Le undici e un quarto e ancora li stava aspettando. Francesca sbuffava mentre passeggiava avanti e indietro. Si sentiva libera di esprimere il proprio malessere, nessuno la stava osservando. I banchi del luna park itinerante stavano finalmente chiudendo e la gente si avviava verso casa: l’indomani sarebbe stato un lunedì di lavoro. Si sentiva a disagio, le persone che lavoravano al parco giochi avevano volti tristi ed espressioni rassegnate. La sensazione che le dava osservare quegli individui stonava con la musica allegra e le giostre colorate. Si chiedeva se qualcuno oltre a lei se ne fosse accorto.
Rimaneva poco distante dal banco in cui si erano fermati Claudio e Valentina. Da almeno mezz’ora lui cercava di vincere al tiro a segno il grosso pupazzo a forma di coniglio che voleva sua figlia. Il fucile era evidentemente truccato per rendere difficile centrare i barattoli. Suo marito aveva speso abbastanza per comprare un paio di peluche della stessa grandezza, ma doveva accontentare la piccola. Come sempre, per ogni sua stupida fissazione.
Il mondo era crollato addosso a entrambi due anni prima. Si era pentita di non aver voluto fare l’amniocentesi durante la gravidanza, preso per tempo il problema poteva essere risolto. Aveva negato per giorni quello che capiva chiunque vedesse la piccola, fino a quando dovette arrendersi all’evidenza. Valentina aveva la sindrome di Down. Col tempo lui si era adattato, era riuscito ad andare avanti e spesso sembrava felice. Per lei era diverso. Quando la bambina non capiva si chiedeva se fosse normale per la sua età o dipendesse da quel maledetto cromosoma in più. Ci aveva messo del tempo per definire quel malessere che sentiva dentro, quando c’era la piccola in giro: il corpo di sua figlia la disgustava. Le mani, il volto, quegli occhi. La sua stessa esistenza la faceva sentire in colpa, leggeva accuse negli sguardi di chiunque l’avvicinasse. L’hai fatta male. Sei incapace di essere madre. È mongoloide. La parola proibita. La usava spesso prima di partorire, adesso scattava quando la sentiva. Eppure era quella a cui pensava quando guardava Valentina.
Avrebbe preferito restarsene rintanata in casa con la sua famiglia, lì nessuno giudicava lei e sua figlia. Ma Derri era una cittadina noiosa e l’arrivo del luna park itinerante spezzava la monotonia. Claudio non avrebbe mai rinunciato a portare Vale in un parco giochi. Per lui esisteva solo il sorriso esagerato di sua figlia.
“Qualcosa di sinistro sta per accadere” disse una voce cupa che spaventò Francesca. Si stupì di riconoscere la sua. Doveva evitare di parlare da sola, lo sapeva, potevano prenderla per matta.
“Mia cara, spero vivamente stia scherzando. Il mio luna park è sicuro, un incidente sarebbe imperdonabile”. Una seconda voce si rivolse a lei, sorprendendola. Si voltò senza riuscire a reprimere un sussulto, ma ci mise qualche secondo a capire chi le avesse parlato. Guardava troppo in alto. Un nano le rivolse un inchino esagerato. Indossava un frac vistoso e di un azzurro troppo sgargiante per avere la minima pretesa di eleganza.
Francesca arretrò di un passo, quella deformità la metteva a disagio. Si rimproverò mentalmente per la sua debolezza, non voleva essere scortese e forzò un sorriso. “No, si figuri, ero sovrappensiero. Vi fermerete per molto?”
“Domani smontiamo tutto e saliamo lungo la costa fino a Pesaro. Una volta era più semplice, restavamo anche due settimane in ogni località. Ora la gente si stanca subito delle nostre attrazioni. A parte qualche ostinata eccezione”. Il nano indicò il marito e la figlia. Lei sospirò. “Ne avranno ancora per un po’, il coniglio è difficile da portare a casa. Le posso consigliare un modo gradevole di attenderli?”. Mosse la mano alla sua destra, indicando una piccola tenda. “Sempre meglio che aspettare suo marito, non crede? Prima o poi si ricorderà di lei, ne sono certo”.
Francesca rimase infastidita dalla battuta, ma era nervosa per il comportamento di Claudio e decise di assecondare l’interlocutore. Distrarsi le avrebbe fatto bene. Un uomo robusto dalla pelle scura e con una lunga barba si avvicinò al nano e gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
“Cosa? Ancora? È la terza volta che sbaglia il resto in un mese. L’ultima punizione non le è bastata Sai cosa fare!” si lamentò il nano, visibilmente alterato. Quindi rivolse di nuovo la sua attenzione alla giovane madre.
“Quanto costa? – chiese lei frugando nella borsa di marca per cercare il portafogli – Tiene molto a questo posto. Non le sembra di essere eccessivo?”
“Per uno della mia levatura, è difficile non esserlo – il nano abbozzò un sorriso che Francesca trovò ripugnante, mentre l’uomo robusto si allontanava – vede mia cara, ognuno di noi tiene ad una serie di cose e farebbe di tutto per proteggerle. Cose preziose. Lei è madre e saprà capire ciò che intendo”.
L’ultima frase mise a disagio la donna. “Devo comprare un biglietto?” domandò turbata.
Il nano scosse la testa. “È la nostra attrazione speciale: pagherà senza fretta all’uscita”. Scostò la tenda all’ingresso e alzò la mano affinché Francesca potesse stringerla. Le dita sproporzionate come quelle di Valentina. Francesca provò orrore al pensiero di doverle toccare, ma assecondò il nano. La stanza circolare era piccola e spoglia. Si sedette sull’unica poltrona. Finalmente venne liberata dalla presa e lasciata sola. Poggiò la schiena sul sedile e per un istante tutto diventò buio.
Dopo un paio di secondi la luce di un proiettore illuminò la sala. La ripresa era amatoriale,le immagini di un bianco e nero sgranato scorrevano tremolanti sul piccolo schermo. Avevano usato una telecamera di basso costo. Era sicura che quella comprata da Claudio il Natale scorso, che teneva sempre a portata di mano per registrare ogni stronzata facesse sua figlia, producesse film di qualità migliore. L’inquadratura era fissa su un tratto di strada, il sonoro assente. In dissolvenza, apparve per un istante il titolo: “Il mostro”.
L’inquadratura si allargò e Francesca riconobbe il luna park di Derri. C’erano le stesse attrazioni che aveva visto, ma tutti i banconi erano chiusi. Sulla strada le persone si dirigevano verso l’uscita. I fotogrammi si muovevano velocizzati e davano l’impressione di un vecchio film. Avevano usato qualche effetto, Francesca ammise che come falso era ben riuscito.
Tra i passanti riconobbe Paolo, un suo collega. In ufficio cercava sempre di evitarlo, faceva troppe domande sulla sua famiglia, soprattutto su Valentina. Si pulì la bocca con un tovagliolo – probabilmente aveva appena mangiato una pannocchia comprata al banco vicino all’otto volante – e con disinvoltura lo lasciò cadere per terra. Seguì la traiettoria del rifiuto che svolazzava, spinto dal vento, fino a quando si impigliò in un cespuglio. L’uomo, parlando con sua moglie, scomparve dall’inquadratura mentre da lontano arrivavano nuovi personaggi. Francesca rimase impietrita quando riconobbe se stessa avvicinarsi verso il centro dello schermo assieme alla propria famiglia. Era impossibile, la sera prima Valentina era voluta restare in casa: quelle immagini non potevano esistere.
Un quarto individuo apparve al margine dello schermo. Indossava abiti neri e aveva il volto coperto. Era più veloce degli altri e in pochi secondi si era avvicinato. Si nascose dietro un cespuglio e tirò fuori un coltello. Francesca capì quello che stava per succedere e istintivamente urlò. Nessuno nel film ascoltava i suoi avvertimenti. L’aggressore scattò, approfittando di una brusca fermata degli altri personaggi: a Valentina era caduto un oggetto e voleva riprenderlo. La spettatrice tremò quando l’uomo misterioso sorprese la sua controparte e le tagliò la gola con un colpo netto, prima che potesse reagire. Non riuscì a chiudere gli occhi mentre l’assassino si avventava sulla bambina. Claudio era troppo lento per bloccarlo, gli si lanciò addosso quando ormai la bimba era senza vita. Lottarono con quei movimenti accelerati, quasi fossero vecchie comiche degli anni trenta. L’assassino si liberò dalla stretta e colpì suo marito diverse volte, all’altezza del cuore. Controllò che la donna e la piccola fossero morte infierendo sui loro cadaveri con altre coltellate, quindi scomparve. La telecamera rimase fissa a inquadrare i cadaveri. Il sangue usciva dai corpi e iniziò a scorrere in strada acquisendo colore e nitidezza. Arrivò al giardino, sporcò di rosso le attrazioni, fino a coprire ogni centimetro dello schermo. La pellicola terminò e il proiettore illuminò la sala, accecando la spettatrice sconvolta. Poi tutto si spense e Francesca rimase al buio.
Qualcuno scostò la tenda, facendo entrare la luce dei lampioni. “Signora, lo spettacolo è finito e stiamo per chiudere, spero non si offenda se le chiedo di uscire”. La voce del proprietario del luna park scosse Francesca. Si affrettò a varcare la soglia per raggiungere i suoi cari.
“Mi scusi, mi sembra l’avessi informata: all’uscita si deve pagare…” iniziò il nano, ma la donna lo prese a calci per farlo allontanare.
“Sei solo un mostro!” riuscì a dire. Preoccupata per il marito e la figlia corse al bancone dove li aveva lasciati. Lo trovò chiuso. Stava per iniziare a chiamarli a voce alta quando sentì Claudio.
“Finalmente, dove sei stata? Tutto bene? Sei così pallida!”.
Lo abbracciò, quasi volesse provare a se stessa che fosse davvero vivo e vegeto davanti a lei. Si sentì tirare la manica della giacca.
“Mamma, me l’ha preso” chiamava la piccola, cercando di attirare la sua attenzione e mostrando contenta il grosso peluche. Francesca scosse la testa, rinunciando a parlare: voleva andar via da quel luogo da incubo.
“Ho anche un altro regalo” continuò Valentina, afferrò un salvadanaio a forma di maialino che sbucava dalla tasca dei pantaloni. Francesca immaginò che quelli del tiro a segno si fossero sentiti in imbarazzo a spillare tutti quei soldi per un pupazzo. La sensazione familiare di avere attorno i suoi cari non cancellò l’inquietudine che la spaventava. Riusciva a percepire ogni variazione attorno a lei: il vento muoveva le foglie di un leccio al bordo della strada, un paio di adolescenti li superavano e si affrettavano verso l’uscita, gli odori mescolati del popcorn e dello zucchero filato ancora riempivano l’aria.
Gli stand erano chiusi e tutti se ne erano andati. Il cuore ricominciò a batterle forte. Ogni cosa sembrava muoversi al rallentatore. Davanti a loro notò un cespuglio con un tovagliolo di carta rimasto incastrato. Pregò mentalmente che non succedesse altro. Strinse le mascelle e contrasse i muscoli del viso. Le mani incerte della bambina fecero cadere in terra il maialino.
La mente non resse più. Valentina abbracciava il grande coniglio bianco. Francesca lo prese per le orecchie e le urlò “Stringilo forte!” e iniziò a correre, senza voltarsi. L’assassino era dietro di loro, lo sapeva e voleva salvarsi. Era tutta colpa di sua figlia, se non fosse stata così ritardata tutto sarebbe andato bene.
Uscì dalla piazza e attraversò Corso Italia senza curarsi del traffico. Quando si rese conto dell’autobus che arrivava nella sua direzione era troppo tardi per provare a fermarsi prima che passasse. Chiuse gli occhi e accelerò. “Stringi!” gridò alla bambina. Sentì lo stridio di una sgommata e un colpo. Ma stava ancora correndo, l’autista era riuscita a evitarle. Continuò la corsa finché riuscì ad infilarsi in un vicolo, fermandosi.
Qualcosa non andava. Era come se il cervello evitasse di darle un’informazione, i neuroni rifiutavano i collegamenti con le sinapsi. Troppo spaventoso, impossibile. Non stava succedendo a lei. Eppure in qualche modo sapeva. La mano destra stringeva il pupazzo, ne era sicura. Ma era troppo leggero. Quella stronza non aveva capito e aveva mollato la presa. Aprì gli occhi e si voltò. Il mondo iniziò a ondeggiare: c’erano solo le orecchie del coniglio.
Un urlo la raggiunse da lontano, si stupì che un essere umano potesse esprimere tanta disperazione tutta assieme. Ma poi capì. Claudio. Trovò la forza di voltarsi e affacciarsi sulla strada. Sua figlia era sdraiata sull’asfalto in una posizione innaturale. La piccola le aveva dato retta, teneva ancora stretto il pupazzo vinto. Attorno al padre, l’autista e i passeggeri del mezzo. Tutto era lontano, distante, nessuno sembrava curarsi di lei.
Francesca si sentì svuotata da ogni emozione. Guardava da lontano la scena senza riuscire a muoversi né a gridare come avrebbe voluto. Non provava nemmeno dolore, nessun sentimento, niente.
“Povera piccola. Ma d’altronde meglio così, uno scherzo della natura come lei avrebbe solo sofferto, non le pare?”. Era la voce familiare del nano. Francesca nemmeno si chiese come potesse sbucare dal vicolo. “Mi domando ora chi sarà considerato un mostro, dopo questi sfortunati eventi”. Francesca lo sentiva soltanto, era alle sue spalle, ma era convinta che stesse sorridendo. Lui le prese la mano, lei lo lasciò fare. Nella sua mente scorrevano i volti di tutte le persone che conosceva. Claudio. I suoi genitori. I vicini, i colleghi, gli amici. Avrebbe potuto spiegare mille volte la sua versione ma sapeva che sarebbe stato inutile. Per tutti sarebbe stata una pazza assassina, nemmeno in grado di attraversare una strada con sua figlia.
“Ma non si deve preoccupare, mia cara. Venga con noi al luna park, la proteggeremo”. Strattonò delicatamente la mano di Francesca, tirandola verso di lui. Lei si mosse meccanicamente. “Dobbiamo sbrigarci, bisogna iniziare a smontare. Domani si parte. Viene a darci una mano? Abbiamo proprio bisogno di una nuova cassiera, la ragazza che c’era se ne è andata prematuramente”.
Il nano camminò e Francesca lo seguì. Passo dopo passo il vicolo divenne sempre più buio e iniziò a sentire sempre più vicina la musica del luna park.
Illustrazione di Erika Romano