“Ciao” disse Tiziana entrando in cucina, dove il figlio di Bruno smanettava sul cellulare, mangiando un biscotto davanti a una tazza di caffellatte.
“Ehi” rispose Valter senza alzare lo sguardo.
‟Sei arrivato tardi ieri sera.”
‟Mhm-mhm.” Valter sorseggiò il caffellatte seguitando a controllare il telefono.
Bruno arrivò sbadigliando.
“Bella giornata oggi per una passeggiata” disse Tiziana. “Sembra primavera.” Indugiò davanti alla finestra vestendosi del tepore del sole. Bruno l’abbracciò da dietro.
“Stai già mangiando?” disse poi al figlio.
“Avevo fame” rispose Valter sorridendo. “Ieri sera sono crollato a letto.”
“Ci credo! Sei tornato alle due” disse il padre. ‟Lungo il concerto…”
“Ciao a tutti.” Stiracchiandosi, Adele entrò in cucina. Il padre sbadigliò di nuovo ed entrambi si misero a ridere. “Non avete già fatto colazione, vero?”
“Faccio io” si offrì Tiziana. “Pancakes, vanno bene?”
“Grande!” disse Adele.
“Io passo.” Valter mise in lavastoviglie la sua tazza e sgattaiolò in camera.
Tiziana prese dal frigo la miscela, latte, uova, burro, sciroppo d’acero, e si mise a prepararli.
“Vuoi una mano?” le chiese Adele. “Coffee and OJ?”
“Perfetto.”
“Buonissimi questi pancakes” disse Adele con la bocca piena.
“Brava, amore.” Bruno si chinò per dare un bacio a Tiziana.
“Uhm” disse Tiziana. “Mi si dev’essere tappato un orecchio.”
“Sei vecchia” scherzò Adele.
Passeggiavano sulle mura cittadine in mezzo al colonnato di ippocastani dalle chiome gialle, marroni e verdi. Bruno, sempre troppo avanti con la sua camminata veloce, era seguito da Tiziana e Adele, che chiacchieravano della borsa di studio della ragazza negli Stati Uniti. Valter, silenzioso in retroguardia, si teneva occupato calciando le castagne matte dopo averne rotto i ricci.
Tiziana sbatté le palpebre e si passò una mano sugli occhi. “Non ci vedo” balbettò. Spalancò gli occhi per assorbire la luce e alzò la mano destra per fronteggiare il buio che le stava davanti. Bruno ritornò indietro e le strinse la mano.
“Stai calma” disse, vedendo l’espressione spaventata di Tiziana.
“Aiutatemi…” implorò Tiziana.
Adele le mise una mano sulla spalla per sorreggerla. A distanza, Valter osservava Tiziana soccorsa dal padre e dalla sorella.
“Non ci vedo!” ripeté Tiziana, ruotando la testa alla ricerca di uno spiraglio di luce.
“Andiamo al pronto soccorso. Appoggiati me” disse Bruno, prendendola per la vita. E rivolto ai figli: “Voi tornare pure a casa, ce la faccio da solo”. Tiziana camminò incerta tra Bruno e Adele, come un’inferma, fino al parcheggio.
“Ci vediamo tra poco” li salutò Adele.
La mattinata domenicale procedeva lenta e tranquilla sulle mura; i più sportivi facevano jogging, altri portavano a spasso il cane. Valter e Adele camminarono in silenzio accompagnati dallo scricchiolio del ghiaino sotto le scarpe, poi scesero in strada dove ronzavano poche auto solitarie.
“Perché devi sempre leccare il culo a quella?” sbottò Valter.
“Che dici? Sono gentile e basta…”
“Buonissimi questi pancakes” la scimmiottò Valter. “Ti ho sentito dalla camera.”
“Cosa ti ha fatto?” disse Adele. “Chiede mille volte scusa e ha sempre paura di disturbare.”
“Esatto, disturba. Che ci fa a casa nostra?” Valter incassò la testa nelle spalle.
“Ragioni come un bambino.”
“Intanto anche tu te ne vai via.”
“È solo un anno. Non vado via di casa come mamma.” Sospirò. “E poi lei, con il suo lavoro, non c’era già quasi mai.”
“Ma a noi hanno pensato?” Valter si staccò dalla sorella per camminarle davanti.
“Dovevano stare assieme quando ormai non funzionava più?”
“Che puzza!” disse Valter con la faccia schifata. “Non senti questo odore orribile?”
“Non sento niente.”
“Alla svolta d’un sentiero un’infame carogna…” recitò Valter indicando, accanto al marciapiede, un ratto schiacciato.
“Ho rovinato la domenica a tutti. Mi dispiace” si scusò Tiziana, di ritorno dal pronto soccorso. Già all’andata aveva cominciato a riacquistare la vista. “Vedo delle luci” aveva avvertito, cauta e ancora angosciata. “Sono tutte sfuocate.” Quando era stata visitata, vedeva ormai perfettamente. Dagli esami non risultò alcun danno cerebrale o agli occhi; i medici non sapevano spiegarsi cos’era successo, sembrava un episodio isolato, niente di cui preoccuparsi.
Quella notte Tiziana dormì a casa di Bruno. Ciò che era accaduto lo aveva convinto: voleva vivere con lei, averla accanto, proteggerla. Avevano già considerato la decisione, ma Bruno sentiva che era arrivato il momento di parlarne ai figli.
‟Adele mi ha accettata” diceva Tiziana, ‟ma tra me e Valter c’è un muro. Cerco di essere naturale, di comportarmi come credo farebbe un genitore, ma poi mi blocco davanti alla sua indifferenza, al suo fastidio. Mi arrabbio perché mi sento trattata in modo sgarbato senza ragione. Non riesco a essere un vero genitore, ma non sono neppure un adulto qualsiasi. Cosa devo fare?”
‟È un adolescente, amore” diceva Bruno. ‟Gli adolescenti si comportano così con tutti gli adulti. Credi che alla sua età telefonassi a casa se facevo tardi? Mi interessavo dei miei genitori solo quando avevo bisogno di farmi comperare qualcosa. È normale. Con il tempo anche Valter cambierà.”
‟Ho paura sia ancora troppo presto per abitare assieme.”
Era la serata-pizza, Bruno era tornato con tre cartoni caldi, due coke e la weisser per sé. Adele e Valter erano seduti di fronte alla televisione, avrebbero visto degli episodi di The Big Bang Theory che Adele aveva scaricato in inglese con i sottotitoli in italiano, così avrebbe fatto pratica per l’anno negli Stati Uniti.
“A proposito” disse Bruno dopo un sorso di birra, “cosa ne dite se Tiziana venisse a vivere da noi?”
“Perché no?” disse Adele.
“Come mai?” chiese Valter. “Non stiamo bene così?”
“È da due anni che stiamo assieme” spiegò Bruno addentando una fetta di pizza. Continuò masticando: “Voi ragazzi ormai la conoscete…”
“Per me va bene” disse Adele.
“Tanto te ne vai un anno in America” disse Valter.
Risero assieme per una battuta della sit-com, anche se Valter trovava che la puntata fosse meno divertente del solito.
“E se mamma volesse tornare a casa?” riprese Valter.
“Lo sai che non tornerà.” Bruno afferrò il cartone della pizza che era in bilico sulle sue ginocchia e stava per cadere. “Questa pizza non sa da niente” si lamentò. “O sono io che non sento più i gusti oppure la pizza adesso la fanno che sembra gomma americana già masticata. Il profumo era buonissimo, poi invece… ma anche il profumo ora che ci penso…”
“A me sembra la solita” disse Adele.
Valter si alzò per buttare il cartone e la lattina nei contenitori della raccolta differenziata.
“Allora, cosa ne pensi?” gli chiese Bruno.
“Di che?”
“Che Tiziana venga ad abitare qui?”
“Fate quello che volete.” Valter si rifugiò in camera.
Bruno scosse la testa guardando Adele. “Adesso non sento neanche gli odori. Non è che mi sono preso il raffreddore?”
Era molto tardi, suo padre si sarebbe arrabbiato stavolta. Valter girò l’angolo e vide i due che sembrava stessero passeggiando. Alle tre di notte? Quando lo scorsero, si misero a parlottare lanciandogli delle occhiate di sguincio. Rallentò e si guardò attorno. Avanzavano con falsa indifferenza e, invece di spostarsi di lato per lasciarlo passare, si erano allargati mettendosi in mezzo alla stradina. Valter incrociò per un attimo lo sguardo fosco di quello più magro, che subito lo distolse dal suo. Ora aveva paura. Si fermò e corse nella direzione da cui era venuto. Anche i due si misero a correre, sentiva i passi che risuonavano sul selciato nel silenzio della notte. Girò a sinistra in una laterale, poteva ancora girare a destra o sinistra. Mentre correva cercò di ricordare la strada migliore, ma tutto accadeva troppo in fretta per pensare, il fiato gli bruciava in gola. I passi erano più vicini, sbirciò dietro e vide che il magro gli era quasi addosso, seguito dall’altro. Fece uno scatto, ma il magro, con un balzo, gli artigliò la manica del giaccone. Con orrore vide un sorriso sul suo volto. Cercò di tirare, ma quello lo teneva stretto. Poi successe una cosa strana. Il magro fece un’espressione confusa, la presa si allentò. Valter dette uno strappo e corse via senza guardarsi indietro.
“Ieri sera due tossici hanno cercato di rapinarmi” raccontò la mattina dopo alla sorella.
“E me lo dici così!”
“Li avevo già visti qua attorno, nei posti dove si spaccia. Mi hanno solo strappato la manica del giaccone.”
“Non raccontarlo a papà” disse Adele. “Se non ti è successo niente, meglio non preoccuparlo.”
“Mi devo confidare con Tiziana, allora?” disse Valter.
“Non fare lo stronzo. Papà sta bene, adesso.”
“E noi? Chi si preoccupa se noi stiamo bene?”
“Guarda qua” disse Flaco mettendo il giornale spiegazzato sotto il naso di Gordito, spaparanzato sul divano a guardare la TV. Flaco distese le gambe magre, troppo lunghe, sotto il tavolino da caffè affollato di tazze sporche, vecchi libri e fumetti di supereroi.
Gordito fece una smorfia e tornò a interessarsi a The Boys. Flaco lesse il trafiletto: “Ieri mattina, in Vicolo del Vento, è stato trovato morto M. F., detto Lobo, un trentacinquenne tossicodipendente, che viveva di espedienti. Probabilmente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, è caduto sbattendo la testa…”.
“Non è andata così, cazzo!” urlò Flaco scagliando il giornale per terra. Fissò l’altro con sguardo spiritato. “È stato quel ragazzo, ci scommetto le palle che è stato lui.”
“Che cazzo dici?” Gordito si tirò su a sedere.
“Mi ha guardato e… Non può essere una coincidenza.” Flaco si grattò la testa meditabondo. “Io e Lobo dobbiamo aver provato la stessa merda, soltanto che lui c’ha lasciato la pelle.” Flaco scattò in piedi e cominciò a girare nel piccolo salotto, percorrendolo in tre passi. “Non sentivo più nulla, come se una mano avesse strappato in un colpo solo tutti i fili che collegano il cervello al resto del corpo. Bang! Ero chiuso in una scatola senza poter uscire.”
“Dio Cristo. Non starai parlando di telepatia, teleci… come cazzo si dice? Sono stronzate da fantascienza.”
“È stato come un blackout…” Flaco si piantò di fronte all’altro, alto e contorto come un albero rinsecchito. “Cazzo. Non sarai anche tu come i giornali. Se uno è tossico, allora è un coglione che non ragiona. Io leggo, ho fatto due anni di filosofia…”
“Ma che c’entra?”
“So come vanno le cose. Dicono che rubi per comprarti la roba, che vivi di espedienti. Cazzo! Quelle che rubano sono le banche, e non gli fanno niente. O prendi Valentino Rossi…” disse indicando la TV che mostrava i fan al MotoGP di Valencia. “Non paga le tasse, cioè ruba allo Stato, e cosa gli dicono? Ce ne dai un terzo e amici come prima.”
Gordito ascoltava lanciando rapide occhiate alla TV.
“Troverò quel mostro del cazzo.”
Gordito si concentrò sulla puntata appena iniziata di CSI Las Vegas.
“Ero terrorizzato che non finisse più” borbottava Flaco come in trance. “Peggio che essere morto. Da morto non pensi, così invece pensi, eccome! Ma non puoi fare nulla.”
“Senti, quando finisce CSI ce ne facciamo una?” disse Gordito mostrando a Flaco due bustine. “Me l’ha data Gheddafi, dice che è roba buona.”
Di ritorno da scuola, Valter vide Tiziana al volante della sua auto rossa e gli tornò in mente la richiesta del padre, la sera della pizza. All’improvviso Tiziana dondolò la testa in modo insolito: i loro sguardi si incrociano, ma il suo era vuoto, senza vita come quello di un cieco. L’auto sbandò, andando a sbattere contro un platano del viale.
Lo schianto fu come una scarica di pugni nello stomaco di Valter che si ritrovò, spaventatissimo, a correre verso l’auto accartocciata. Tiziana, spinta dall’air bag contro il sedile, sanguinava al viso, frammenti di vetro le si erano incastrati sotto la pelle. Si lamentò debolmente. Altra gente era accorsa, un uomo chiamò il 113.
Valter non sapeva cosa fare. “Tiziana, Tiziana…” chiamava. Poi si girava verso le persone accalcate per sbirciare i dettagli dell’incidente. “La conosco, aiutatemi…” E cercava di far coraggio a Tiziana, quando lui era del tutto frastornato. “Avanti, ti prego… Di’ qualcosa…” Qualcuno disse: “Non toccarla, bisogna aspettare i soccorsi”. Valter tornò a cercare nei volti vicini una risposta, un sostegno, ma gli sembrava di essere intrappolato nella profondità di un pozzo, osservato dalla gente che si sporgeva dall’apertura illuminata. Tiziana si lamentò. Un buon segno, pensò, era viva; ma distolse lo sguardo dalle gambe sanguinanti malamente incastrate sotto il volante. Gli ululati delle sirene dell’autoambulanza e dei vigili del fuoco coprirono i gemiti di Tiziana.
Valter telefonò al padre che più volte fu costretto a fermarlo, dicendogli di calmarsi e di ripetere. Le gambe gli tremavano, si sedette sul marciapiede, la schiena appoggiata al muro di un palazzo. Una donna gli chiese se aveva bisogno di aiuto, ma rispose che stava arrivando il padre a prenderlo. Lei comunque gli rimase accanto.
“Ora ti porto a casa, poi vado al pronto soccorso” disse Bruno dopo aver ringraziato la donna.
“Voglio venire con te.”
“Non se ne parla neanche. Ti sei visto? Sei bianco come un lenzuolo.”
Valter non cedette, la discussione gli fece riprendere colore. Salirono in auto per andare in ospedale. Bruno, anche se preoccupato per Tiziana, era colpito dall’interesse di Valter per la salute della compagna.
Al pronto soccorso non fu possibile saper nulla. “Lei è un parente?” fu la prima richiesta. E alla risposta di Bruno che era il compagno di Tiziana, il personale si faceva vago, concludendo con: “Deve aspettare il medico”.
“Papà” disse Valter al padre, dirigendosi verso un angolo appartato. “Sono stato io. Volevo che morisse.”
“Ma cosa dici?” chiese Bruno.“Sei sconvolto. È stato un incidente.”
“No!” disse Valter. “L’ho vista e volevo che morisse. Mi ha guardato con lo stesso sguardo di quella domenica, quando era diventata cieca. Sono stato io.”
‟Valter calmati, ti prego. È stato solo un incidente.”
“No! No!” gridò Valter.
“Basta, Valter” disse Bruno, prendendo il figlio per le spalle e dandogli una scrollata.
“Sono stato io!” urlò Valter. Dalla sala d’aspetto, varie teste si girarono preoccupate verso di loro.
Bruno stramazzò sul pavimento come una marionetta alla quale vengano tagliati i fili.
“Papà! Aiuto! Papà…” gridò Valter spaventato. Si inginocchiò per soccorrerlo, gli occhi di Bruno roteavano come se fossero imprigionati nelle orbite. Accorse un’infermiera.
“Cosa è successo?”
“Non so” balbettò Valter. “Stava bene, poi ha avuto un attacco… di qualcosa.” La mano che Valter stringeva sembrava un pezzo di carne morta, la pelle flaccida del viso di Bruno si affossava nelle guance. Solo gli occhi cercavano lo sguardo di Valter, in una muta richiesta di aiuto.
Arrivò un altro infermiere con una barella, caricarono Bruno e lo portano dentro il pronto soccorso. Valter era stordito. Incapace di reagire, fissava la porta chiusa del pronto soccorso che aveva inghiottito il padre e Tiziana. Nella sala gremita di persone che aspettavano il loro turno, si sentì un naufrago scaraventato su una terra sconosciuta, ostile e pericolosa.
Scappò via.
Camminava veloce, come un automa a molla al quale è appena stata data la carica. Si era fatto buio, ma non se ne accorse, girava a vuoto nelle strade della città. Poi, il corpo, riscaldato dall’attività fisica sembrò riattivare anche la mente. Si fermò per telefonare alla sorella.
“È successa una cosa terribile” disse. “Papà e Tiziana sono al pronto soccorso. Sto tornando a casa.”
“Come?” gridò Adele. “Cosa è successo? Perché non sei rimasto lì con loro?”
“Io… non so… mi succedono delle cose strane…”
“Valter…” La voce di Adele si fece stridula dalla paura.
“ È colpa mia.”
“Colpa tua di che? Cosa vuol dire?”
La mazzata alla nuca fece crollare Valter sul selciato, il cellulare scivolò distante.
“Valter? Valter! Ci sei?” continuò Adele. “Valter? Rispondi.”
“Meglio che rimanga svenuto” disse Flaco.
“E adesso che si fa?” chiese Gordito guardando Valter legato a una pesante sedia di legno.
“Lo teniamo buono” rispose sicuro Flaco.
“Sei sicuro che abbia ucciso Lobo?”
“Certo, cazzo! È quello del blackout. Abita qua vicino, va al liceo dove vendevo la roba con Lobo.” Flaco si mise a girare attorno al tavolo della cucina, agitando le lunghe braccia magre. “Sono un uomo di parola” disse. “Io e Lobo eravamo come fratelli. L’amicizia è sacra… come la famiglia… ogni settimana porto i fiori sulla tomba di mia madre. Cazzo, non occorre fare la bella vita per avere dei principi.”
“Però hai lasciato Lobo in mezzo alla strada…” disse Gordito.
“Che cazzo potevo fare?” urlò Flaco. “Farmi beccare?” Piantato davanti a Gordito continuò: “Ho telefonato al 113. Io… io ho dei principi, ma quelli all’ospedale hanno fatto il loro lavoro? Se uno ha soldi…”
Gordito lo guardava dubbioso. “Si sta svegliando” lo interruppe.
Valter alzò lentamente la testa, sbatté le palpebre e fece un smorfia di dolore torcendo il collo. Si lamentò. Quando sembrò rendersi conto che era legato e che le due persone davanti a lui lo tenevano prigioniero, spalancò gli occhi terrorizzato.
Flaco fu svelto, ma non abbastanza, a mollargli un pugno in faccia che lo fece svenire di nuovo. Lui e Gordito fecero dei movimenti scoordinati, poi caddero pesantemente sul pavimento.
Vuoto cosmico. Una morsa di angoscia gli attanaglia lo stomaco, dove non c’è più stomaco, un urlo gli sfugge dalla bocca, che non ha. C’è solo uno spazio infinito e senza tempo dove galleggiano i pensieri, e il terrore. È come essere sepolti vivi in una bara al centro della terra, sapendo che nessuno potrà mai salvarti.
Dopo un tempo interminabile compare una scintilla nel buio. Come un assetato nel deserto, arranca verso la luce spingendosi con braccia e gambe inesistenti; o forse è la luce che si sta avvicinando, oppure si sta solo ingrandendo. Una scena galleggia nelle tenebre. Sua madre, vestita come la Madonna, il volto stanco, tiene un bimbo denutrito in braccio. È lui.
“Mamma” chiama, ma la bocca, che non ha, non produce suoni. La madre estrae da sotto le vesti una siringa e inietta un liquido opaco nel braccio del bambino, che inizia a piangere.
“No!” grida. “Mamma, cosa stai facendo?” Vorrebbe avvicinarsi, afferrarle il braccio per farla smettere, ma lui non ha corpo, è solo pensiero.
Il bimbo non smette di piangere, la madre gli artiglia la testa con lunghe dita contorte, spingendole dentro il cranio. Alla fine, l’osso cede con lo schiocco di una noce rotta, le unghie affondano nel cervello, schizzando sangue sul volto del bambino.
Flaco aprì gli occhi, un fitta acuta gli martellava il cranio. Il pavimento ondeggiava come il ponte di una nave, ebbe un conato di vomito. Vedeva il pavimento sporco da cui si innalzavano le gambe delle sedie e del tavolo della cucina. A una sedia era legato il ragazzo che calzava delle scarpe da ginnastica rosse nuove. Con fatica si mise a quattro zampe, del sangue gli gocciolò dalla fronte.
Si guardò attorno. Gordito era disteso a pancia in giù, negli occhi uno sguardo di terrore.
“Gordito” mormorò. Non ricevendo risposta lo chiamò di nuovo. L’altro balbettò qualcosa. Flaco si alzò in piedi aggrappandosi al tavolo.
“Ora mi credi?” chiese. “Questo figlio di puttana non deve svegliarsi finché non siamo pronti.” Aiutò Gordito, ancora rintronato, ad alzarsi e andò a prendere una siringa per iniettare una dose al ragazzo. “Così sta buono.”
“Era come guardare il mondo da una finestra” raccontava Bruno alla figlia. “Vedevo tutto, ma era come fossi senza corpo. Sentivo Valter che mi parlava…” Adele guardava preoccupata il padre disteso in un letto del pronto soccorso. “Dov’è Valter?” chiese Bruno.
“Non so” disse Adele. “Stava venendo a casa, poi è caduta la linea. Ho cercato di richiamarlo, ma non risponde.”
“Tiziana?”
“Ancora in sala operatoria. Non sono riuscita a parlare con i medici.”
Bruno afferrò il braccio di Adele. “Bisogna trovare tuo fratello. È sconvolto, si sente responsabile dell’incidente di Tiziana.”
“È troppo pericoloso” disse Gordito.
“Dorme, non preoccuparti” disse Flaco.
“Che cazzo ne sai?” Gordito non smetteva di tormentarsi le mani. “Potrebbe friggerci il cervello lo stesso.” Guardò Flaco che si era rinfrescato la faccia e aveva ripreso la sua baldanza. “Adesso cosa facciamo?”
“Ha ammazzato Lobo, deve pagare.” Flaco si drizzò, ficcando lo sguardo fosco in quello di Gordito. “Sono uno che ha dei principi.”
“Vuoi ammazzarlo?”
“Non sono un assassino.”
“Riempilo di botte e lascialo in strada, allora.”
“Voglio che sappiano che è lui l’assassino di Lobo.”
Gordito ebbe un gesto di stizza. “E come?” gridò. “Io me ne tiro fuori da questa merda. Non ne voglio più sapere nulla.” Si lanciò fuori dalla cucina verso il portone di casa.
“113, pronto intervento.”
“Ha preso un ragazzo…” disse Gordito.
“Chi parla?”
“Flaco… ha sequestrato un ragazzo…”
“Questo Flaco ha un nome e cognome?”
“Forse lo vuole ammazzare, ma io non c’entro un cazzo.”
“Da dove chiama?”
“Lo tiene in via Merano 3. È un favore che vi faccio a telefonare.” Riattaccò subito. Aveva visto troppi telefilm in TV per non sapere che la polizia poteva rintracciare le telefonata.
“SuperValter” disse Flaco leggendo la carta d’identità che aveva trovato nel portafoglio di Valter. Gli afferrò i capelli per tirargli su la testa, lo sguardo era ancora vitreo.
“Ascoltami” disse, per provare il discorso che voleva fare. “La corda che hai al collo è legata alle mie ascelle, ok? Se svengo e cado, ti impicchi da solo, quindi non fare scherzi con i tuoi superpoteri del cazzo, altrimenti ci rimani secco, chiaro?” Giorni prima aveva bestemmiato per inserire il gancio sul soffitto attraverso cui passava la corda, ma ora lo osservò fiero di sé. “Pensi che sia un coglione, un povero tossico? No, bello mio, qui dentro c’è materia grigia, rotelle che girano alla grande.” Puntò l’indice verso il ragazzo. “E tu confesserai che hai ucciso Lobo. Cazzo, se lo farai. Voglio che tu dica tutto quello che hai fatto a me e a Lobo.”
Valter era cosciente. A occhi chiusi, cercava di respirare in modo regolare per non insospettire Flaco. Non devi fare nulla, continuava a dirsi come in una litania, implorando che funzionasse, perché non sapeva proprio come controllare quella maledizione che gli si era rovesciata addosso.
Flaco si spostò per prendere il pacchetto di sigarette che aveva lasciato vicino al lavandino, ma la corda si tese. Si girò a guardare Valter e si sporse allungando le lunghe braccia. Il cappio si strinse attorno al collo del ragazzo. “Merda!” Si avvicinò a Valter, allargò il cappio perché non si strozzasse, poi cominciò a sfilarsi la corda dalle ascelle. Ora ce l’aveva al collo e stava per liberare la testa. Se l’avesse legata a un polso, si era detto, nel caso fosse svenuto la corda si sarebbe tesa abbastanza per impiccare il ragazzo. Con la corda al polso però, sarebbe riuscito ad afferrare le sigarette e farsi una bella fumata.
L’interruttore dei sensi di Flaco si spense. Il cappio si sfilò dalla testa di Valter, scorticandogli la fronte. A dieci centimetri dal pavimento, la corda si tese stringendosi attorno al collo di Flaco, dopo che il cappio si era incastrato nel gancio sul soffitto. Quando Valter, socchiudendo gli occhi, vide il corpo floscio di Flaco e la testa che dondolava come per dire di no, lanciò un urlo liberatorio per scrollarsi di dosso la paura e l’angoscia che fino a quel momento l’avevano sopraffatto.
‟Crepa, figlio di puttana!” gridò. ‟Bastardo! Pezzo di merda! Testa di cazzo! Muori, muoriii!” Se fosse riuscito a liberarsi avrebbe preso a calci il cadavere per ridurlo un mucchio di stracci sanguinanti.
Solo quando bussarono alla porta si zittì temendo che fosse ritornato l’altro tossico, e al rassicurante: ‟Polizia, c’è qualcuno in casa?” urlò a squarciagola: ‟Aiutooo! Sono qui, aiutatemiii!”.
A Natale, la famiglia di Bruno si riunì davanti all’abbondante pasto che Tiziana aveva preparato dalla mattina, insistendo a fare tutto da sola, anche se non si era ancora ristabilita del tutto.
‟Buonissimo questo pasticcio di verdure” disse Valter, ingurgitando con avidità un grosso boccone. Era contento di aver convinto suo padre a lasciarlo frequentare il quarto anno delle superiori a Londra, così avrebbe potuto allontanarsi da casa come sua sorella.
“Grande!” Adele non era più angosciata per aver rischiato di perdere l’occasione della sua vita, l’anno di studi negli Stati Uniti.
“Sono così contenta che vi piaccia” disse Tiziana, felice di aver conquistato la gratitudine di Valter, almeno in cucina, e di poter vivere un anno con Bruno, senza i ragazzi.
“Brava, amore!” Dopo vari tentennamenti, Bruno aveva accettato la difficile scelta di staccarsi dal figlio. Tiziana l’aveva aiutato a capire che Valter desiderava essere indipendente, e che un anno all’estero sarebbe stato utile sia al figlio sia al loro rapporto di coppia.
Dopo pranzo, Valter uscì per incontrarsi con la sua nuova ragazza. Da qualche mese le lanciava occhiate che avrebbero dovuto trafiggerle il cuore, ma delle quali non si era mai accorta. Era troppo timido da avvicinarla. Trovò il coraggio di parlarle solo dopo aver assistito all’incidente mortale in cui il ragazzo di lei, che percorreva il viale in motorino, era stato travolto da un furgone proveniente in senso opposto. Era possibile, avevano scritto i quotidiani, che il conducente avesse avuto un malore. Superando le sue insicurezze, Valter aveva incontrato la ragazza per offrirle una spalla su cui piangere, e da lì era nato un amore, anche se lei voleva aspettare per il sesso completo, non si sentiva ancora pronta dopo quello che era successo al suo ragazzo. Poco male, a Londra non gli sarebbero mancate altre opportunità.
Da un grande potere deriva una grande libertà. Era libero di afferrare tutto quello che desiderava. Una bella sensazione.
Copertina di Joey Nicotra (Unsplash)
*****
Maurizio Donazzon
Sono nato a Treviso, nel 1961, e dal 2009 tengo corsi di Scrittura creativa presso l’Arci di Treviso, dove lavoro. Ho tenuto un Laboratorio sull’intervista da cui è tratto il volume Storie di vita migrante, Terra Ferma Edizioni, 2015, con dieci interviste di migranti.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line WebSite Horror, Il Paradiso degli Orchi, Lahar Magazine, Sguardindiretti, Spazinclusi, Verde. Autore aggiunto presso Spazinclusi.
https://twitter.com/mauridonazzon
https://www.facebook.com/profile.php?id=100017204923815