Il re del campo di zucche immagine Riscaio Francesca per racconto Halloween horror Alessandro e il re

Alessandro e il re

Happy, happy Halloween, Halloween, Halloween
Happy, happy Halloween, Silver Shamrock!

«Aspettatemi!» gridò Alessandro, mentre, affrettando il passo, cercava di raggiungere il fratello maggiore e gli amichetti.
Era inutile. Lo stavano lasciando indietro apposta. Non lo avrebbero aspettato né men che meno si sarebbero fatti raggiungere.
Alessandro iniziò a correre in un ultimo tentativo di riconquista del terreno perduto. Stavano procedendo attraverso una strada sterrata: tagliava il paese, passando tra i campi. Era autunno inoltrato e la sera era già calata, ma i loro genitori gli avevano permesso di scorrazzare liberamente fino a cena, vista l’occasione speciale: la festa di Halloween. Perciò si trovavano in missione per fare incetta di dolciumi, sebbene con la promessa di non mangiarne.
Alessandro e il fratello Nicola avevano raggiunto Aurora, Michele e Riccardo, nella piazza del paese, per partire in spedizione. Lì, c’erano altri gruppetti di bambini, tutti pitturati dei colori dell’orrore e della morte, pronti per “dolcetto o scherzetto”. Loro, per batterli sul tempo, avevano tagliato per quella scorciatoia in mezzo alla campagna, dirigendosi alle case di chi sapevano sarebbe stato più generoso.
Nonostante fosse buio, con la complicità della luna, potevano percorrere quei sentieri a occhi chiusi, si trattava del territorio del loro gruppo, e, aiutati dalla luce dei telefonini, era veramente un gioco arrivare alla meta. Alessandro aveva subito capito che suo fratello e i suoi amici stavano complottando qualcosa: appena incontrati si erano lanciati certi sguardi. Ora, sapeva di cosa si trattava: scaricarlo.
Sempre la stessa storia. Alessandro, piccolo di statura e magrissimo, sembrava un bambino ristretto, così lo schernivano i suoi compagni di classe, e sette anni non li dimostrava proprio. Gli dicevano anche mucchietto d’ossa, ma, al contrario del fantasma re, lui, Jack Skeletron in miniatura, non veniva affatto temuto né rispettato. Magari fosse stato come Jack: nessuno l’avrebbe preso in giro. Non lo sceglievano mai quando giocavano a pallone, anzi lo isolavano in continuazione. Persino gli adulti chiudevano un occhio sulle cattiverie che subiva, come se fosse sua la colpa d’essere minuto e facile da abusare. Lui si difendeva, certo, non si arrendeva e spesso si picchiava anche con i bambini grandi, ma sempre per uscirne sconfitto e sfottuto.
Pensava a tutte le volte in cui era stato lasciato in disparte, Alessandro, mentre correva per raggiungere gli altri, ormai nemmeno udibili in lontananza.
Si era vestito da Dracula. Lo avevano canzonato: «E tu vuoi essere il re dei vampiri? Sei ridicolo! Non fai paura a nessuno!» Ma Alessandro aveva lasciato correre. Aveva visto, sere addietro, un vecchio film di Dracula, di nascosto dai suoi genitori. Nicola era rimasto a dormire da un amico e lui era sceso quatto quatto, nascondendosi dietro il divano del salone, seduto a terra con una coperta per pararsi dal freddo. I suoi si trovavano in cucina. Aveva lasciato la porta socchiusa in modo da sentire se qualcuno arrivasse e spegnere il televisore per non essere scoperto, ma raramente i genitori si spostavano dalla cucina prima di ritirarsi; rimanevano imbalsamati lì a vedere stupidi programmi o roba politica, che innervosiva suo padre, tanto da fargli digrignare i denti come un cane rabbioso, e annoiava sua madre.
Dracula beveva il sangue delle vittime da due fori sul collo. Li guardava con uno sguardo pietrificante, quelli rimanevano immobili e lui gli si attaccava al collo e diventava loro padrone. Alessandro era rimasto colpito: aveva pregato per ricevere il potere di Dracula e divenire il signore di tutti i compagni di scuola. Oppure ucciderli, almeno sarebbero stati zitti.
Mentre correva verso il buio e il vuoto, poiché aveva completamente perso le tracce dei suoi compari, sempre più furioso, inciampò in un avvallamento del terreno. Il cellulare gli volò di mano, così come il sacchetto per i dolciumi, e lui finì a terra; la prese a pugni, facendosi male. Gli si riempirono gli occhi di lacrime ma non pianse. Non l’avrebbe mai data vinta a quella cacca di Nicola. Non voleva nemmeno tornare a casa. Avrebbe dovuto ammettere con i suoi genitori di essere stato mollato. Mosso da una rabbia furiosa, che cominciava a mutarsi in odio, si rialzò. Cercò il telefonino.
«No!» esclamò irato a voce alta «È finito nel fosso vicino al campo!»
Da un paio di giorni non pioveva, tuttavia il terreno era umido e fangoso. Alessandro scese all’interno del fosso, ma, durante la discesa, scivolò, rovinando sul fondo e ferendosi una mano. Provò un gran male, sanguinava. Si sentì demoralizzato, soprattutto perché il canale di scolo era poco profondo, persino per un tappo come lui, e non capiva come avesse fatto a caderci dentro in un modo tanto goffo. L’umidità della terra e dell’erba gli si appiccicò ai vestiti e alle ossa. Ora l’avrebbero rimproverato per essersi “rotolato nel fango come i maiali”.
«Maledetti!» disse frignando alla notte «Vi odio tutti, tutti!»
Mentre tratteneva un singhiozzo, scorse il riflesso del cellulare qualche metro più in là. Ma non fece in tempo a spostarsi per raccoglierlo, però, perché qualcosa gli strisciò sotto i piedi e vide la zolla, dove lo smartphone era incastrato, muoversi. Non solo la zolla, ma un’enorme manciata di terra cominciò a sollevarsi, lasciando, a pochi centimetri, una sorta di voragine. Intanto, nel campo di zucche davanti a lui, due occhi arancioni si accesero. Alessandro fu preso dal terrore. Cercò di scappare aggrappandosi al bordo del fosso, ma, in preda all’angoscia, non riusciva a uscire in nessun modo. Scivolò, rischiando di cadere nella buca apertasi accanto a lui, provò a rialzarsi, ma tutto tremava, nemmeno ci fosse stato un terremoto. Alessandro non seppe quanto durò. Si aggomitolò, chiudendo gli occhi terrificato. Poi, a un tratto, le scosse diminuirono. Con il cuore in gola e le gambe insicure, a fatica, finalmente, il bambino si rimise in piedi e, con il respiro rotto, tutto inzuppato di umidità e fango, guardò verso gli occhi arancioni. Si stavano sollevando dal campo, diffondendo un bagliore più intenso di quello della luna, con calde sfumature d’arancio, e rivelando una testa di zucca ghignante attaccata a un corpo legnoso e sottile. Sembrava composto da stuzzicadenti, ma alto e grosso, ad Alessandro pareva arrivare al cielo. La terra sollevata era scivolata via e una scheletrica mano lignea reggeva il telefonino in un palmo arido ed enorme. La campagna intorno era rischiarata dagli arancioni occhi del mostro con la faccia di zucca. Indossava un gessato, nero ed elegante; dal collo, dalle maniche, dalle caviglie, oltre che ai rinsecchiti arti, fuoriuscivano rigogliose foglie di zucca e filamenti vegetali, in contraddizione con il corpo morto e secco. Alessandro rimase immobile a fissarlo tremante. La zucca lo prese, tirandolo fuori dal fosso e depositandolo dinanzi a sé; poi avvicinò verso il bimbo l’arto nel quale reggeva il cellulare: «Ti è caduto questo» gli disse con una voce impastata, bassa e potente. Alessandro passò dal terrore all’incredulità. Tremulo, con mano incerta, sforzandosi per arrampicarsi dentro quella dell’apparizione, riuscì a raggiungere il cellulare, ma, mentre lo stava per prendere, ci ripensò. Scese e guardò il gigante che lo fissava con aria interrogativa. Alessandro si fece coraggio e disse: «Non è che a me serve molto, signore, se vuole può tenerlo…» poi senza pensarci aggiunse «Lei chi è?»
Quello portandosi lo smartphone davanti agli occhi, lo osservò, scaraventandolo quindi lontano e spiegando: «Se non serve a te, non serve nemmeno a me.»
Lo disse con una sorta di complicità divertita che suscitò un sorriso in Alessandro.
«Io sono il re del campo di zucche.»
«Io invece, signore, sono Alessandro, un bambino. Vuole essere comunque mio amico?»
La zucca lo osservò, avvicinò la mano legnosa a quella sanguinante del piccolo, passò la punta di un grosso dito sopra la ferita, se la portò alla bocca vuota, incisa nella polpa, e, leccando il sangue, scoppiò a ridere sinistramente.
Alessandro non provò paura, anzi rise pure lui. La zucca tornò a fissarlo e gli rispose: «Non chiamarmi signore… e dammi del tu.»
Gli si inginocchiò accanto e indicò la spalla. «Salta su, amico.» Così fece il bambino senza incertezza e, nel chiarore emanato dagli arancioni occhi, si lasciò trasportare a grandi falcate dal re del campo di zucche attraverso la campagna e la sera.

Quando la mattina dopo si alzò, i suoi genitori erano in cucina: il padre leggeva le notizie sullo smartphone, la madre finiva di preparare la colazione. Appena il figlio entrò, i due gli diedero uno sguardo di sfuggita e la madre lo interrogò: «Buongiorno, tesoro! Dov’è tuo fratello? È sempre il primo ad alzar…»
Alessandro si limitò a fare spallucce. Ma sia Enrico che Clara erano rimasti di sasso, rendendosi improvvisamente conto, sconvolti e disorientati, di non aver alcun ricordo della sera precedente. Non sapevano a che ora i bambini fossero rientrati, e non avevano memoria della cena né della serata in generale. Un senso di inquietudine attanagliò alla pancia Clara la quale con voce allarmata domandò: «Alessandro, ma tu e tuo fratello ieri sera quando siete rientrati?»
Enrico aveva posato il cellulare sul tavolo e lo guardava come se si fosse risvegliato da un sogno. Alessandro esitò qualche secondo e rispose vago: «Io e mio fratello non siamo tornati insieme…»
A quel punto Enrico saltò in piedi e corse al piano di sopra in camera di Nicola, mentre Clara, in confusione, decideva da dove partire con l’interrogatorio al quale pensava di sottoporre Alessandro. Ma Enrico non ebbe il tempo di raggiungere la camera del figlio maggiore né Clara di cominciare a parlare, poiché da fuori, come un grido straziato, le campane della chiesa iniziarono a suonare a morto. I due, in balia di un’angoscia feroce, si diressero alla piazza del paese, dove stava la chiesa, a qualche centinaio di metri dall’abitazione. Alessandro li seguì. Quando arrivò, le grida, quelle vere delle persone richiamate dai rintocchi a morto, si stavano già sollevando, alte, isteriche, fino al cielo. La chiesa era chiusa, perciò nessuno poteva aver attivato il meccanismo delle campane. Solo Alessandro si accorse di questo. Guardò prima la porta sbarrata e poi posò gli occhi sull’orrendo spettacolo che si consumava nella piazza. Sotto un cielo plumbeo e minaccioso, tra le strade imbrattate da scarlatti graffiti, i cadaveri dei bambini del paese erano accatastati in una macabra pila di morte. Riconoscerli risultava quasi impossibile: con gli abiti resi monocromatici dalle chiazze di sangue, erano stati decapitati. Le teste staccate erano state sostituite con delle zucche di Halloween, fissate con dei legni conficcati in profondità nelle gole, o fermate in più punti con dei rami spezzati e incastrati tra i bordi frastagliati dei colli, delle spalle spostate, tra le ossa fuoriuscite. Le parti di corpo che si intravedevano dagli abiti mostravano la carne, i tendini, i muscoli: era come se li avessero spellati da sotto i vestiti. Alessandro si avvicinò e allungò una mano verso quello che restava del fratello, che, al contrario degli altri, poteva riconoscere senza problemi, toccandolo e sporcandosi di sangue mantenuto fresco, come per effetto di un arcano maleficio.

La sera precedente non aveva potuto cogliere i dettagli.
Il re del campo di zucche, mentre attraversavano veloci i campi, gli aveva chiesto a quale gioco volesse giocare e Alessandro, senza esitazione, aveva risposto: «Voglio giocare a essere il padrone dei bambini del paese!»
Quello insinuante aveva ribattuto: «Perché invece non gli facciamo dolcetto o scherzetto?»
«Sì!» aveva acconsentito eccitato Alessandro «E se non ci danno i dolci, noi… noi… »
«Li facciamo stare zitti per sempre» aveva continuato la zucca per lui «Che ne dici, amico, ti va?»
Alessandro aveva riso euforico, ripetendo canzonatorio alla luna: «Scherzetto! Scherzetto! Scherzetto!»
Così era iniziato il gioco.
Si rivedeva sopra la spalla del re, mentre questo inseguiva, come un gatto i topi, suo fratello, gli amici e gli altri bambini che, in preda a un delirio folle, gridavano, fuggivano e cercavano di nascondersi. Ma nessuno era accorso in loro aiuto, e il mostro li aveva stanati tutti. In alcuni momenti gli era sembrato di essere in un episodio de L’attacco dei giganti, la serie che lui e Nicola guardavano di nascosto sul cellulare. Il re del campo di zucche aveva preso e stretto i piccoli corpi; si erano dimenati, fumando una volta a contatto con la mano legnosa; se li era portati alla bocca uno a uno e con un morso gli aveva staccato la testa, per poi lasciarli cadere al suolo inermi. A Nicola, invece, non gli aveva mangiato la capoccia in un boccone, gliel’aveva addentata a metà e quella era scoppiata come un bignè con troppa crema dentro. Il sangue era schizzato dappertutto; illuminato dall’arancio degli occhi bucati, aveva fatto l’effetto di un fuoco d’artificio che pioveva veloce verso terra. Era stato fico, come diceva sempre Bart Simpson, anche quando gli schizzi gli erano arrivati addosso, imbrattandolo. Aurora invece era riuscita a sgusciare via dall’arto della zucca, per precipitare però a terra mentre urlava a squarciagola, prima di spiaccicarsi e rompersi tutta. Ad Alessandro era parsa la Winx che Nicola aveva spaccato per dispetto il Natale precedente alla cuginetta Milena. Ma Aurora si era mossa, cercando di girarsi su se stessa. Il re l’aveva presa e, mentre la portava alla bocca, il corpo, penzolante e gocciolante, sembrava uno straccio bagnato. Poi le aveva succhiato la testa ingoiandola con un sonoro risucchio, come quando l’estate Alessandro ripuliva il fondo del barattolino dell’Estathé con la cannuccia.
Si udiva ancora mentre dalla spalla del suo tremendo amico gridava: «Vi divertite ora?! Non me lo dite più che non faccio paura a nessuno, eh?!»
La terra si era tutta puntinata di stelle di sangue, come un cielo al contrario.
Ma, nonostante il chiarore diffuso dagli occhi vuoti della zucca e dalla luna, Alessandro non aveva distinto bene ogni passaggio. Quando la missione era finita e lui e il re delle zucche avevano deciso di essersi mangiati abbastanza dolciumi – Alessandro, raccolti i dolci dei compagni, ne aveva fatto una bella scorpacciata, pesando che in fondo le caramelle rotonde con il dentro liquido assomigliavano alle teste staccate – ridendo a questo pensiero, si erano salutati. Il re gli aveva promesso che si sarebbero rivisti presto, prima di quanto lui avesse potuto immaginare. Il bambino, buttato il costume nel bidone della spazzatura all’inizio del vialetto, era fuggito verso l’abitazione per non gelarsi. Rientrando in casa, aveva trovato i genitori addormentati sul pavimento della cucina. Tutti i ragazzi e i grandi del paese erano caduti in realtà in un sonno profondo. Così Alessandro si era pulito ed era andato a dormire.

Non si era figurato tanto. Una simile scena superava i sogni più arditi. Sorrise alla catasta di cadaveri. Intanto la piazza si era gremita di gente, grida e pianti. Alcuni vomitavano, si sentiva la puzza, i resti di cibo e di liquidi schizzavano per terra e si spandevano in macchie appiccicose; qualche persona, dalla faccia bianca di fantasma, tremava e sudava, nemmeno avesse avuto la febbre a 40°. Qualcuno era svenuto, cadendo a terra con un gran tonfo. C’era chi fuggiva, sbracciando impazzito. In lontananza, il suono di sirene che si avvicinavano veloci.
Infastidito Alessandro e ignorato, poiché tutti troppo sconvolti per accorgersi di un bambino ristretto che scivolava fra loro, riprese la strada di casa. Quando arrivò, si accorse che, appoggiata a lato della porta, c’era una grossa, polposa zucca di Halloween ghignante e dagli occhi arancioni, accesi e brillanti. Alessandro si accucciò accanto all’amico e passò la mano sporca sulla bocca incisa, una grossa lingua polposa fuoriuscì e leccò via il liquido cremisi che il bambino gli aveva lasciato addosso.
«Buongiorno re, sono contento che ti rivedo così presto… spero stai bene. Ora vado, ti torno a trovare tra poco.» Dal profondo della testa vuota, giunse una risposata gorgogliata: «Buongiorno a te, amico, ci vediamo più tardi, ti aspetto qui.»
Alessandro felice entrò in casa. Il ghigno aperto e malefico si accentuò sul volto della zucca e gli occhi arancioni parvero ardere di un fuoco vivo e violento.
Il bambino si pulì dalla mano i residui di quel sangue magico che non si seccava e andò a fare colazione. Quando sarebbe giunta la sera, avrebbe chiesto al re di divertirsi anche con gli adulti. Tutti quei piagnistei e quelle grida l’avevano irritato. Sarebbe diventato il padrone del paese e nessuno gli avrebbe più detto cosa fare o non fare. Ingoiò l’ultimo boccone di Kinder Fetta al Latte. Sorrise soddisfatto. Lui e il suo nuovo amico si sarebbero divertiti un sacco.

Disegno di Francesca Riscaio

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