bologna. Redattrice de Il rifugio dell’Ircocervo e L’irrequieto, ha scritto per Argo, Giovani Reporter, Bologna Teatri e per la Gazzetta di Bologna. Finalista al Gran Giallo Città di Cattolica, ha partecipato a diversi premi letterari: alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in antologie dalle edizioni Fernandel e Historica, altri sono apparsi su inutile, Argo, Writers Magazine Italia e Typee. Con questo testo prima inedito ha raggiunto il secondo posto al Premio Officina Ensemble di Ensemble Edizioni, e la semifinale del Campiello Giovani.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *