Immagine di Erika Romano

I frutti della terra

Grumi di terriccio mi rimangono infilati sotto le unghie mentre uso le mie nude mani per scavare sempre più in profondità. La pioggia sul viso si mescola alle lacrime che scendono copiose senza alcun pudore. Solo sporadici fulmini illuminano questo campo di confine, sovrastato dalla collina. Ancora niente. Eppure avrei già dovuto trovare ciò che stavo cercando. Un tuono mi rimbomba nelle orecchie e ritorno col pensiero, per l’ennesima volta, al suono con cui iniziò questa avventura che oggi, dopo tanti anni, si è trasformata in orrore. Quei ricordi pungono come spilli fitti nel mio cuore indebolito dall’età, rievocano i miei defunti compagni di viaggio.

“Terra!” urlò Willy dal Trinchetto. All’inizio non ci interessammo agli avvistamenti di quel vecchio ubriacone, era la quarta volta che ci illudeva su quanto fosse vicina la fine dei nostri tormenti e sospettavamo fosse un altro falso allarme. Nonostante la scarsità di risorse, ci premuravamo di lasciare sempre una fiasca di rum in Vedetta, perché quando l’alcol non gli scorreva nelle vene aumentavano le visioni. Eppure ripeté quella parola carica di aspettative e speranza per altre due volte. “Terra! Terra!”. I pochi di noi che avevano ancora abbastanza forze si spostarono a prua. Mentre li raggiungevo contavo i sopravvissuti e mi resi conto delle numerose perdite di quei giorni. Era un miracolo che riuscissimo a governare l’Infierno in dieci. Da tre settimane non seguivamo alcuna rotta e questo semplificava il nostro lavoro. Ci limitavamo a porre resistenza alle tempeste improvvise e feroci tipiche di quelle latitudini. Più i giorni passavano minori erano le possibilità di salvezza.

La luna si affaccia per un istante tra le nuvole gonfie e io ne approfitto per gridarle tutta la mia disperazione. Alzo le mani al cielo e impreco per il nostro assurdo destino. Avevo trovato soltanto quella maledetta terra rossa che mi graffiava i palmi, non c’era alcuna traccia del macabro bottino a cui aspiravo: frammenti di cranio e pallide ossa per i più antichi come Guybrush o almeno il corpo ancora intatto di Gage. Sarebbe bastato per convincermi che avevo avuto soltanto un’allucinazione. Li ho seppelliti tutti io in questo cimitero di confine, a due ore di cammino dal villaggio, l’ultimo avamposto a cui ci era permesso di arrivare. Tremo al pensiero del loro infausto destino.

Il vecchio aveva ragione, c’era un’isola che interrompeva la linea retta dell’orizzonte. Nonostante le gole secche – non c’era quasi più acqua da bere – gli altri intonarono canzoni di riconoscenza al mare, mentre io calavo dall’albero maestro il Jolly Rogers: gli inglesi avevano imposto la pena di morte per gli associati alla filibusta, non volevo lasciarci le penne dopo essermi salvato dal naufragio, dalle sete e dalle intemperie. Qualcuno provò ad avvisare il capitano Silver, nella speranza che quella notizia alleviasse la sua pena: era malato ormai da tempo e in preda a spaventose visioni. Era troppo tardi, la febbre alta lo faceva sragionare. Ci comandò di tornare indietro perché quella terra era dannata e che avrebbe considerato un nostro rifiuto un vero e proprio ammutinamento. Minacciò di gettarci dal ponte uno ad uno se non avessimo obbedito. Innanzi alla nostra decisione di tenere la rotta scoppiò in pianto e ci pregò di ammazzarlo sul momento. Solo per caso riuscimmo a bloccarlo prima che si potesse tuffare in mare. Si dice – non del tutto a torto – che siamo uomini spietati ma soffrii nel vedere ridotto in quello stato colui che ci aveva guidato in innumerevoli razzie, famoso nei sette mari per le sue capacità e il suo senso strategico. Eppure non voleva saperne di metter piede su quel piccolo pezzo di terra, unica nostra salvezza.

Il senso di colpa mi attanaglia ripensando che considerai le paure del capitano come deliri dovuti alla follia. Proprio oggi, dopo tanti anni, sono consapevole che lui sapeva dell’orrore a cui ho assistito prima di arrivare in questo cimitero. Mi è chiaro che la sua anima, come quelle dei nostri compagni, è ormai perduta per l’eternità in questo minuscolo frammento di inferno in mezzo all’oceano. Non posso restare. Prima che albeggi devo trovare il modo di scappare o subirò anch’io la stessa sorte.

Gentaglia della nostra risma, indurita dalla povertà e sopravvissuta per mezzo di espedienti non era abituata alle fastose cerimonie che ci riservarono i nativi dell’isola. Nei miei viaggi non avevo mai incontrato un popolo tanto socievole e aperto agli stranieri. Ci trattarono come sovrani: ogni nostro desiderio veniva esaudito. Si premuravano di concederci tutto ciò che desideravamo: il cibo migliore, le donne più disponibili ed eccitanti. L’accoglienza di quel popolo non sembrava però la loro unica stranezza, notammo che nessuno tra gli abitanti del villaggio si dedicava all’agricoltura o si procacciava ciò che mangiavamo. Negli anni riuscimmo a padroneggiare la loro lingua, composta di parole semplici. Quando provavamo ad indagare sull’origine del cibo ottenevamo risposte evasive, coloro che ci avevano ospitato senza offrirci spiegazioni dettagliate bofonchiavano qualcosa a proposito dei “frutti della terra”, senza darci spiegazioni.

Appoggio le mani nel fango per rialzarmi e realizzo cosa intendessero con quella risposta. Rabbrividisco. Ogni volta che mi tornano in mente quegli sguardi, quegli occhi così orribilmente privi di vita inizio a tremare. Mi chiedo come abbia potuto evitare di cercare la verità per così tanto tempo. Non posso indugiare oltre, è arrivato il momento di correre il più lontano possibile. Troppo tardi: sento qualcuno che urla alle mie spalle e un dolore lancinante esplode nella mia testa. Non ho più energie per tenermi in piedi e mentre cado tutto diventa buio. Non ce l’ho fatta, che Dio mi perdoni.

Erano poche le leggi che dovevamo rispettare e non ci ponemmo troppi problemi. Le nostre vite divennero migliori di quanto potessero immaginare dei tagliagole di poco conto come noi e nessuno aveva voglia di interrompere quel sogno infrangendo regole inoffensive come quella del limite. Al di là del villaggio c’era un lembo di terra rossiccia, diversa dal resto dell’isola, che sembrava segnare un confine. Lì avremmo dovuto seppellire – da soli e senza alcun aiuto – i nostri morti, quando ce ne sarebbero stati. Infine non dovevamo mai oltrepassare quella frontiera e salire l’altura che iniziava subito dopo.

Apro gli occhi e mi ritrovo nel tempio, sopra la collina. Sono consapevole di essere legato sotto la pioggia: sono svenuto e sto sognando. Chissà se Silver ebbe una visione simile quando ci pregò di non avventurarci in questa terra maledetta. Gli affreschi sui muri rappresentano riti blasfemi che sono contento di poter soltanto intravedere. Riesco invece a distinguere benissimo la colossale statua innanzi a me. E tremo davanti a quel Dio senza nome. Il corpo sembra quello di un essere umano, ma termina in quattro gambe, rette da otto minuscoli piedi per ogni arto. Dove dovrebbero esserci le braccia ondeggiano innumerevoli tentacoli. Al posto della testa, da un foro sul collo, sbucano due imponenti corna, che svettano verso il soffitto, alte almeno il doppio del resto della scultura. La figura inizia a muoversi: è viva. Sento nella mia testa versi incomprensibili e le sue oscene braccia puntano verso di me. Presto sarò suo, mormora una voce. Presto sarò anche io un frutto della terra, l’orrore che mi era stato celato per anni oltre la collina.

Non saprei a chi fosse appartenuto quel diario che ritrovai per caso, nascosto nella mia capanna. Poteva averlo lasciato uno dei miei compagni prima di morire ma ebbi l’impressione che fosse molto più antico. Le parole erano disegnate con una calligrafia accurata e dubito che qualcuno dei masnadieri con cui avevo condiviso tante avventure sapesse scrivere, io stesso ero capace di leggere a stento. Quel libro scritto a mano confermava la mia ipotesi che non fossimo i primi naufraghi a essere sbarcati sull’isola: appena arrivato mi stupii quando un vecchio indigeno dimostrò di masticare qualche parola di inglese, poi riconoscemmo abiti francesi indossati – non necessariamente nel modo in cui erano stati pensati in origine – dalle donne del posto, forse per sembrare più affascinanti ai nostri occhi. Il segreto dell’isola non era stato svelato e chissà per quale evento fortuito l’autore riuscì a lasciare quelle parole prima di trovare la morte. Era stato fin troppo cauto, notai la piccola incavatura in cui era nascosta la sua opera rivelatrice dopo tanti anni in cui vivevo in quell’abitazione. Raccontava con dovizia di particolari ciò che era riuscito a vedere nella zona a noi proibita a partire dal tempio in cima alla collina. Nessun uomo sano di mente avrebbe creduto all’orrore che descriveva, dovevano essere i vaneggiamenti di un folle. Il dubbio mi tormentava e decisi che anche se era pericoloso dovevo controllare. Se era vero quanto riportato nel diario, rischiavo molto più che la mia vita. A notte fonda, muovendomi con discrezione per non svegliare le due donne che dormivano con me, mi inoltrai nell’isola. Aveva appena iniziato a piovere.

Qualcosa di caldo che mi cola sul viso mi aiuta a riprendere i sensi: è il mio sangue. Il dolore alla testa è continuo e non mi permette di ragionare. Sento l’odore penetrante della terra bagnata. Apro gli occhi, è rossa. La terra maledetta. Urlo e cerco di alzarmi, pieno di terrore mi rendo conto di essere immobilizzato. Le braccia e le gambe sono strette con delle funi, davanti a me qualcuno sta scavando. Lo riconosco, è il giovane di guardia al confine dei luoghi a noi proibiti. Credevo che dormisse e ne ho approfittato per superare il confine. Era stato tutto troppo semplice. Piango, lo prego nella sua lingua di lasciarmi andare, non voglio diventare come loro. Lui continua a ripetere che gli dispiace e non può fare altro. Quello era il mio destino da quando sono sbarcato. Mentre continuo ad implorarlo assaporo il miscuglio salato delle mie lacrime e del mio sangue. Non voglio finire così, Dio misericordioso, abbi pietà di me!

Uscito dalla capanna corsi fino alla cima della collina, e proseguii, iniziando a scendere il pendio: non c’era alcun fuoco acceso, nessuna luce. Eppure sembrava che quella parte di isola a me sconosciuta brulicasse di vita. Arrivai a quello che sembrava un campo coltivato, il primo che vedevo da quando ero felice prigioniero di quell’isola. Mi nascosi dietro un albero quando sentii distintamente dei rumori: qualcuno stava lavorando, di notte e con il temporale. Un lampo illuminò tutto attorno e ciò che vidi mi paralizzò. Per tutta la discesa e ancora oltre, fino a dove poteva arrivare il mio sguardo c’erano delle figure che si muovevano lentamente. Nell’istante in cui si rischiarò il cielo vidi che erano diverse decine. Un secondo fulmine mi permise di studiare le più vicine e a pochi passi da me riconobbi il ciuffo biondo di Gage. L’avevo seppellito io stesso, quattro giorni prima. Incredulo mi avvicinai a lui, chiamandolo per nome. Sembrò riconoscermi e si voltò verso di me. Tutto divenne chiaro. Non so quale tenace forza di volontà ebbe la meglio sulla follia che sentivo crescere in me. Era il mio ultimo compagno senza ombra di dubbio. Ed era altrettanto evidente che la vita avesse abbandonato quel corpo. La carne si stava decomponendo ma c’era ancora qualcosa dell’amico che conoscevo. Mi fissò per un istante e mi sembrò infinitamente triste. Poi il suo sguardo cambiò, come se un’altra entità prendesse il sopravvento e mi ignorò, ricominciando a zappare. Non ebbi il coraggio di avanzare in mezzo a quelle creature, ma nella penombra mi parse di riconoscere le figure di altri miei compagni di sventura. Sperai che fosse solo suggestione e mi ripromisi di controllare le loro tombe. Da quanto ero in grado di vedere ipotizzai che più tempo era passato dalla loro morte meno restava del loro aspetto umano. Si stavano trasformando in qualcos’altro, creature che si trascinavano ai piedi della collina dove la vista non riusciva a decifrare i volti nel buio. Percepii solo dei passi e in quello strascicare mi sembrava ci fosse qualcosa di tremendamente innaturale. Finalmente mi voltai e corsi verso il villaggio, dove fui vinto dalla curiosità e ora stavo per pagarne le più terribili conseguenze.

Vengo tirato per i piedi e immobilizzato come sono, non riesco a opporre alcuna resistenza. Gettato nella fossa appena scavata, il suolo che mi accoglie è duro, nonostante l’acqua lo abbia reso fangoso. Sbatto di nuovo la testa e mugugno per il nuovo dolore. Provo ancora ad implorare, anche se sono consapevole che non servirà a nulla. Scende terra rossiccia sul mio corpo, inizio a muovere a fatica il torace per prendere aria. Una seconda pioggia mi cade sul volto, sposto la testa per cercare di farla scivolare giù. I rumori mi giungono ovattati. Ancora terra. Si infila in bocca e nelle narici. Non riesco a respirare senza che qualche grumo mi rimanga in gola. Ma ormai non posso più tossire o aprire la bocca senza riempirla. Il peso sul corpo è ogni istante più insostenibile. Ancora una manciata di terra, riesco a vedere appena il mio carnefice. Poi soltanto buio e silenzio.

Copertina: illustrazione originale di Erika Romano

Un pensiero su “I frutti della terra

  1. Un racconto che fa correre la fantasia, detto e non detto, vero e non vero, tutto laicato alla fantasia che scorre per poi arrivare alla fine macabra, triste, nessun sopravvissuto, peccato, sono sbarcati nell’isola sbagliata, tutto per non dare retta a una persona poco credibile, la ragione che vince sempre sulle parole dette da una persona anziana e particolare.
    Anche se Horror mi sono divertita a pensare a tutte le probabilità che potevano avere o non potevano scegliere, comunque la bella vita spesso toglie all’individuo la curiosità e l’analisi di ciò che gli sta a fianco.
    Saluti e buon lavoro.

Rispondi a Renata Marcella Capriz di Cigliè Annulla risposta

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