Ogni tanto, al tramonto di luna, Gufo Verde attraversa il bosco di aceri e percorre la riva del fiume. Oltre i rami neri, ecco il muro di calce e oltre la piccola finestra, un lume. Il vecchio capo indiano si appoggia allo steccato e aspetta l’uomo bianco. Costui indossa un vestito scuro e qualche volta il cappello perché l’umidità gli stringe le tempie. Porta con sé un libro che tiene aperto col dito, una collana e un piccolo totem. Gufo Verde invece ha sempre delle bacche dolci nella bisaccia o delle uova di quaglia. Le rompono e le mangiano assieme, poi l’uomo bianco si passa il dorso della mano sul mento e dice: “Ci vorrebbe del sale”.
Gufo Verde non ne sente la necessità, trova strana l’abitudine degli uomini bianchi di aggiungere cose alle cose. “Un uovo di quaglia è un uovo di quaglia” gli ha detto “altrimenti non sarebbe più uovo di uccello ma uovo di uccello con qualcos’altro sopra; bisognerebbe cambiargli nome”.
L’uomo bianco ha risposto solo “Bah!” e si è messo in bocca una bacca dolce. “Questa va bene così com’è?” gli ha chiesto Gufo Verde. Forse l’età lo ha reso un po’ permaloso.
L’uomo bianco, con la bacca nella guancia, gli porge il totem: “Guarda” dice.
Gufo verde scrolla le spalle, non gli sembra un granché: non ci sono colori, o becchi o piume. “Chi è?” fa indicando quello appeso al totem che sembra sul punto di scendere ma non ci riesce, come appiccicato con la resina. Col dito l’uomo bianco indica in su, dove ci sono diverse nubi, e nessuna stella. “Parliamo del Padre” dice. Il Padre è peggio delle uova di quaglia, tutti i discorsi sulla famiglia dell’uomo bianco sono incomprensibili. Non ha figli, ha detto, perché non è mai stato con una donna. A questa età? Gufo Verde non può crederci, e sebbene non sia l’uomo a decidere quando lo spirito entri nella donna ed esca di carne, non gli sembra possibile non avere figli in una vita intera. Gufo Verde ne ha sessantatrè l’uomo bianco ha detto di nuovo “Bah!” aggiungendo che Gufo Verde morirà bruciato. Anzi: starà per sempre dentro un fuoco come un bisonte sullo spiedo.
Le fantasie dell’uomo bianco sono strane, pensa Gufo Verde, quanto le storielle che i bambini raccontano alle madri, poco più in là dal fuoco dove gli uomini parlano di caccia, o cavalli, o del vento quando diventa troppo freddo e fa ghiacciare la prateria; non fa bene il ghiaccio, fa colare il naso e spostare i bisonti, quindi spostare le tende. Quando comincia il vento gli uomini hanno molto da parlare, non hanno tempo per i racconti dei bambini. L’uomo bianco invece, almeno questo qui, non procura selvaggina, non costruisce archi né affila la selce, non si occupa neppure di erbe mediche. Non ha certo mai tagliato una pancia, o estratto un cuore. Perfino Mawake, all’accampamento, ne ha stretto nella mano uno che ancora pulsava, e se lo è portato alla bocca.
Gufo verde si raddrizza sulla staccionata massaggiandosi il retro della coscia. Già: Mawake, ne vorrebbe parlare con l’uomo bianco. La disegna nella polvere ai loro piedi con uno stecco: le gambe lunghe, la vita stretta.
“Un uomo” dice l’altro.
La punta dello stecco disegna allora due piccole rotondità. L’uomo bianco non dice nulla; quando non sa cosa dire tace e per questo Gufo Verde lo rispetta. L’uomo bianco prega proprio come lui – l’ha visto una notte con i palmi delle mani rivolti al cielo e la testa rovesciata all’indietro – e magari la saggezza di questo suo Padre che ha la tenda nel cielo, nel caso di Mawake, potrebbe valere qualcosa.
Mawake è sua figlia. Abita nel suo tepee da quando i genitori sono morti. L’uomo bianco ancora non dice niente, conosce Gufo Verde abbastanza da capire quando parla di qualcosa che gli sta a cuore.
“C’è qualcosa che non va in Mawake”. Gufo Verde si è rivolto alle donne: sua moglie e l’altra sua moglie, e la moglie bianca; Mawake ha scalciato come una puledra quando le donne l’hanno presa nel tepee e hanno controllato tutto, ancora ci fossero delle cose che non ci dovevano essere e mancasse piuttosto qualcosa di necessario. “A volte agli animali succede, no?”
L’uomo bianco ha annuito. “E Mawake?” chiede.
Gufo Verde scaccia il pensiero con la mano, come se solo vederlo dietro gli occhi potesse far spuntare qualcosa in mezzo alle gambe della figlia.
“Mawake ha le gambe lunghe, polsi forti e le spalle larghe per portare le fascine e le bisacce dell’acqua. Intreccia lestissima le strisce di pelle e sa mettere la carne ad essiccare. Accende il fuoco, aiuta le mogli a seppellire le prede e cuocerle sulla brace. Sa curare la pancia e i denti dei bambini con la salvia, la malva e altre erbe”.
L’uomo bianco comincia a spazientirsi: “E allora?”.
“E allora ha il corpo di donna ma il cuore di un uomo”.
L’uomo bianco si batte la mano sul ginocchio e aspetta che il vecchio continui. Che affascinante possibilità l’indistinzione dei generi, ne aveva letto qualcosa in un libro di mitologia greca. Si schiarisce la gola: “Che ne sai tu del suo cuore?”
“Mawake caccia meglio di mio figlio primogenito” dice Gufo Verde “e dovresti vedere come macella gli animali”.
“Certe donne sono forti quanto un uomo, niente a che vedere con cosa ci sia nel loro cuore. La tua Mawake è una che lavora sodo, è sempre una cosa buona”.
Gufo Verde guarda sconsolato verso la fine del prato, dove c’è qualcosa che frinisce nell’erba. Era stato in una notte simile che aveva visto Mawake bambina giocare accovacciata accanto al tepee. In una pozza di luce lunare, qualcosa riluceva nelle sue mani ancora piccole. Inizialmente Gufo Verde aveva pensato ai sassi di fiume, e si era sentito ribollire il petto: aveva proibito a tutti i bambini di avvicinarsi alla riva perché la pioggia aveva ingrossato le acque, Mawake gli aveva dunque disobbedito. Ma quando si era fatto vicino a lei – senza far rumore, come quando cacciava le quaglie – era indietreggiato inorridito: quelle che la bambina teneva in mano erano ossa. L’osso lungo della gamba di un uomo, quello fino del braccio e quello rotondo della testa con i buchi per far entrare il mondo, l’aria e il cibo. Proprio quest’ultimo Mawake aveva sollevato perché si riempisse di luce lunare e poi aveva fatto come per bere da una ciotola rovesciando la testa all’indietro; Gufo verde aveva avuto l’impressione che qualcosa di luminoso le scorresse nella gola. Avvertito il suo respiro, lei si era mossa di scatto. Lui si era fatto dietro il tepee e Mawake aveva avvolto le ossa in una pelle di castoro e carponi si era rifugiata dentro la tenda.
“Una strega!” esclama l’uomo bianco. Sa che nei villaggi indiani ci sono persone che praticano stregoneria e si fanno chiamare sciamani.
Fosse così, Gufo Verde ne sarebbe stato contento, gli sciamani possiedono i segreti delle erbe e sanno riconoscere le voci del bosco. Tornano sempre utili, ma niente era valsa la loro vecchia sciamana nei confronti di Mawake, quando il capo indiano aveva provato a rivolgersi a lei. Aveva spalmato del fango caldo sulla pancia e sul seno della ragazza, poi anche sulla faccia e sui capelli e così, vestita di fango, Mawake era scesa nel fiume. Tutti i membri dell’accampamento la guardavano. L’acqua le era arrivata alle ginocchia e aveva cominciato a sciogliere la terra. Mawake aveva continuato a camminare verso il centro del fiume, traballando sulle pietre, e già le cosce tornavano lucide. Quando l’acqua l’aveva lambita in mezzo alle gambe e poi la pancia e poi lo sterno, sciogliendosi in striature rosse subito portate via dalla corrente, Gufo Verde si era illuso.
L’uomo bianco si fa un segno fra la fronte e la pancia e fra spalla e spalla: il vecchio capo indiano, dopo aver visto Mawake bere luce lunare, avrebbe subito dovuto rivolgersi a un uomo di Dio, non aspettare che crescesse per metterla nelle mani di una strega.
“Ma se neanche c’eri!” protesta Gufo Verde “che solo tre inverni fa abitavi ancora dietro il mare”.
“Non sono l’unico uomo di Dio, siamo un esercito! Combattiamo contro il male e tua figlia potrebbe essere posseduta. Dimmi degli altri sintomi: è scossa da tremiti? Qualche volta ha la bava alla bocca?” chiede l’uomo bianco brandendo il suo totem.
Gufo Verde sospira e si accartoccia nelle spalle come una foglia secca, talvolta l’uomo bianco gli pare così primitivo. Quei disturbi che gli fanno strabuzzare gli occhi sono curabili con alcune erbe di fiume e con una bacca nera. Niente a che vedere con questo spirito cattivo che si chiama Male, sempre a parlare di Male. Comunque, la vecchia strega non aveva fatto colare tra le gambe di Mawake altro che argilla. E questo è il nocciolo della questione.
“Il nocciolo di certe bacche, quando va giù assieme al cibo è importante che esca, giusto?” Lo fa apposta per alleggerire la situazione, il vecchio capo: punzecchia un po’ l’uomo bianco che non sopporta di parlare delle cose che escono dal corpo. Ma se vogliono parlare di Mawake, dovrà rassegnarsi, perché se a Mawake il sangue non uscirà nessun seme potrà germinare dentro di lei. E se così succederà, i suoi due cuori – di uomo e di donna – non si riconcilieranno mai. Il villaggio non lo potrebbe tollerare, sta pazientando perché è una delle sue figlie ma prima o poi il tempo finirà e lui dovrà vedere Mawake, l’ultima dei bambini cresciuti nel suo tepee prendere la via delle foreste per andare a vivere e morire da sola. Ha immaginato questo momento tante volte, il posteriore del cavallo, la lunga coda che oscilla nel vento, la schiena larga con l’arco e la faretra con le poche frecce da scagliare contro i lupi. Nella vita Mawake è stata abbastanza sfortunata, la sua famiglia è stata attaccata dai lupi mentre cercava di superare la cresta delle Grandi Montagne. Quattro pozze rosse nella neve, Gufo Verde lo ricorda bene, con quello che rimaneva – molto poco – di quattro corpi. Era sceso da cavallo con uno dei suoi figli e guardinghi avevano esplorato i dintorni: il branco dopo essersi pasciuto si era prontamente allontanato, forse perché avvertiva l’odore della bufera che stava colorando il cielo di viola. Erano già risaliti in groppa e volevano spronare i cavalli prima che prendesse a nevicare quando avevano sentito un verso come di agnellino. Era Mawake che, assicurata da una striscia di pelle a un ramo alto, penzolava nel vuoto, sospinta dal vento. Gufo Verde lo ricorda così: che il laccio si ruppe e lei cadde cavalcioni davanti a lui sul cavallo e afferrò con le mani piccole la criniera. Così Mawake era diventata sua figlia ed era cresciuta nel suo tepee col giaciglio accanto al fuoco, vezzeggiata da tutte le figlie più grandi e dalle mogli. Forse l’attenzione l’aveva rovinata, forse il racconto della sua sopravvivenza l’aveva resa troppo sicura di sé, come un cacciatore esperto. Forse non temere più il lupo l’aveva messa nella condizione di non temere più l’uomo, e questo era molto pericoloso. Mawake aveva sfidato molte volte gli uomini più validi del villaggio e li aveva battuti con l’arco, con l’ascia e con le pietre. Gli uomini avevano riso e avevano cominciato a corteggiarla. La moglie di Gufo Verde l’aveva ammonita: “Stai attenta bambina, gli uomini si stancano in fretta. Quando diventerai donna dovrai seppellire il tuo cuore di uomo”. Ma lei giocava con tutti gli uomini del villaggio, montava in groppa esibendo le sue cosce lucide e muscolose e continuava a dimostrarsi più brava di tutti. Combatté come un guerriero quando i tepee furono attaccati dai nemici, mangiò il cuore davanti a tutti e ballò acclamata attorno la fuoco. Ma il giorno dopo le cose erano già cambiate perché fu chiesta formalmente in moglie e Gufo Verde dovette ammetterlo: Mawake non aveva ancora il sangue.
La sopracciglia dell’uomo bianco si inarcano. Gli sembra in un certo qual modo disdicevole che due uomini tengano un discorso del genere. Neppure nel confessionale, dove una donna può sviscerare i più sordidi peccati affidandosi alla misericordia di Dio, si arriva a parlare di certe cose. Quelle cose, cioè gli aspetti puramente meccanici dell’essere umano, nella sua natura più primitiva, sono propri di chi ha deciso di dedicare la vita a tali bassezze. Non faremmo un simposio con chi lavora, mettiamo, alle cloache, o nelle stalle. È vero che il Padre ci esorta verso gli umili, Cristo stesso piallava il legno, ma vivaddio! L’uomo bianco è sudato, si slaccia pure il colletto. “Forse potrebbe essere il Male” dice.
“Non lo conosco Male, neppure Mawake. Male non è mai venuto nel nostro villaggio. Ho bisogno di un consiglio per uccidere il cuore di uomo di Mawake”.
“Uccidere?”
“Sì, col fuoco, o col coltello. Qualche volta ho ucciso gli spiriti che invadono le pianure, o che fanno ammalare gli animali.”
Gufo verde è incerto, preoccupato. Ora anche l’uomo bianco lo è. La parola uccidere l’ha bruscamente ridestato. Gli richiama certe pratiche medievali, certe illustrazioni di roghi, di camice di pece. “Non so come sia avere un figlio” dice “penso si diverso da avere dei fratelli”.
Gufo Verde annuisce, sa che l’uomo bianco ha molti fratelli, in pratica tutti, anche lui, anche se non sono cresciuti nello stesso tepee Questo non ha senso ma non importa.
“Penso che avere un figlio sia diverso” continua l’uomo bianco “perché coi fratelli cammini fianco a fianco. Il figlio ti cammina davanti”. Si schiarisce un po’ la gola, predicare non gli è mai piaciuto, eppure questo non è un sermone, è piuttosto sedersi vicini al banco di una chiesa e parlarsi sottovoce. “Il figlio deve vivere quando tu muori”.
“Certo” dice Gufo Verde.
“Deve continuare a spostare i tepee quando arriva il vento, e a cacciare i bisonti. Deve fare figli che continuino quello che ha cominciato tuo padre. Penso che sia bello.”
“Bello, sì”.
“Che abbia un senso. Non ti senti solo se hai sempre chi ti sta dietro e chi ti sta avanti”.
“Dietro e davanti”.
“E penso anche che, come non puoi tornare indietro, non raggiungerai mai quello che ti cammina davanti. Hai capito?”
Gufo Verde cerca di districarsi dal di dietro e dall’avanti. In realtà non ha capito, ma l’uomo bianco ha parlato in modo accorato, e lui rispetta sempre chi parla così.
“Ho capito tutto” dice alzandosi dallo steccato “grazie. Ti porterò altre uova di quaglia”.
“Allora io porterò un po’ di sale” dice l’uomo bianco sollevato. Sta anche pensando di invitare Gufo Verde dentro casa per fargli vedere come cucina le uova – le gira nell’acqua calda fino a che all’uovo non gli viene un mantello –. “Se al tuo villaggio fanno delle difficoltà. Se non accettano Mawake perché non è una donna fertile, la puoi mandare qua, starà con le donne che si occupano della chiesa, non importa se ha due cuori. L’importante è che lo accetti tu. Il padre, anzi il Figlio, ci insegnano ad amare senza pregiudizi”.
“Ho capito” dice Gufo Verde e il suo sorriso è uno squarcio bianco nella notte scura. “Anche delle bacche dolci ti porto la prossima volta” dice chiedendosi se sia il caso di regalargli della pelle di castoro per proteggersi la testa dall’umidità – fa certe grinze attorno agli occhi che si capisce che dopo un po’ che sta fuori gli viene mal di testa –.
Non si danno la mano, si salutano scambiandosi auguri che riguardano il Padre, la foresta, gli spiriti dei morti – cose così – e si allontanano entrambi soddisfatti: l’uomo bianco perché ha insegnato al suo amico indiano a rassegnarsi con amore alla volontà del Padre, e Gufo Verde perché dopo tutto sta per esserci il cambio di luna. Magari è la volta buona che a Mawake viene il sangue.
Racconto e copertina di Sara Gambolati
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