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Colpi di tosse e rantoli misti a imprecazioni mi strappano da un limbo senza sogni.
Ancora case sconosciute.
Il sangue raggrumato di mamma-coraggio tende la pelle attorno alla piega del gomito e sotto lo zigomo. Porto le mani alle orecchie ma le grida disumane hanno smesso di tormentarmi.
Sono sdraiato su una barella e sento puzza d’ospedale. Mi metto seduto e ausculto il mio corpo.
Sono vivo e lei è con me.
Mi trovo in un lazzaretto di fortuna. Lo stanzone è vasto e i soffitti sconfinati da silos industriale. I letti sono sparsi in maniera caotica lungo tutta l’area. Qua e là alcune flebo vuote e diversi separé. Più che atolli siamo scogli alla deriva.
«Cosa ci faccio qua dentro? C’è nessuno?» urlo.
Una sedia trascinata mi fa voltare verso l’entrata.
«Sei stato ferito e ti abbiamo portato qui.» C’è solo una pala fluttuante ad accompagnare la voce.
«Sto bene,» salto giù e le palme dei piedi schiaffeggiano le piastrelle, «Benissimo. E poi dove sarebbe “qui”?»
«Non potevamo saperlo. Tutti i commilitoni trovati a terra devono essere trasportati al rifugio più vicino.»
«Commilitoni fa rima con coglioni.» mormoro.
«Cosa hai detto?» Si avvicina. «Dov’è la tua fascetta?»
«Dorothy avresti almeno potuto lavarmi. Ho l’occhio destro impiastrato e mi sento tutto appiccicaticcio. Cos’è, mi hai usato a mo’ di straccio per lucidare i cateteri?» allargo le braccia per poi riabbassarle. Fanculo. Tanto vale dargli le spalle. Dorothy dice di non chiamarsi Dorothy. Ha un altro nome che mi sfugge, trovo più interessante indagare sui miei compagni di letto.
«Ehi vieni via da lì!»
«Va bene Lucio, lascialo fare.» Dovrebbe essere Valerio.
«Ciao balia, mi hai perso in quel casino dell’altro giorno, devi aver passato un brutto quarto d’ora con il capo.» dico.
«Noi ci chiamiamo per nome, Flavio. Io sono Valerio, il custode è Lucio e… chiedilo tu ad Alameda cosa ci aspetta.»
Neanche il tempo di chiedermi se stia bluffando che attacca a parlare: «Ciao Flavio. Continua pure il tuo giro turistico se ti fa piacere.»
È proprio Alameda. Oltre che per il tono da arringatore di folle la conferma arriva dallo scodinzolare della vanga di Valerio e della pala di Lucio nella sua direzione. «Avete presente quando si sta pisciando? Stesso concetto. Non ci riesco se vengo osservato.» Strappo una risata a Lucio ma un grugnito arriva da Valerio o dal capo, difficile dirlo.
Melody resta indifferente alla malia della vanga di Alameda, resta dritta come un dito medio rivolto al mondo. È divertente deviare dallo standard di una bizzarria.
«Dirigere un commando di ombre è molto difficile. Devi sapere cosa dire e a chi nei momenti cruciali di una battaglia. Con il tempo si impara a riconoscersi in base alle diverse altezze delle nostre armi, o al passo cadenzato dei soldati.»
Un moribondo eietta un conato di vomito interrompendo il monologo. Riconosco il letto da cui proviene perché quando qualcosa, indipendentemente da massa, forma o dimensione, ci abbandona, torna visibile. Dei passi trafelati lasciano la stanza e Alameda torna alla carica: «Riconoscersi è fondamentale. Se vorrai restare con noi dovrai indossare una di queste.» Lancia verso il letto un circolo di plastica nero. Il materassino dove atterra ha una forma umana incassata nel lattice. Nel prendere la fascetta sento il caldo della gamba ferita.
«Lo stai toccando?» chiede Alameda.
«Sì. Ha un polpaccio tutto sudato e dai peli spero sia un uomo. Diagnosi “dottore”?»
Valerio evita di farmi da spalla e Alameda continua: «Lì c’è disteso Bayani. Toccagli la testa. Troverai una profonda rientranza sulla fronte.»
Salgo con il palmo fino alla testa evitando di tastare la zona inguinale. «Trovata. Mamma mia, sembra un foro di proiettile!»
«In effetti lo è. Gli hanno sparato un piombino all’età di 6 anni. Bayani è un nome fittizio. Molti di noi, oltre alle loro vite, si sono lasciati dietro usanze e credenze.»
«Incredibile.» dice Valerio.
Troppo impressionabile Valerio. Ne ho sentiti tanti di incidenti domestici.
«Bayani è un Fanteria e ha una fascetta nera legata attorno alla sua arma. Ma dopo averti ascoltato sarebbe uno spreco assegnare il nero anche a te. Spero accetterai la nostra offerta. Un lupo solitario, in un mondo di sciacalli, verrà sempre sbranato.»
La Vanga di Alameda si allontana lasciandomi solo con Valerio.
«Ehm… da dove comincio?» dice lui.
«Potresti iniziare col dirmi il motivo della discesa del grande capo nel lazzaretto per venire a incontrare un tizio estraneo al suo plotone di fanatici, per esempio.»
«Perché tu Flavio, sei diverso da noi e uguale a lui.»
«Sì certo, tutte stronzate! Prendi del cotone e riaggiustami il naso. O vuoi farmi continuare a respirare dal culo?»
***
Alla fine ho scelto di restare. Sono stato assegnato al reparto medico. Ora Melody ha una fascetta bianca striata di rosso: la sua giarrettiera personale. Lì per lì l’ho trovato ridicolo, però anche un reggimento di morte ha bisogno dei suoi angeli. Così sono diventato l’infermiere di Valerio.
Mi piace.
Ho una duplice funzione al pari delle monete nei sorteggi arbitrali, con una faccia offro una mano indulgente, con l’altra un braccio di carne, legno e metallo.
Siamo circa quaranta Evoluti. Così ci chiamiamo fra di noi. Idea di Hummel, uno Stanatore col vizio della musica classica.
Con le mie mansioni di assistenza entro in contatto con le diverse realtà del reggimento. C’è una ferrea organizzazione. Ognuno ha un incarico da svolgere al meglio delle proprie capacità – foga permettendo. Ci spostiamo costantemente lungo il perimetro cittadino. Ci muoviamo leggeri, il nostro bisogno di cibo è pressoché nullo; suggiamo dal capezzolo della violenza ogni linfa vitale estorta dai corpi massacrati lungo il cammino. Gli Stanatori (fascette tricolore) vagliano ogni edificio o pertugio pronto per essere adattato a campo di fortuna, dormitorio o infermeria a seconda delle necessità. Le Ronde (fascette in cuoio) tornano sui nostri passi e diffondono l’illusione di un controllo capillare del territorio usando le bombolette spray. Per ogni Evoluto di pattuglia spuntano almeno tre scritte “Neanche sapete perché morite” a piantonare piazze e strade.
«Perché deve essere giallo lo spray?» chiesi una volta ai gemelli.
«È un nostro marchio di fabbrica. Il gruppo di Alameda usa il giallo.» rispose Ale.
«E certo! Tanto sono io a cercare quelle cazzo di bombolette. Siamo pieni di spray verdi, blu, viola invece, le gialle iniziano a scarseggiare.» disse Remo, uno Stanatore che aveva ucciso la famiglia gettandola dalla finestra.
«Remo, piantala di frignare e vai a lavorare.» disse Diego mentre perquisiva cadaveri.
«Lo vedi? Sei sempre il solito. Dovresti incoraggiarli, siamo parte di una squadra.» Apparvero degli euro su un muretto. «Remo trova del giallo entro 24 ore. Ci scommetto 50 bigliettoni» propose Ale.
«Ci sto.» disse Diego.
«Dovete scommettere per qualsiasi stronzata?» dissi io.
«Questo è niente!» si intromise Valerio, «La stessa notte in cui “cambiarono” scommisero su chi avrebbe ucciso più familiari.»
«E vinsi io.»
«Ancora? Diego, ho ucciso la pezzente della tua ragazza. Ed era incinta, quindi valeva doppio!» lo sbeffeggiò Ale.
L’ilarità è uno degli aspetti più corroboranti. Da ramingo uccidevo nell’esaltazione del momento, ora le morti sono inframezzate da goliardie e salamelecchi sulle esecuzioni più spettacolari. Ugo, un Fanteria (fascette nere) alto quasi due metri, ha ideato un gioco di prestigio niente male. Strappa a morsi una parte del corpo di un malcapitato e se la tiene in bocca, gli altri devono indovinare il pezzo mancante. Lui per sviarci prende a fare dei mugugni o gargarismi. Chi indovina vince il diritto di finire il Senzapala. Bisogna ringraziare sempre Hummel per i nuovi termini.
Sono passati due mesi dal primo colloquio con Alameda nel silos abbandonato. Ci sono voluti giorni per capire che lo stupore di Valerio non era rivolto alla ferita sulla fronte di Bayani. Era rivolto a me. Io potevo toccare Bayani. Io sono l’unico Evoluto a poter toccare altri Evoluti. O, per meglio dire, io sono l’unico a rimanere illeso nel toccare un Evoluto. In tutti gli altri casi le pale e le vanghe si rivoltano contro l’intruso del loro territorio bipede. Valerio si era confidato con Alameda a proposito del contatto fortuito tra noi due durante l’assalto al fast food. Io ottenni una conferma sul dono della visibilità di Alameda. Il resto è venuto da sé. Sono benvoluto da tutti. Prima di me i feriti venivano caricati su mezzi di fortuna. Inoltre dovevano automedicarsi, quindi restare coscienti era basilare per sopravvivere. Roberto, un altro Fanteria, mi sfotte canzonandomi sul mio animo da femminuccia e mi chiama “Madre col Manico” Mà-Mà per gli amici.
Evito di fare una purea di testicoli di Roberto mentre è intento a farsi medicare perché non mi deride mai quando sono in foga.
Sono anche l’unico a chiamarla così. Gli altri si astengono dal dare un nome al loro stato poiché ne ignorano l’esistenza. Solo io e Valerio ci ostiniamo a voler apparire umani.
Il mio limite di giorni senza foga è stazionario a sei.
Oggi è il settimo. Qualcuno con più esperienza di me il settimo giorno si è riposato. Io vorrei fare altrettanto.
Siamo radunati all’interno di un ex-cinema. La lanugine alla base delle poltrone sta prendendo il sopravvento su popcorn ammuffiti da tempo. L’aria viziata passa in secondo piano rispetto all’odore acre di decine di uomini in attesa del discurso della semana. Luoghi diversi, stessa esaltazione. Un uomo solo sul palco a recitare in un film già visto; eppure commuove sempre. Alameda è un concime dell’istinto, infiamma animi con la facilità di nitroglicerina in una centrifuga. Quanto del suo carisma è artificiale?
I miei pensieri vengono interrotti da un ciarlare esagerato «Ma poi pale, vanghe… Mica l’ho capita la differenza. Se con una ci si spaccano più teste, beh io faccio volentieri a cambio con la mia!» la stronzata proviene da Nino, uno Stanatore zoppo tornato sano con l’avvento delle Pale.
«Certo! Infatti tu la tua te la puoi togliere quando ti pare vero? Abbiamo il nuovo Alameda.» gli risponde Ale e via guaiti dalla sala.
«Le differenze sono sulle forme e dimensioni. Le vanghe hanno la testa più squadrata, le pale…» Valerio tenta di imbastire una lezione di geometria ma gli altri si sono già distratti. A volte mi fa tenerezza. Si avvicina: «Ho una proposta. Come la vedi se oggi ti mettiamo in coda? Potresti parlare delle urla delle Pale, sono certo verrebbe visto…»
«Davvero ci tieni a questi bifolchi?» gli domando.
La risposta tarda ad arrivare.
«Lascia stare, sprechi solo fiato. I porci almeno le perle se le mangiano, loro sarebbero capaci solo di calpestarle.»
«Flavio, mi spieghi cosa ci stai a fare con noi? Credi nello scopo?»
Stavolta sono io a stare zitto. Vengo salvato dall’annuncio.
«Signori! Alameda sta avendo un incontro con un Evoluto di Viterbo. Oggi dovremo fare la comunione senza di lui.» dice Hummel.
La delusione del branco serpeggia in sottofondo.
«Signori, seguitiamo il giro prestabilito. Tocca a,» sfoglia un libro contabile, «Nicola, poi Diego, Salasso, Ugo e il sottoscritto.» Conclude Hummel andandosi a sedere sugli scalini.
«Permesso, scusate devo uscire.» Il “pippone” di Nicola voglio evitarmelo.
«Fate passare Mà-Mà l’asociale.» dice Roberto.
Mi chiudo le sghignazzate alle spalle e prendo a camminare per la mia Roma. Siamo a ottobre, le giornate si accorciano come le vite dei suoi abitanti. L’umidità del vespro mi pizzica il torace ma non sento freddo.
Non sento niente.
Passo sulle rotaie del tram vicino alla stazione di Trastevere. Il filare di alberi lungo Circonvallazione Gianicolense è l’unica cosa ad avere attinenza con il passato. Prendo Melody dalla schiena e la pongo davanti a me.
«Cosa stai tramando? Sono troppo calmo per essere in un settimo giorno.»
Resta immobile.
E se tutto finisse? «Melody, ho scordato cosa sto cercando. So solo che è sempre più difficile consolarmi. Ho più difficoltà a capire chi dovrei essere invece di essere me stesso.» Alcuni corvi banchettano con un cadavere sulla pensilina.
«Per te è facile, giusto?» Sputo per terra, «È tutta una questione di controllo. Capisci almeno a quale gioco stai giocando? Perché intanto sono io a pagare le tue trasgressioni.» Un lampione spento fa da palo a una porta immaginaria. Accanto, un’auto della polizia bruciata ospita un Senzapala terrorizzato dalla mie parole.
«Vattene o ti ammazzo.» Gli dico.
Per lo spavento il demente urta il capo contro il tettuccio facendo cadere pezzi di vernice annerita.
Melody scorre verso il mio palmo pronta a essere impugnata. E io la impugno.
Prova ad aprire la portiera ma resta chiusa, nell’uscire dal finestrino si ferisce una spalla. Il copione è semplice: aspetto si rialzi e lo colpisco al ginocchio per dargli la parvenza di poter strisciare verso una salvezza chiamata miraggio.
Stavolta decido.
Melody mi asseconda e sbaglia. La serro tra il palo della luce e il parabrezza della macchina. Quando capisce è troppo tardi. Si imbizzarrisce. Il clangore del metallo sul palo genera un battito sincopato.
Guardo il fesso: «Ancora qui stai?»
Il Senzapala biascica qualcosa e scappa. Il sudore mi impregna le ascelle e la presa si allenta. Resisto. Anzi. Alzo la posta.
Spostandomi di traverso provo a fare leva con le braccia per disarcionarla dal mio corpo. Da principio forzo poco e mi genufletto, poi aumento la pressione pensando a cosa potrebbe accadere se ci riuscissi. Strattono e urlo. Punto i piedi sulla portiera e spingo fino a perdere sensibilità all’arto che la cinge in una guaina indissolubile. Con il fiatone sollevo il capo cercando segni della lotta sul suo legno.
Nulla. Neanche una scheggia. Rido e la mia intonazione sale di ottave. «A volte amare è volere una cicatrice. Te invece sei sempre fulgida e perfetta. Asettica oserei dire.» Crollo in ginocchio. «Lasciami andare, lasciaci andare.»
E lei, in risposta, si libera e torna ad aderire sulla mia schiena.
Rientro tremante nel cinema durante il turno di Salasso. Sta parlando a ridosso del corridoietto centrale in alto, dopo la fila M. «… e le notti le passavo a occhi aperti, pensando al mutuo da pagare, a cosa avrei dato da mangiare a mia figlia se avessi smesso di ingoiare merda per quello stronzo del mio capo. E le preoccupazioni si sommavano con l’arrivo di una multa o un interesse di mora. Ora dormo come un angioletto perché non c’è più mutuo né figlia e il mio capo…»
Mi ci affianco e dico: «Levati Salasso, parlo io.»
«Chi è?»
Evito di spiaccicargli la faccia sul proiettore per essersi scordato la mia voce perché oggi non sono in foga.
«Fatti un giro è meglio.»
«Ehi stronzo! Aspetta il tuo turno.» urla Zio Gigi, un Ronda col vizio degli asili nido.
«Signori! È Flavio, sarebbe il suo battesimo. Vi ricordate quanto le prime volte siano state difficili per molti di noi? Lasciamolo sfogare.» dice Hummel.
«Deve chiedere scusa a Salasso.» prorompe Roberto.
«Sì! Giusto!» gli fa eco il gruppo.
«Ok, Salasso scusa. Ti cederò la mia prossima comunione. E ora levati dal cazzo.» Attacco a parlare incurante di quanti mi stiano a sentire. «Sto con voi da mesi e sento parlare di soluzioni a problemi ritenuti insormontabili fino alla loro scoperta.» Sollevo Melody sopra la testa, «Abbiamo ottenuto cure miracolose indossandole tanto da declassare il Santo Graal a palliativo, abbiamo smesso di mangiare e abbiamo smesso di preoccuparci perché ci sentiamo bene, vivi.»
Qualche fischio e un timido applauso sostituiscono i brusii.
«E smettendo di preoccuparci abbiamo smesso di porci domande. Alle elementari mi hanno insegnato che domandare è lecito, rispondere è cortesia. Ora le risposte arrivano come fiumi in piena, ma chi è a porre le richieste?»
Nuovi brusii stroncano fischi e timidi applausi.
«Me le sono segnate. Devo leggerle dal mio quadernino altrimenti il vuoto nella mia testa mi impedisce di ricordarle,» faccio aderire Melody al torace e leggo: « Come mai mancano donne Evolute? Perché tra gli Evoluti gli istruiti sono pochi?»
«Le donne sono deboli, ce le vedi a gestire le pale?» dice Roberto.
«E se le temessero? E se gli fosse impossibile…»
soggiogarle, dillo, dillo.
«Fanculo. Dovrei parlarvi e invece mi incazzo.»
«Hummel ‘sta roba c’entra con la comunione?»
«Ho gridato forse ALLUNGA LA MANO? No! Allora state zitti e lasciatemi finire.»
Quanto darei per vedere le loro espressioni da ebeti; raschierei via ogni manifestazione del volto e lasciare facce spoglie per coerenza al nostro status di manichini.
«I nostri discorsi rasentano la monotonia! Cosa c’è di peggio dell’omertà?»
«Tu che ci stai cagando il cazzo?» Scoppia una risata fragorosa.
«Esatto Salasso bravo! Guardate qua!» volgo il quaderno alla platea, «Riuscite a leggere? Qui su questa riga c’è scritto “Giorni senza figa: 147” Il cazzo ce lo siamo cagati da un pezzo e abbiamo pure tirato lo scarico!»
In molti si alzano prendendo a starnazzare.
«Ditemelo avanti! Confutate la mia tesi invece di censurarla. Zio Gigi, se ti capitasse un ragazzino sottomano ora lo molesteresti o lo impaleresti? Francesco, tu eri un attore porno, saresti in grado di scoparti qualcuna adesso?»
«Flavio io se voglio…»
«Siamo esperimenti, siamo un gioco, scegliete voi il termine. Le vanghe scodinzolano e noi sbaviamo di rimando come i cani di Pavlov. Sapete, Pavlov ne aveva più di quaranta e nessuno ricorda i loro nomi, chi potrà ricordare i nostri se uccidiamo le generazioni future?»
«Ok Flavio, basta così.» gracchia Hummel.
«Tappiamogli la bocca.» urla Roberto tirandomi addosso uno zaino.
«State zitti o vi ammazzo! Abbiamo perso la nostra immagine eppure sono i Senzapala a essere i veri invisibili. Li maciulliamo alla stregua di bestie privandoli persino della dignità di avere paura.»
«Buuh.»
«Piantala.»
«Falla finita.»
«Lasciamolo qua.»
«È colpa di Valerio.»
«State zitti cazzo, zitti, zitti.» La bocca muove le mie labbra tarantolate, escono imprecazioni udibili a stento nel coro di proteste. Una voce arriva nitida vicino al mio orecchio.
«Mà-Mà sei finito, sarà Alameda a tirare lo sciacquone.»
Sono le ultime parole di Roberto.
«ALLUNGA LA MANO.» Salgo sul bracciolo di una poltrona e salto in alto portando Melody dietro la testa con entrambe le mani. Piombo a terra imprimendo violenza e squarcio l’aria; trapasso un punto imprecisato di Roberto e vedo fiotti di sangue mischiarsi nell’aria con un bouquet di denti; intanto nella sala completano il rito dicendo: «E TOCCA LA FEDE.»
Gli uomini si ammutoliscono e la pala di Roberto piange il suo lamento.
«Stai zitta anche tu!» Melody spezza sua sorella con una facilità disarmante. L’insieme dell’altra pala assume la consistenza di un budino e prende a sciogliersi scoppiettando in bolle di liquami.
Fine del lamento.
Nell’attimo in cui la pala muta in rigagnolo, Roberto torna a risplendere sotto i faretti del cinema. Tinteggia di rosso la parete su cui è poggiato dando la schiena agli astanti.
«Roberto smettila di dare le spalle, Mà-Mà ti ha insegnato le buone maniere.» gli do un calcio su un fianco e si gira. Mostra la caverna di cartilagini al posto della mandibola e io ne approfitto per scappare verso l’uscita.
Cedere al panico fa commettere stupidaggini. Sono salito anziché scendere e mi sono dovuto barricare nello stanzino del proiettore.
In attesa di Alameda arrivano due ondate e ne faccio secchi altri due. Ci abbiamo messo un po’ per capirlo: Melody le annichilisce. Le altre Vanghe tornano a essere semplici utensili a contatto con lei. Faceva quasi pena assistere ai tentativi di rianimarle. Sono testimone di un divorzio collettivo provocato da un’unica amante. I più temerari si sono lanciati ugualmente e hanno ricevuto ferite, mutilazioni e biglietti di sola andata per l’aldilà.
Ora sono ammassati lungo il corridoio. Li sento confabulare. Io lascio la porta aperta e aspetto la fine.
«Stavolta sei fottuta Melody. Ci lasciamo le penne.»
«Chi abbiamo perso?» È Alameda.
«Roberto, Hummel e un altro.» risponde Valerio.
«Mi senti Flavio? Questo cinema sarà la tua tomba, lo sai vero? Faremo sapere ai Senzapale dove trovarti e ti fotteranno. Ti fotteranno per bene.»
«Almeno tornerò a scopare.» Faccio il gradasso ma la voce mi trema. Mi guardo attorno alla ricerca di una salvezza in una prigione 2X3. Trovo un contenitore metallico e scoppio a ridere.
«Lo trovi divertente Flavio? Perché invece non ci spieghi come ci sei riuscito uhm?»
Esco dallo stanzino con in mano la bomboletta: «La gelosia di Melody sta rasentando la pazzia. Giuro. Mi ha tirato una frustata sulle nocche per paura la stessi dividendo con altre.» Premo il diffusore e lascio la mia firma sulla parete, «Le cose stanno così. Non avrò altra arma all’infuori di lei.»
«Flavio dimmi come ci sei riuscito e forse possiamo trovare una soluzione.»
«Ancora soluzioni? Peccato ti sia perso il mio discorsetto o sapresti cosa ne penso delle soluzioni.»
Finisco la scritta:
Neanche sapete perché morite.
E poi, la completo:
° sappiamo li uccidiamo.
Neanche sapete perché morite.
«Dammi retta Aly ecco il nuovo slogan. Perché qui, siamo tutti ciechi.»
BOOOOM!!!
Il boato mi manda in pappa i timpani e al posto delle urla sento un fischio continuo. I mattoni dell’edificio diventano farina e molti commilitoni si impastano al suolo ricoperto di detriti. Penzolo da una voragine e mi sembra di essere tornato bambino, faccio l’altalena a 10 metri da terra.
Alzo lo sguardo.
Melody si è incastrata tra il pomello della porta sfondata e il battiscopa.
Glie l’ho insegnato io. Sono fiero di lei.
Abbasso lo sguardo.
Alameda era stato preceduto e la soffiata di Evoluti al Nuovo Sacher in Trastevere era già stata data.
Il secondo colpo del carrarmato fa piovere la notte in anticipo e precipito anch’io.
Mi rifiuto di toccare il naso per vedere se si è rotto di nuovo. A dirla tutta ho parecchie difficoltà a muovermi. E ho più di qualcosa di rotto. I rimasugli della luce solare dardeggiano nelle crepe di un igloo di macerie. La sorte si è fatta architetto e mi ha lasciato in vita. Un ammasso di poltrone, pizze cinematografiche e il proiettore hanno formato una colonna risparmiandomi la fine del sorcio. Riesco a distendermi lateralmente appoggiandomi su Melody. Respiro a bocca aperta e mi sembra di inalare polvere e muco. In lontananza, un cingolato nel suo cammino polverizza i resti del palazzo.
Almeno l’udito funziona ancora.
Striscio verso una delle fessure di luce. Schegge mi bucano le dita e l’indice si spappola sotto il peso di una scrivania della reception. Tiro via la mano e mi gioco un’unghia.
Il dolore mi ha abbandonato.
Cosa mi spinge a vederla se non un sentimento di gratitudine? C’è chi parlava della banalità del male, ma quanti si sono soffermati sulla sua bellezza?
Eccola. La bramo.
«No, no, più luce, mi serve più luce! Melody sei con me? Oh frammento di perfezione sono fortunato ad averti accanto.»
Piango e nascondo le lacrime al suo cospetto.
«Scusami. Siamo strani forti eh! Oggi mi volevo sbarazzare di te e ora ti voglio.»
La lecco, la bacio.
«Ci sono arrivato. È l’incongruenza umana a renderci speciali ai vostri occhi. Per questo ci avete scelto?»
Mi copro la bocca per evitare di tossirgli addosso.
«Ignoro se siamo stati fatti a immagine e somiglianza di qualcuno, però io voglio cambiare e scelgo il tuo mondo interiore.»
Mi distendo supino e poggio il braccio vicino al petto. «Ora però abbiamo bisogno del tuo involucro esterno. Scava Melody. Scava. Portaci via da qui.»
FINE
Copertina di William Bersani