Nella villa Maurizio Donazzon

Nella villa

“C’è la possibilità di ottimi guadagni” disse Tullio alla sorella Domenica seduta al suo fianco. Lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore. Oltre il figlio Ivan e la sua ragazza Pamela, in fondo alla nuovissima Nissan-X-Trail da sette posti, i nipoti Irene e Giordano, figli di Domenica, ascoltavano corrucciati, pronti a ribattere.

“Non è troppo rischioso investire con questa crisi?” chiese Irene. Domenica approvò l’incertezza della figlia tentennando il capo. “In effetti, un cifra così alta…” disse.

“Questi non sono investimenti” tagliò corto Giordano. “Sono speculazioni che rischiano di finire male come l’altra volta.”

“Ti sbagli” ribatté Tullio. “È una cosa diversa, qui ci sono già investitori, si tratta di accodarsi.” Guardò Domenica. “Ti sto facendo un favore perché sei mia sorella, altrimenti non mi sarei nemmeno preso la briga di portarvi a vedere la villa.” Domenica sorrise riconoscente.

“Forse lo zio ha ragione” disse rivolta ai figli. “Io non ne capisco molto di queste cose…”

“Mamma, ne abbiamo già discusso.” Giordano alzò il tono di voce. “Hai già perso dei soldi. A casa eri d’accordo con noi…” Lanciò un’occhiata a Irene per raccoglierne l’approvazione. “…per non rischiare inutilmente.” La sorella ricambiò con uno sguardo perplesso.

Finora Ivan non era intervenuto, impegnato a bisbigliare all’orecchio di Pamela frasi che la facevano ridacchiare o protestare. Si doveva trattare di sconcezze perché spesso Pamela si allontanava e lo guardava come fosse un ragazzaccio che la diceva grossa, ma al quale poi si sarebbe perdonato tutto.

“La filosofia dell’impiegato” disse Ivan girandosi verso i cugini. “Avete la mentalità del dipendente. Un’insegnante…”

“…in una scuola privata” lo interruppe Irene. “Non sono una statale con il posto fisso.”

“…e tu, Giordano” continuò Ivan, “da quanto lavori nella stessa ditta? Non hai mai cambiato da quando ti hanno assunto. Un imprenditore rischia sempre. A volte funziona, a volte no, ma l’imprenditore vero sa sempre cadere in piedi.”

Irene e Giordano protestarono che con la crisi non era sicuro neppure un posto da dipendente. Domenica ascoltava annuendo dopo l’intervento di ognuno.

“E dai, ragazzi” disse sorridendo Pamela. “Diamo un’occhiata alla villa. Con questa giornata, il parco dev’essere meraviglioso. Non è vero, Tullio? Tu che sei l’unico che l’ha vista.”

“C’è un cedro del Libano davanti alla villa che avrà più di centocinquant’anni. Enorme, stupendo” disse Tullio. “L’ha piantato il bisnonno del marchese Tassi… Bassi… un marchese insomma, ora non ricordo il nome. Comunque, la villa era di proprietà di una famiglia nobile e, quando il marchese è morto, i figli si sono messi a litigare per l’eredità. Il primogenito ha addirittura ammazzato un fratello a bastonate.” Lanciò un’occhiata ai nipoti nello specchietto retrovisore. “Si sa come succede nelle famiglie… Per farla breve, non riuscendo a mettersi d’accordo, i figli e i nipoti hanno dato tutto in mano agli avvocati che hanno messo in affitto la proprietà.”

“Il progetto” spiegò Ivan, “è farne una residenza di campagna, una specie di agriturismo di lusso, con ristorante e bed & breakfast. Il vigneto è seguito da un contadino, ma è incluso anche quello e produce un ottimo Prosecco. Ora l’uva viene venduta, c’è però la possibilità di ristrutturare la cantina della villa e produrre il vino direttamente, con guadagni maggiori.”

Domenica ascoltava interessata, Irene sollevò un sopracciglio, mentre Giordano scuoteva la testa.

“Anche questo è Prosecco?” chiese Pamela guardando dal finestrino i filari che si curvavano per seguire la collina.

“Tutto Prosecco” confermò Tullio. “Lo sapete che il Prosecco ha superato lo Champagne nella vendita di bottiglie? Ah, eccoci.”

I pilastri a lato del grande cancello d’entrata in ferro battuto erano sormontati da due statue ingrigite e corrose dalle intemperie. A sinistra, un uomo tozzo, con barba e capelli ricci, si appoggiava a una clava nodosa, tenendo sull’altro braccio una pelle d’animale. Lo rispecchiava, sul pilastro di destra, un giovane dall’espressione severa, con in mano una lancia di cui rimaneva solo un moncone.

“I fratelli che si sono presi a legnate” disse Ivan indicando le statue. “Caino e Abele.”

“Davvero?” chiese Pamela.

Irene, che pur insegnando matematica alle superiori aveva sfogliato anche altri libri, iniziò a spiegare: “Veramente, il primo è…”

“Quanto ti amo” l’interruppe Ivan, stampando un bacio in bocca a Pamela. Poi scese dall’auto per spalancare il pesante cancello di ferro, che però non rimaneva aperto. Con la scarpa, accumulò sassi e terra per bloccare le ante.

Parcheggiarono l’auto davanti alla villa, in uno spiazzo di ghiaino che scricchiolava sotto i copertoni. Dopo essere scesi, Irene si girò e vide il cancello chiudersi sferragliando, come mosso da una mano invisibile. Sentì un brivido percorrerle la schiena.

“Abbiamo già pensato di automatizzarlo quando verrà presa in gestione la villa” commentò lo zio Tullio.

“Per ora chiudono gli spiriti dei fratelli” disse Ivan con un sogghigno.

“Stupido!” Pamela gli diede uno schiaffo sulla spalla.

Il parco si estendeva davanti alla villa, oltre un piccolo prato dall’erba alta. Essenze di alto fusto creavano – sul sottobosco di erbacce e rovi proliferati per l’incuria – un’oscurità densa, in contrasto con il ghiaino chiaro e la facciata della villa.

“Questo è il cedro del Libano” disse Tullio, avvicinandosi a un albero imponente che distendeva i rami su un’ampia macchia d’ombra. “Qui sotto al fresco possiamo metterci dei tavolini…”

Un’imposta della villa sbatté, come se fosse stata chiusa di colpo dal vento.

“Cos’è?” disse Irene sussultando. “Siamo sicuri che non ci sia nessuno?”

“Chi vuoi che ci sia?” ribatté Ivan. “I fantasmi?” Si strinse a Pamela, ululando per imitare un fantasma.

“Scemo!” disse Pamela ridendo.

“Ho bisogno di un bagno” disse Irene.

“Lo speeettro del marcheeese uscì dal waaater…” recitò Ivan. Pamela guardò Irene: “Scusalo, è un buzzurro primitivo”.

Tullio spiegò che elettricità, gas e acqua funzionavano ancora nell’ex-casetta dei custodi che, con la morte del marchese, erano stati sfrattati.

“Segui i portici della barchessa e, dopo la limonaia, c’è la casetta. Ecco le chiavi” disse Tullio togliendole dal mazzo.

“Ti accompagniamo” si offrì Ivan. “Così faccio vedere a Pamela le cantine.” Fece l’occhiolino alla fidanzata, che scosse la testa. “Papà” disse Ivan a Tullio, “dammi le chiavi.”

“Ci sei già stato?” chiese Giordano sospettoso.

“No” rispose Ivan, “ho visto le mappe, so orientarmi.”

“Noi intanto possiamo dare un’occhiata alla villa” disse Tullio rivolto a Domenica e Giordano, che scrollò le spalle con indifferenza.

Ivan in testa, seguito da Pamela e Irene, si avviò sotto i portici della barchessa.

Tullio, con Domenica e Giordano, entrò dalla porta-finestra di un edificio che collegava la barchessa al corpo quadrato della villa padronale, aprendo man mano gli scuri per illuminare le stanze. Attraversarono una cucina impolverata, con ombre annerite di tegami e paioli; desolati salottini con vecchie poltrone tappezzate di broccati stinti e sfilacciati; anguste stanzette deserte dai muri color cenere.

Arrivati nel corpo principale della villa da una stanza con scale che portavano al piano nobile, entrarono infine nel salone centrale. Tullio aprì la porta-finestra che dava sul retro. “Quelle sono le cantine.” Indicò un edificio che si allungava ad angolo retto, poi attraversò il salone per andare ad aprire la porta-finestra frontale. Teli ingrigiti dalla polvere coprivano i fantasmi di divani, sedie imbottite e tavolini accostati ai muri, lasciando un ampio spazio al centro, minacciato da un barocco lampadario di Murano. Il pavimento, in terrazzo alla veneziana di tonalità scura, era sbilenco, e porte chiuse suggerivano simmetriche stanze laterali.

Tullio decantò il salone, immaginandone gli usi commerciali, da sala da ballo ad auditorium per concerti e conferenze, anche se Giordano commentò che sembrava un corridoio sproporzionato.

“Che ve ne sembra?” disse Tullio davanti alla porta-finestra frontale, con un gesto del braccio che voleva invitare all’approvazione del parco, oltre la balaustra esterna di colonnine di pietra. “Sopra, al piano nobile” aggiunse, “c’è un salone identico con una stupenda vista della proprietà. Adesso vi ci porto.”

“Come mai Irene non è tornata?” si preoccupò Domenica.

“Sei la solita chioccia” la rimproverò il fratello. “È grande ormai.”

Tullio entrò in un’ampia stanza laterale con dei mobili accatastati in un angolo, andando ad aprire gli scuri per illuminarla. “Qui ci possono stare una decina di tavolini” disse. Domenica si fermò a osservare un vecchio quadro annerito appoggiato al pavimento. Era un ritratto di famiglia, forse quella del marchese: gli stessi lineamenti scavati si riproponevano in ogni persona, rigidamente in posa e vestita con severità. Tutti, anche i bambini, avevano un’espressione tetra, come se fossero risentiti di essere stati dipinti assieme. Distolse lo sguardo da molte paia d’occhi che sembravano fissarla astiosi. “Che brutta famiglia” commentò, “mi fa venire i brividi.” Tornarono nel salone.

“La villa è una location prestigiosa per matrimoni” continuò Tullio. “La gente, anche con la crisi, è disposta a spendere per il giorno più bello della sposa. Forniremo il servizio completo perché c’è il parco per le fotografie e, se dei parenti vogliono fermarsi la notte, abbiamo a disposizione il bed & breakfast. E poi ci sono i battesimi, le cresime, le feste di laurea, i compleanni… può diventare un centro congressi.” Guardò fiducioso la sorella. “È un investimento sicuro.”

“Di questi tempi, non c’è nulla di sicuro” ribatté Giordano.

“Ah, certo” disse Tullio. “Se uno la pensa così è meglio non mettersi per strada perché ci sono gli incidenti, non prendere l’aereo perché potrebbe schiantarsi…”

“Ma gli investimenti precedenti…”

“Tappati in casa, allora” disse Tullio alzando il tono di voce. “Che poi arriva il terremoto a farti cadere il tetto sulla testa.”

Lo scuro della porta-finestra che dava sul parco si chiuse, sbattendo con un fragore assordante. Il salone entrò in penombra, la discussione si bloccò.

“Non è strano che Irene non sia già tornata?” Domenica guardò il figlio e il fratello. Tullio rispose con un sospiro di insofferenza. Giordano prese il cellulare per chiamare la sorella. “È spento” disse, sentendo l’avviso della segreteria telefonica. Domenica propose di andare a cercare Irene.

“Si sarà persa” commentò Tullio spazientito.

Irene entrò nella casetta del custode, lasciando aperta la porta. Delle scale salivano sulla destra in un’oscurità opaca, tagliata dalle lame di luce che filtravano dalle imposte decrepite. Sulla sinistra si apriva una stanza vuota rischiarata dalla luce proveniente dalle finestre senza scuri: alle pareti le impronte sudice dei mobili e, incassato tra due finestre, un camino di mattoni anneriti dal fumo. Da una finestra vide lo spiazzo coperto di lastroni di pietra rosa dal quale era venuta. Era di fronte alla serra della limonaia, che conteneva larghi vasi in coccio con scheletri di alberi.

La porta d’ingresso si chiuse di botto, facendola sobbalzare. “Corrente d’aria” si disse per farsi coraggio, e andò a riaprirla, mettendosi poi alla ricerca del bagno. Al piano terra non c’era, bisognava salire le scale buie. Si inoltrò esitante, sfiorando con la punta delle dita il muro sporco senza corrimano. Sul pianerottolo le si parò davanti una porta chiusa, a sinistra correva uno stretto ballatoio che terminava in una porta aperta. Riconobbe il bagno dal biancore smorto di un lavandino. Entrò, andò a spalancare uno scuro e tornò a chiudere la porta.

Irene respirò a pieni polmoni l’aria che entrava dalla finestra, come se fino a quel momento avesse trattenuto il fiato. Sul retro, il vigneto si inerpicava sulla collina, pettinata in filari ordinati. La porta d’entrata si chiuse con uno schianto. Sussultò di nuovo, dandosi poi della scema. Con una smorfia di disgusto pulì la tavoletta lercia, buttando il fazzolettino di carta nel water, dove non era ancora apparso lo spettro del marchese. Sentì altri schianti di imposte che sbattevano. Innervosita, si sbrigò a finire, ma quando cercò di uscire dal bagno la porta era bloccata. “Anche questa…” Provò a spingere per liberarla, senza riuscirci. Allora andò alla finestra, ma anche quella era incastrata. Si guardò attorno smarrita. “Che cosa succede?” Prese il cellulare per accenderlo e telefonare al fratello, ma udì un tramestio oltre la porta.

“Siete lì?” disse. “Aprite! Si è bloccata la porta.” Non rispose nessuno. “Ivan! Pamela!” urlò. “Sono chiusa in bagno.” Silenzio.

Strattonò la maniglia e la porta si aprì.

Ivan e Pamela entrarono nelle cantine da un enorme portone scrostato e spalancarono qualche imposta per vederci.

“Che sporco” commentò Pamela schifata, girandosi verso Ivan. Ma Ivan era scomparso. Lo chiamò a bassa voce come se temesse di svegliare qualcuno: “Ivan… Ivan, dove sei?” Nessuno rispose. Lo chiamò ancora guardandosi attorno. Grandi tini di legno scuro, legati da cinte di ferro arrugginito, riposavano in fila, addossati alla parete. Zampettando a filo muro, un ratto uscì dal buio e si infilò sotto i tini, facendola urlare per il disgusto. Si stava arrabbiando.

“Ivan!” gridò. “Basta con questo scherzo idiota, vieni fuori.” Sentì uno scalpiccio. Si zittì, rimanendo in ascolto. Avanzò circospetta. Uno scuro si chiuse di colpo. Cacciò un urlo. Altri rumori, passi leggeri sfiorarono il pavimento. Vide un’ombra che ondeggiava dietro un tino, una voce sussurrò: “Uuu, sono il fantasma del marchese…”

“Cretino!” sbottò Pamela, dirigendosi verso la porta.

“Dai, aspetta” disse Ivan, “era solo uno scherzo.”

“Proprio un bello scherzo idiota” disse Pamela. Ivan le corse dietro per abbracciarla e, cingendole il ventre, la baciò sul collo. “Lasciami stare! Sono arrabbiata.” Ivan le passò le mani sui seni e continuò a baciarle il collo. “Smettila…” disse meno convinta, lasciandosi scappare un sorriso. “Mi sembri mio padre…”

“Ti tocca così?” disse Ivan fingendosi scandalizzato.

“Papà con la mamma. Cretino!” Dietro di loro si chiuse un altro balcone.

“Andiamo fuori” sussurrò Pamela, “qui mi fa paura.”

Giordano si lamentò della sorella che dimenticava sempre di accendere il cellulare. “Andiamo a cercarla” disse poi, di fronte all’espressione preoccupata della madre. Seguirono la direzione da cui erano venuti, Giordano in testa, Tullio poco convinto.

Arrivarono a una porta da cui erano passati, ma che ora era bloccata. Giordano forzò la maniglia nel tentativo di aprirla.

“Attento, se fai dei danni li devi pagare” commentò lo zio Tullio.

“Sì, li paghiamo noi” disse Giordano rivolto alla madre. “Sarà più importante trovare mia sorella che buttar giù questa cazzo di porta, no?”

Tullio scosse la testa. “Accomodati.” La faccia annoiata sembrava ribadire: “Ecco il solito coglione”. Giordano diede una spallata, ma la porta non si spostò.

“Forse ha ragione Tullio” intervenne Domenica. “Meglio lasciar perdere e tornare indietro per trovare un’altra uscita.”

“Magari adesso si apre” ribatté Giordano, dando un’altra inutile spallata.

“Hai visto troppi film” disse Tullio. “Non è così semplice buttare giù una porta. Torno indietro e vi vengo ad aprire.” Si diresse da dov’erano venuti.

“Devi sempre dargli ragione?” chiese Giordano alla madre dopo che lo zio si era allontanato.

“Ho solo detto…” iniziò Domenica.

“Con i soldi che ti ha fregato l’altra volta!” scattò Giordano. “Non so neanche perché siamo venuti qui. Ti sei lasciata convincere di nuovo…”

“Lo zio Tullio non è cattivo, ha avuto sfortuna…”

“Ma andiamo” disse Giordano esasperato. “Fregherebbe anche suo figlio se potesse.”

“Non parlare così, tu non sai…”

“Cosa? Cosa non so?” si scaldò Giordano. “La solita storia che ti ha salvato la vita quando avevi cinque anni? Per favore!”

A Domenica dispiaceva che il figlio la prendesse così. “Siamo sempre una famiglia, e in famiglia ci si aiuta.”

“No” rispose Giordano. “La mia famiglia sei tu, papà, Irene e basta.”

“Siete lì?” disse Irene. La porta di fronte alle scale era aperta.

Attraversò il ballatoio arrivando al pianerottolo da dove vide una stanza illuminata dalla luce che entrava dalle finestre spalancate, oltre la quale si apriva un’altra camera in penombra. Strizzò gli occhi per vedere meglio. Da dietro la porta della seconda stanza, sbucava un bastone lucido con un puntale di ferro che ticchettava sul pavimento di assi di legno come un dito nervoso su un tavolo.

“Chi c’è là?” chiese Irene dal pianerottolo.

Il bastone batté con violenza sul pavimento un colpo forte e secco. Irene si precipitò giù dalle scale, appena in tempo per scorgere una figura scura uscire dalla stanza in fondo.

Domenica si avviò nella direzione dove era andato il fratello.

“Tullio” chiamò.

“Ziooo” gridò più forte Giordano, seguendo controvoglia la madre. Delle porte si aprivano, altre facevano resistenza, solide come fossero la continuazione della parete.

Arrivarono in una stanza d’angolo, senza uscita. Nella penombra si addensavano le masse scure di ingombranti poltrone e scaffali vuoti. Domenica si girò verso Giordano, spaventata. “Prima tua sorella, adesso tuo zio…” Si mise a piangere. Giordano la guardò imbarazzato. “Dove sono? Cosa gli è successo?” continuò Domenica tra le lacrime. Il figlio le porse un fazzolettino di carta, quando suonò il cellulare.

“È lo zio Tullio” disse Giordano. “Pronto? Zio…” Non rispose nessuno. “Pronto? Mi senti, zio? Dove sei?” Sentì dei rumori, poi cadde la comunicazione.

“Allora?” chiese Domenica con gli occhi ancora lucidi.

Giordano tentò di nuovo, ma rispondeva la segreteria telefonica. Guardò la madre perplesso.

“E tua sorella?” incalzò Domenica. Giordano chiamò la sorella, il cellulare però era ancora spento. Allora provò a telefonare a Ivan. Almeno il suo cellulare suonava libero, disse alla madre per rassicurarla.

Si stava confondendo, pensò Tullio. Porte che aveva trovato aperte ora erano chiuse, altre che ricordava aperte erano sbarrate. Con le deviazioni che aveva dovuto fare si era perso, eppure la villa non era così grande.

“Ehi, dove siete?” chiamò. La mazzata fortissima alla nuca lo colpì mentre si convinceva che era stato un idiota a portare lì la sorella e i nipoti. Per cosa, poi? Solo per rompersi i coglioni. Stramazzò sul pavimento.

Irene strattonava la maniglia della porta d’entrata senza risultato, non si apriva neppure usando la chiave. Di sopra, il ticchettio del bastone sul pavimento di assi di legno si avvicinava. Irene si gettò sulla porta alla destra subito dopo le scale, ma neppure quella si apriva. Disperata corse in soggiorno. Le finestre erano sbarrate da grate.

Con la frenesia di un animale che cerca di liberarsi dalla tagliola, tornò alla porta di casa per forzarla. Nelle scale di nuovo buie, rintoccavano i colpi del bastone. Riprovò con la porta a destra delle scale che ora si aprì. Il piccolo salotto era illuminato, non c’erano imposte, così si accorse della chiave nella serratura. Si chiuse dentro a doppia mandata, il cuore le galoppava in petto togliendole il respiro.

Era ancora appoggiata allo stipite quando una legnata fortissima contro la porta la fece urlare di spavento.

Incaprettato a una pesante sedia, Tullio rischiava di strozzarsi se muoveva troppo le mani o i piedi. Si guardò attorno, la nuca pulsava di dolore per il colpo ricevuto. Nella stanzetta in penombra, la porta era chiusa, gli scuri accostati. Spettri di mobili attendevano sotto lenzuola grigie di polvere. Cercò inutilmente di liberare le mani.

“Aiutooo, aiutooo” gridò, senza ottenere risposta. Suonò il cellulare che teneva in tasca, si agitò cercando di prenderlo, ma il telefono cadde per terra. Provò a toccare i tasti con il piede ma riuscì solo a schiacciarlo. Con uno scricchiolio dello schermo smise di suonare, forse l’aveva rotto. “Merda.”

La porta si aprì.

“Oh, mio Dio. Per fortuna sei tu” disse Tullio. “Slegami, presto!” Non vedendo alcuna reazione, alzò la voce: “Sbrigati! Può arrivare qualcuno”. Quello che aveva detto sembrava non fosse stato neppure sentito. “Ma che cazzo hai?” gridò impaziente.

La bastonata mirò dritta alla faccia, ma Tullio fece in tempo a girare la testa ricevendo il colpo sulla guancia. Urlava, cercando di sottrarsi alle altre bastonate al collo, alle tempie, al naso, ma la corda che gli segava il collo gli impediva i movimenti. Stava quasi per strozzarsi, quando smisero i colpi.

Squillò il cellulare di Ivan. Era Giordano.

“Siamo dentro la villa,” disse Giordano, “ma lo zio è scomparso. Non riusciamo a trovarlo. Avete visto Irene?”

“No” rispose Ivan. “Siamo ancora nelle cantine.” Guardò Pamela. “Niente di particolare” continuò, “solo qualche fantasma.” Ridacchiò alla smorfia di Pamela. “Va bene, ci troviamo alla macchina… Aspetta. Sento dei rumori…”

Da dietro gli enormi tini uscirono due figure dense di oscurità, era difficile capire chi fossero. Trascinavano dei bastoni sul pavimento. Pamela si strinse a Ivan.

“Pronto?” disse Giordano al cellulare. “Sei ancora lì? Pronto? Mi senti?”

Le ombre si avvicinarono sbattendo i bastoni sui tini, i colpi risuonarono come lugubri campane a morto.

“Pronto?” continuò Giordano. “Si può sapere che succede?”

Entrando nel cono di luce di una finestra, Ivan riconobbe i due, anche se insolite espressioni malevole deformavano i loro lineamenti. Era confuso.

Bang… bang… Altri colpi echeggiarono nel silenzio.

“Ivan? Che succede?” gridò Giordano.

Ivan si girò, e tirando Pamela per la mano si mise a correre nella direzione opposta da cui provenivano i due, verso l’uscita della cantina.

“Pronto? Ivan!” Giordano mostrò il cellulare alla madre. “Non risponde.” Riprovò di nuovo a chiamare il cugino, lo zio, la sorella, ma nessuno rispose. Guardò la madre. “Sta succedendo qualcosa di molto strano, è meglio uscire di qui.”

“E tua sorella? E lo zio?” chiese la madre.

“Ora non possiamo farci niente. Se serve chiamiamo la polizia.” Giordano spalancò una finestra e lo scuro. “Se torniamo indietro ci perdiamo” disse alla madre. “Siamo al pian terreno, usciamo da qua. Vado prima io, poi ti aiuto a scavalcare.” Domenica si lamentò che lei quelle cose lì non riusciva a farle, aveva una certa età. Giordano la rimproverò seccato. Uscito all’esterno, prese la madre per le ascelle e la tirò, cercando di aiutarla a oltrepassare la finestra, ma qualcosa sembrava trattenerla.

“Lasciati andare” disse Giordano alla madre, “altrimenti non riesco a farti uscire.”

“Qualcosa mi ha preso i piedi” gridò Domenica. Nella penombra, sembrò a Giordano di intravedere un volto conosciuto, ma dai lineamenti tirati e l’espressione maligna. Stupito, allentò la presa. Domenica venne risucchiata nella stanza, la finestra e l’imposta si chiusero con uno unico schianto.

Una scarica di colpi martellò la porta. Irene urlava terrorizzata mentre la voce rauca dello zio Tullio le gridò di smetterla di frignare.

Irene era ancora immersa nell’incubo iniziato poco prima. Aveva riconosciuto lo zio, intravisto nelle stanze al primo piano, che con un’orribile ghigno, il volto corroso dalla rabbia, le aveva sbraitato dietro, sbattendo sul pavimento il bastone che teneva in mano. “Tu e tuo fratello mi avete rotto i coglioni.” Sembrava masticasse le parole. “Sempre a criticare, a sospettare, ma chi cazzo vi credete di essere?”

Irene corse alla finestra, inciampando nelle magre poltrone. Aprì la finestra, ma anche lì c’erano delle grate troppo strette per passare.

“Tullio, puoi fare qualcosa? Ti prego…” continuò in falsetto la voce dietro la porta. “Irene non trova un lavoro fisso, solo supplenze… Giordano, poverino, ha studiato tanto… Quanto mi ha rotto il cazzo tua madre.”

Come un uccellino in gabbia che la zampa del gatto prima o poi agguanterà, Irene cercò di infilarsi tra le sbarre senza riuscirci. Dietro la porta, Tullio le sussurrava di aprire, che dovevano ragionare assieme, discutere per il bene della famiglia.

Irene si lasciò cadere su una poltrona, piangendo disperata con le mani davanti al volto. La porta venne fracassata a calci. Dalle fessure delle dita, attraverso un velo di lacrime, vide fluttuare una figura scura, ingigantita dall’aspetto minaccioso. Non ebbe neppure la forza di urlare quando ricevette un bastonata alla testa che la fece ripiegare su se stessa, seguita da altri colpi. Cercò di ripararsi con le braccia, ma era pesta e confusa, incapace di opporsi. Stramazzò sul pavimento. Un piede, che calzava un’elegante scarpa di marca, le schiacciò la testa. Le ossa del cranio scricchiolarono fino al colpo secco della rottura.

Tirata per una caviglia, l’altra gamba piegata in modo innaturale, Irene venne trascinata fuori della casetta, dipingendo una scia rossa sui lastroni rosa davanti alla limonaia.

Legato alla sedia, Tullio si contorse lamentandosi per il dolore. In piedi, di fronte a lui, con in mano il bastone insanguinato, Domenica si asciugava le lacrime che avevano iniziato a sgorgare dopo averlo picchiato. “Ti ho sempre difeso, anche con i miei figli… Perché sei mio fratello, siamo cresciuti assieme. Giocavamo alla famiglia, tu facevi il papà, io la mamma, ricordi? Come hai fatto a diventare così avido?”

Tullio non rispose, guardava quel volto familiare smagrito dall’angoscia, trasfigurato.

“Così avido” continuò la sorella, “da rubarmi soldi per i tuoi affari meschini. Mi hai trattato come un’estranea da truffare.” Tullio guardava il pavimento. “Adesso non hai niente da dire? Tu, che hai sempre la scusa pronta? Che ti riempi la bocca di parole?”

“È per questo? Per la mia parlantina che mi fai questo?” si lasciò sfuggire Tullio.

“No” disse la sorella. “È perché sei falso. Un falso, opportunista…”

“Io?” alzò la voce Tullio. “Avete sempre avuto la puzza sotto il naso perché hai mandato i figli all’università, e adesso? Adesso che sono arrivati solo fino là, è colpa mia! Ecco la verità! Io mi sono sempre dato da fare…”

“Hai imbrogliato, raggirato…” lo interruppe la sorella.

“Mi sono dato da fare…” rimbeccò Tullio.

“Fregato anche me…” disse la sorella con una smorfia di ribrezzo, sbattendo la punta del bastone sul pavimento.

“Mentre tu cosa hai combinato?” le urlò contro Tullio. “Un bel niente! Solo un matrimonio con un coglione che…”

Il bastone colpì Tullio sulla bocca. Piegò la testa per non farsi picchiare di nuovo, ma fu costretto a rialzarla, il cappio gli stringeva il collo impedendogli di respirare. Ricevette un secondo colpo sui denti, gli incisivi si spezzono finendogli in gola. Dovendo tenere la testa alzata per non strozzarsi, la gragnola di bastonate si accanì sulla faccia, che diventò una tenera massa sanguinolenta, come la costata che Domenica, da brava massaia, appiattiva con il batticarne.

Ivan e Pamela arrivarono alla villa e videro Giordano che si rialzava da terra.

“Cosa sta succedendo?” chiese Pamela confusa.

“Cosa succede?” ripeté Ivan rivolto a Giordano. “Stavamo parlando al cellulare, poi sei comparso in cantina con Irene e avete cominciato a inseguirci. Ora sei qui.”

“Dimmelo tu” disse Giordano. “Eri dentro la villa e hai tirato dentro la mamma.”

“Dobbiamo andare via” implorò Pamela. Ivan e Giordano si studiavano a distanza. “Presto!” gridò Pamela. “Scappiamo! Ivan, ti prego, voglio andare via.” Ivan e Giordano non si mossero.

“Le chiavi della Nissan le ha mio padre” disse Ivan.

“È nella villa” disse Giordano. “Davvero non hai visto mia madre?”

“No, cazzo!” gridò Ivan.

Domenica girava gli occhi spalancati nell’oscurità, le mani in avanti per scansare gli ostacoli. Cercando di non far rumore, tendeva le orecchie trattenendo il respiro. La voce di Ivan dietro di lei la fece trasalire.

“Ziiietta… ziiietta… ziiietta…” La voce si spostava, Domenica la seguiva impaurita, girando la testa.

“Zietta poveretta…” canterellò il nipote, “onesta e normale…” Domenica si mosse lentamente, strascicando i piedi. “… modesta e banale…” C’era una poltrona, Domenica la sentiva con la punta del piede. “… gli arricchiti son banditi, gli arroganti ignoranti.” Immobile, cercò di farsi piccola, di scomparire.

“Zia!” urlò la voce, pericolosamente vicina a un orecchio di Domenica. Trasalì, lasciandosi sfuggire un sospiro. Il primo colpo lo ricevette in petto. Cercò di sottrarsi, ma venne intralciata dalle poltrone e dagli scaffali che sembrava si fossero organizzati contro di lei. Riceveva colpi alle gambe e alle ginocchia, che la facevano piegare, ma che non le risparmiavano altre bastonate sulla schiena, sulle spalle, in faccia.

“Basta! Ti prego, basta” gridò Domenica al buio di fronte a lei. I colpi si fermarono. “Scusami. Ho sbagliato, avevo torto” disse, appoggiando le mani sul ripiano sudicio di uno scaffale. “Sono stata ingiusta.” Singhiozzò. “Scusami tanto.” Sentiva le lacrime che le scendevano sulle guance, e un misto di paura e disperazione che la facevano sentire spossata. Il colpo alla nuca che le spezzò il collo giunse quando, dopo un profondo respiro, stava per dire che erano una famiglia, che dovevano volersi bene.

Giordano e Ivan si tenevano a distanza, sospettosi.

“Eravamo nelle cantine” disse Ivan, “ci siamo parlati al cellulare, non ricordi?”

“Ti ho visto dentro la villa” disse Giordano.

“E noi ti abbiamo visto nelle cantine” disse Ivan rivolgendosi a Pamela che annuì. “Con tua sorella. Volevate ammazzarci.”

“Ma davvero?” disse Giordano a denti stretti.

“Lasciamo perdere.” Ivan prese il cellulare. “Ora dobbiamo avvertire la polizia.”

“No! Non lasciamo perdere” gridò Giordano, gettandosi per afferrargli il cellulare. Ivan scattò all’indietro.

“Ma che cazzo fai? Sei impazzito?”

“È colpa vostra se siamo finiti in questo casino” disse Giordano.

“Non rompermi i coglioni. Potevate non venire.”

“Ragazzi…” supplicò Pamela.

“Solo per il vostro tornaconto…” disse Giordano. Si guardò attorno e raccolse da terra un ramo. “Mi avete stufato.” Avanzò minaccioso verso Ivan. Girarono attorno all’auto, poi Giordano si mise a colpire con rabbia la Nissan, spaccando un fanale, distruggendo il cristallo. Il ramo si spezzò in due.

“Maledetto coglione” urlò Ivan saltandogli addosso.

“Fermi! Calmatevi!” gridava Pamela, cercando di aggrapparsi alla giacca di Ivan, ma venne buttata da parte.

Giordano roteava il moncone di legno con affondi che Ivan schivava, attaccando a calci. Il ghiaino, scavato dalle pedate, aveva disseppellito la terra scura. I cugini si avvinghiarono, cercando di aver ragione uno dell’altro. Aggrovigliati nella lotta, oscillarono fino a perdere l’equilibrio, rovinando a terra dove continuarono ad azzuffarsi. Giordano riuscì a sovrastare Ivan, caricando tutto il proprio peso per strozzarlo con il pezzo di ramo che aveva tenuto stretto in mano. Pamela si alzò per aiutare Ivan, ma venne scagliata di nuovo sul ghiaino. Allora raccolse l’altra metà del ramo, una scheggia appuntita, e la piantò con tutte le sue forze nella schiena di Giordano.

Con un gran frastuono, ogni imposta della villa si spalancò. Pamela lasciò la presa. Giordano si lasciò cadere su un fianco, il sangue gli imbrattava di rosso la polo. Gli occhi sbarrati, Ivan rantolava, un orribile fischio sempre più debole gli usciva dalla bocca. Terrorizzata, Pamela scappò verso il cancello d’entrata.

Solo fuori, in mezzo alla strada, telefonò piangendo a casa. Trovò il padre che cercò di rassicurarla e di farsi spiegare dov’era. Avrebbe avvertito lui la polizia, le disse, e sarebbe arrivato immediatamente, che stesse calma, il peggio era passato.

Nel salone della villa, erano allineati sul pavimento i corpi, appesantiti dalla morte, di Domenica, Ivan, Giordano, Irene e Tullio. Gli altri Domenica, Ivan, Giordano, Irene e Tullio chiudevano gli scuri una dopo l’altro. La luce si affievolì, tornò il buio.

Il padre di Pamela arrivò prima della polizia. Si abbracciarono stretti, Pamela si sciolse in un pianto liberatorio sul petto del padre che la baciò in fronte e sui lunghi capelli biondi. Poi le accarezzò la schiena con un leggero tocco sensuale. Pamela si sentì strana, si scostò dal padre che ora le baciava il collo. Puntò le mani sul suo petto per allontanarlo, ma il padre la teneva stretta. “Sei così bella… E ora, finalmente, sei solo mia” sussurrò. Pamela lo fissò terrorizzata come se lo vedesse per la prima volta, lo sguardo lascivo, volgare.

Non erano più in strada, ma all’interno della proprietà, dall’altra parte del cancello.

Nella villa.

Copertina di Tama66

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Maurizio Donazzon
Sono nato a Treviso, nel 1961, e dal 2009 tengo corsi di Scrittura creativa presso l’Arci di Treviso, dove lavoro. Ho tenuto un Laboratorio sull’intervista da cui è tratto il volume Storie di vita migrante, Terra Ferma Edizioni, 2015, con dieci interviste di migranti.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line WebSite Horror, Il Paradiso degli Orchi, Lahar Magazine, Sguardindiretti, Spazinclusi, Verde. Autore aggiunto presso Spazinclusi.
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