Mi sveglio nudo in una casa nuova con lei addosso. Cammino lungo il corridoio scoprendo mobili dipinti dalla luce solare del mattino e mi sento bene, vivo. Lei oscilla a ogni mio sobbalzo e il suo metallo mi solletica l’orecchio come la lingua di un’amante.
È un attico spazioso con quattro camere, bagni, e balconi lungo tutto il perimetro mostrano una visuale a 360 gradi sul rione Celio abituato a ospitare gran signori.
E ora lo occupo io.
Corro verso la cucina puntando il frigorifero inox, apro lo sportello e stranamente l’interno profuma, funziona; nello stabile c’è corrente elettrica.
Lo apro e non lo spacco perché oggi non sono in foga e riesco a controllarmi, riesco a pensare lucidamente.
Burro di arachidi. In ventidue anni mai mangiato burro di arachidi. Fino a tre mesi prima non avevo ancora ucciso nessuno.
Con il barattolo e del pane in cassetta ammuffito mi dirigo in salotto. È integro: un divano altezza nani, abbellito con i colori delle beauty farm, mi attende in un ambiente strozzato dalle linee geometriche del feng shui.
Per me questa roba è inutile. Il mio centro l’ho trovato: è qualcosa di concreto.
Scavalco il divano e l’asta di legno che mi pende dal fianco urta un bonsai sul tavolino. La pianta oscilla in una spirale sempre più ampia prima di cadere sul parquet. Sul vaso in ceramica si formano vene nere da cui defluisce terra. Mi acquatto per osservarne le radici: «Cosa saresti dovuto essere? Un abete? Guardati, sembri un aborto della foresta con la tua forma pulita e ordinata.»
Lo prendo per i rami e ci alziamo. Lo porto vicino alle labbra. Le minuscole foglie mi punzecchiano la pelle, l’odore di linfa mi imbratta la mano e sento il terriccio cadere sui miei piedi.
«Siamo liberi,» sussurro, «puoi essere ciò che vuoi.» Lo adagio sul davanzale e cerco il telecomando.
L’ho adagiato e non scagliato fuori dalla finestra perché oggi non sono in foga.
Accendo la TV e una falsa voce rassicurante registrata inizia il suo monologo:
“… state in gruppo, uscite in spazi aperti solo se necessario. Assicuratevi di essere armati. Se non sono presenti con voi membri dell’esercito della vostra nazione o di nazioni alleate, cercate un posto di blocco o rifugio delle forze armate. Gli attacchi terroristici avvengono con armi improvvisate, se doveste sentire un contatto insolito allontanatevi immediatamente dall’area, se avete con voi armi da fuoco, usatele anche se non doveste vedere nulla…”
Sullo sfondo le bandiere di America, Europa, Cina e Russia garriscono in venti inesistenti. In basso al teleschermo fanno passare i sottotitoli; finiscono al lato destro dello schermo e risbucano dal lato sinistro, come topi nelle gabbie dei laboratori: sempre lo stesso percorso, sempre la stessa fine. Mostro i denti e senza voltarmi allungo il braccio in direzione del barattolo, immergo due dita nel calamaio di colesterolo e scrivo sul 50 pollici:
T U T T E
C A Z Z A T E
Succhio l’indice e il medio: sanno di acido e zucchero. Cosa diceva la pubblicità? “Se non ti lecchi le dita godi solo a metà.”
Metà è la parte di un tutto.
Ipnotizzato guardo il moto perpetuo dei vessilli impressi sul LED. Simboli di Stati per etichettare in maniera diversa un’unica specie: tu sei nero, io sono malato, lui è un barbone, loro sono ricchi. Status, etnie, religioni, globalizzazione: variabili usate al solo scopo di confondere, di stratificare, di manipolare una realtà nata semplice. Persino il burro ha un nome differente se è d’arachide in America o di sesamo in Oriente.
Mi distendo sul divano, il pene floscio sbatte su di lei. Mi godo il brivido freddo del contatto tra metallo e prepuzio. Ora è tutto più bello, più comprensibile. Il mondo può essere diviso in due categorie: c’è chi ha la pala e chi soccombe.
La sento e voglio voltarmi a guardarla: è una vanga senza fronzoli, banale nella sua crudeltà. A vederla si associa a una delle tante prodotte in stock e distribuite nei vari negozi di attrezzatura e giardinaggio sparsi per il globo; ma tanto… chi può vederla? Ha un’asta in legno chiaro di 103 cm, la testa in metallo ha una lama quadrata lunga 37 cm.
Conosco ogni sua misura da sempre.
Sembra appena uscita dalla fabbrica per quanto è immacolata. Ha l’aderenza di un magnete lungo il corpo e si sposta fra la schiena e la parte destra della mia persona.
È senziente.
L’ho capito subito quando è apparsa, a marzo, e si è appiccicata sul lato sinistro. Compreso il mio mancinismo si è spostata durante una notte per offrirmi una migliore impugnatura. Da allora ha mantenuto la stessa posizione.
Le voci arrivano dalla tromba delle scale mentre sto pisciando in bagno. Sorrido allo specchio adolescente pieno di foruncoli formati da schizzi di dentifricio ormai fossilizzato. Armeggiano con le porte del piano cercandone una aperta. Ce n’è solo una, la mia tana.
«Quante ne mancano?» La voce è di un vecchio.
«Tre, anzi no due.» L’altra, in falsetto, di un ragazzino.
Altri passi. Devono essere in tre. Quando entrano, li accolgo a gambe divaricate e braccia conserte nello spazio adibito a ring virtuale fra divano e televisore.
Ho smesso di fingere di nascondermi, ormai ci credo.
Sono messi male: l’adulto avrà una cinquantina d’anni, è vestito di stracci tenuti insieme da uno strato di lordura. Porta un fagotto mezzo vuoto legato con delle cinture sulla schiena. A ogni respiro vedo le costole schiudersi lungo il suo torace; impugna un coltello da cucina con la lama afflosciata verso il basso. È talmente sfinito da sedersi sul primo mobile a distanza di chiappe, scontrandosi con le monete I Ching sparse sul ripiano. Le fa precipitare sul parquet; tintinnano lungo il pavimento e danno il responso dell’oracolo. Il derelitto neanche si spreca a conoscere il futuro, il presente è già troppo per lui.
«Santo cielo Giorgio! Forse quelli al primo piano non ti hanno sentito!» Ecco la donna, c’è sempre una donna. Detta legge da fuori la soglia.
«Mamma, papà è stanco.»
Il ragazzino corre verso il padre; è decisamente più in forze, sarebbe il primo da sistemare. Inizia a scuotere il genitore con le mani cercando di rianimarlo. Ha più capelli del padre e sono arrugginiti come il fucile ad aria compressa sulla sua spalla.
«Hai visto Placido? Abbiamo trovato un posto dove aspettare.» dice Giorgio.
«Controlliamo la casa, se ci fosse uno di loro?» bisbiglia il figlio.
Porto una mano alla bocca e mi mordo la lingua per evitare di ridere e farmi scoprire. Placido… nome azzeccatissimo per farlo crescere in questo mondo!
Appena entra la madre, torno serio. Lei è in carne, a dispetto del marito. Indossa un cappellino da baseball e una tuta acetata verde lime, sembra una cimice gigantesca.
Rimango a osservarli e non gli sfracello il cranio perché oggi non sono in foga.
«Il chiavistello è rotto. Dobbiamo trovare un mobile da mettere davanti la porta.»
«Prima controlliamo, mamma.»
«Ci metto davanti almeno il tavolino, tanto per star sicuri.»
Iniziano a cercare ogni traccia della mia presenza. Sono patetici, scimmiottano segugi cercando indizi quando non sono nient’altro che talpe. Setacciano il salone e rischio un nuovo scoppio di risate mentre evito i loro corpi in movimento, effettuando minimi spostamenti.
Li evito e non li ammazzo a uno a uno perché oggi non sono in foga.
Il “roscio” va in camera da letto, la madre depreda il frigo e il padre collassa sul divano. La televisione continua il suo incessante monologo:
“… se non sono presenti con voi membri dell’esercito della vostra nazione o di nazioni alleate…”
Giorgio tira su il collo e si accorge della TV. Io sono davanti a lui, sapendo che non sono i miei peli pubici o il mio addome a imprimersi sulla sua retina.
No.
Sono le bandiere con tutti i colori dell’arcobaleno, sono il muro, il balcone, il cielo, le nuvole e i vetri della finestra attraversati dal sole a essere visti dalla mia preda.
“… la minaccia è seria, ma sarà presto contenuta. Trovate un luogo sicuro dove attendere le squadre di soccorso…”
In linea d’aria ho l’ombelico all’altezza della sua fronte. Potrebbe essere un terzo occhio o un foro di proiettile. Sto solo cazzeggiando. Giorgio è troppo vuoto per ascendere e io posso frantumargli la testa senza bisogno di pistole.
«Linda stai sentendo? Quanti giorni sono passati dall’ultimo comunicato?»
«C’è del pane e della cotica di parmigiano.»
«Linda? Quanti giorni?»
«Non mi ricordo. Almeno sei.» Ha la testa immersa nel frigo e la sua voce esce in un’eco metallizzata.
Giorgio continua a vedere il monitor ignorando oltre me – cosa normale – anche la mia firma artistica, cosa che mi fa incazzare. Da piccolo, mettendomi davanti ai vecchi apparecchi a tubo catodico, mio padre mi diceva sempre: «Hai mangiato pane e vetro per colazione?» E io ero costretto a scansarmi. Ora, invece, posso analizzare il volto di ogni spettatore imbambolato davanti a uno schermo senza essere visto.
«La casa è vuota, però qualcuno di recente ha usato il bagno.» Placido parla alle piastrelle del cesso.
I suoi genitori si sono dimenticati di lui, troppo occupati a rimpinzarsi lo stomaco e gli occhi di cibo e aspettative.
Melody inizia a oscillare lentamente da sopra la mia spalla. È una serpe a sonagli. Sente la rabbia mischiarsi all’entusiasmo. La potenza mi invade e rafforza il corpo incurante di quante ore possa dormire o quanta carne possa ingurgitare. Chiamatemi Grisù il pompiere! Vengo a spegnere il futuro, a schiacciare ogni germoglio di speranza negli occhi dei superstiti.
Giorgio sente lo spostamento d’aria e la sua faccia muta in una maschera da ebete. Lo sanno. Tutti – nell’attimo precedente di essere colpiti, sfigurati, macellati – capiscono. È il momento più bello per me: donare una consapevolezza priva di scorie, una verità autentica pronta a trasfigurarli nell’animo e nel corpo.
L’urlo diventa singhiozzo nel giro di attimi. Colpisco il volto impreparato di Giorgio con il piatto della lama e la pala polverizza lo zigomo e frange la mascella. Lui emette un verso da bolle di sapone piegandosi di lato e io lo accompagno veloce, più veloce della gravità e anticipo la sua caduta roteando spalle e bacino. L’impatto arriva di rovescio sulla metà sana della faccia. La punta trapassa la guancia e ascende creando un nuovo sorriso prima che denti e cartilagine nasale eruttino in uno zampillo intermittente di sangue e muco. E poi continuo, continuo a colpire incurante delle urla della femmina, sento solo i tamburi del mio respiro, il ritmo dell’ardore. Ogni osso spezzato forma un cantico di dolore.
Mi stendo sul pavimento e sento ogni vena pulsarmi di vita. L’isterica ha raggiunto Placido e adesso lui starà osservando il salone da dietro il riparo dello stipite.
Non vede nulla.
Il padre è coperto dal divano, io sono coperto dalla pala.
“Il 25 marzo del 2016 migliaia di persone sono scomparse da ogni parte del globo, per arruolarsi con una forza terroristica non meglio identificata…”
E’ meravigliosa la quiete, mette in luce scintille di suono donandole dignità e importanza.
«P-papà, stai bene?»
Placido parla ma è grazie al silenzio che io sento la sua paura, la sento attraverso il tremito del fucile che batte sull’intonaco un codice morse di disperazione.
«Oddio, oddio c’è uno di loro, c’è uno di loro? GIORGIO?” struscio sul pavimento durante le farneticazioni della moglie. Una delle orbite di Giorgio è vuota. Il bulbo oculare cola e riempie il cratere – dove abitava il naso – come un uovo mal cotto, copre i punti neri della guancia formando una maschera di bellezza 100% biologica.
“… RIPETO, non agiscono per mezzo di esplosivi o armi da fuoco…”
Vedo il piede del ragazzino sbucare dalla base del divano e allungo il braccio per urtare con Melody la base del tavolino giapponese. Il primo scoppio del fucile si abbatte sul legno nero scheggiandolo appena. Poi Placido solleva il giocattolo e fa fuoco in linea retta: i pallini percuotono l’aria e schiantano la finestra.
«Crepa, CREPAAA!» I rimanenti colpi della voce bianca camuffata da gangster degli anni ’20 sono sventagliati a casaccio in un arco troppo ampio per le sue piccole spalle. La più vicina mi passa ad almeno un metro di distanza. Si abbattono su mobili innocenti e rivestimenti in marmo di Carrara mentre la cascata di vetri, partorita dal secondo sparo, termina la sua esistenza sull’assito in legno trattato.
Clik e mi alzo.
Clik, clik e Placido rifiuta il suono della verità.
«Lo zaino! DAMMELO!»
Sono io a scattare in anticipo. Gli pianto l’asta di legno fra le gambe e lo scaglio verso il soffitto. Lo sollevo senza difficoltà perché è Melody a scaraventarlo con una curva ellittica degna di Wiles. Placido smanaccia il fucile scarico e riesce a toccarmi.
Esatto ragazzino, non sono un fantasma, sono carne della tua carne, specie della tua specie.
Lo stupore continua a chiazzare gli occhi di Placido anche quando Melody allenta la presa dai suoi testicoli imberbi. Sta volando verso un tête-à-tête con l’anta del frigo e continua a sondare con lo sguardo nella nostra direzione in cerca di una presenza. Il gong sordo e la fine del grido arrivano distanti, perché la mia attenzione si è spostata sulla madre. La afferro da dietro e le faccio un favore, stava inciampando sul tavolino messo davanti alla porta per la loro “sicurezza”.
«Mamma, attenta o ti fai male!» dico ridendo e la risata inizia un valzer con le sue urla. Strattona la testa in avanti e alcuni capelli si strappano restando nel palmo della mia mano. Arranca. Sembra un gibbone. Scala l’Everest in legno laccato di pochi centimetri verso la porta, la salvezza. Per la concitazione i pantaloni della tuta sono calati e mostrano il solco delle natiche creandomi un leggero fastidio.
Cosa accadrebbe se la vedessi nuda?
Spalanca la porta e torno alla realtà. È un attimo. Lei vuole fuggire e io l’accontento. La spingo giù, per la tromba delle scale, accelerando la sua fuga verso un viaggio all’inferno su misura.
Balzo nell’androne.
Ci manca Placido.
Con la madre l’ho fatta grossa e devo farmi perdonare. A Melody non piace essere messa da parte, è lei la regina dello show.
È svenuto a terra in una pozza coagulata: il suo sangue, almeno, mostra più attaccamento alla vita tentando una fuga disperata dal corpo.
Mi sono sbagliato, oggi è giorno di foga.
Inizio a picconarlo, a dissodarlo, bucandogli la schiena e portando alla luce i frutti del suo organismo. Ci accaniamo sul cadavere per un tempo indefinito e quando finisco gli vomito accanto per il disgusto. Ho un nuovo conato pensando che, se fossi stato goffo, gli avrei vomitato dentro.
Le forze mi abbandonando, è finita. È sazia. La casa sembra avere le mestruazioni e lei è pulita, senza un grumo, un difetto a rendere reale la sua intera superficie. Ho voluto battezzarla donna anche se per dimensione e turgidità dell’asta è sicuramente più uomo di me.
L’esistenza spesso è racchiusa in una strofa, in una canzone, e lei mi fa ricordare questa melodia:
“Tutto ciò che ho sempre voluto
Tutto ciò di cui ho sempre avuto bisogno
È qui nelle mie braccia
Le parole sono davvero superflue
Possono solo fare male.”
Forse mi illudo di poterla controllare, forse spero di essere la rana punta dallo scorpione della favola di Esopo. Solo che io sopravvivo e sono gli altri a morire avvelenati.
Copertina di: William Bersani
Clicca qui per leggere la seconda parte
Ho cominciato a leggere con un panino fra le mani e quando ho finito il panino era allo stesso punto di quando avevo iniziato. Non sono riuscita a staccare gli occhi dallo schermo. Credo che questo sia il miglior complimento che si possa fare. Hai catturato il lettore (in questo caso lettrice) fin dalle prime righe e non gli hai permesso di staccarsi se non alla fine. E’ TUTTO MOLTO VISIVO e mentre leggevo mi raffiguravo la storia a fumetti, splatter ma nello stesso tempo raffinato. Un ossimoro dovuto al linguaggio raffinato che in un certo modo “ripuliva la scena”. Aspetto curiosa il seguito.
Ciao Roberta.
Hai stabilito il record attuale di commentatrice più veloce del blog ^^
È un bellissimo complimento! Sorrido sapendo che sono riuscito ad allietarti nella lettura. Sì, ho voluto proiettare nel testo la scena prefigurata nella mente e parlandomi dell’accostamento con il fumetto mi fai ancora più felice perché all’interno della storia ti sei raffigurata anche i colori (Colori che tornano nel mio prossimo racconto).
Io aspetto curioso i tuoi commenti, apprezzamenti o eventuali critiche sui prossimi racconti del blog.
Originale, avvincente, fluido, gustosamente violento e surreale. E’ tutto messo in scena piuttosto bene, immediato, visivo (come dice la commentatrice qui sopra).
Si legge un certo gusto estetico nel protagonista e nel modo in cui vive la sua condizione, diciamo così, particolare. Oltre che un certo disprezzo per l’umanità.
Anche la scelta dell’ambientazione non mi sembra casuale in questo senso. Cade molto bene con tutta la cosa.
E’ una saga, un racconto lungo, un romanzo breve?
No perché mo’ voglio sapere tutto, e soprattutto perché diamine la vanga.
Ciao Fabio.
Dopo averti letto nelle vesti di Ospite, mi fa piacere che ora si siano invertite le parti. Gustosamente… sono andato a solleticare la tua parte sadica eh!
Scherzi a parte, la tua carrellata di connotazioni positive hanno l’incedere che ho cercato di trasmettere a questa prima parte del racconto. L’estetismo nelle scene violente è un’impronta che ho voluto sperimentare.
L’ambientazione avrà più risalto nella seconda parte.
Per il blog sarà sicuramente un racconto lungo ma, sarebbe potuto essere altro. Questo è un tratto che accomuna un po’ tutti i miei testi che lasciano intendere altro. Devo solo decidermi ad arricchire una delle storie che mi vorticano nella mente e dargli la giusta lunghezza di caratteri.
P.S: Sulla vanga aspetta il seguito.
Ciao Marco Simeoni, che dire del racconto, molto raccapricciante, ho letto il primo pezzo fino in fondo, con fatica, per poi scoprire che c’era un seguito, ho provato a leggere ma ho messo più fatica del precedente, non fa per me, è veramente horror, da halloween day, pensare Roma in una condizione simile è da panico, preferisco la Roma romantica, dinamica, signorile, antica… una Roma da scoprire e da viverla.
Certo è che di fantasia ne hai da vendere, diversificare gli argomenti fa si che arrivi a più menti e questo è positivo.
Buon lavoro a te Marco Simeoni.
Ciao Renata.
Ho molto apprezzato il tuo tentativo di leggere una tematica a te “ostile”. Sicuramente la variante splatter allontana il lettore non avvezzo al truce.
Io vedo questo sito come una sperimentazione continua, per mettermi in gioco sui vari sentieri narrativi.
a presto.