Lo spaccio puzza di musi gialli e le presenze moleste che appestano il ritrovo, dal juke-box scassato che canta “You Really Got Me”, al derelitto ricurvo con la tigna, trasudano un senso di sconfitta. Il cameriere parla in un americano stentato; forse potrà darla a bere agli altri, ma nascosto dietro quel cravattino c’è uno dei tanti killer dello Zio Sam. Ci guarda in attesa dell’ordinazione e non vede l’ora di squagliarsela. Sembra preoccupato dalla reazione di Brian a un eventuale: “Mi spiace, l’abbiamo terminato.” Io almeno se fossi lì, al suo posto, così mingherlino, con un ridicolo taccuino e una penna smangiucchiata come uniche armi che si frappongono a un energumeno – con la morte impressa negli occhi – me la starei già facendo sotto.
Brian, dall’altro lato della panca malmessa spacciata per tavolo, sogghigna e allarga le froge come se mi avesse letto nel pensiero: «Birra?»
Il cameriere scribacchia senza aspettare la mia risposta.
«Sì, ok. Due birre.» Il tono della mia voce sovrasta quella di Brian. Sono rimasto sorpreso dal suo invito. Non l’ho più rivisto dall’addestramento al MACV e, per tutto quel tempo, aveva fatto la guerra, a differenza di quei damerini che se ne stanno dietro le scrivanie a leccare culi, o al volante di una jeep pronti a scarrozzare generali sulle strade di Saigon. E li chiamano militari. No, non è giusto. Noi siamo gli unici a meritare quell’appellativo. Alla guerra c’abbiamo creduto sin dall’inizio, quando gli ambasciatori ancora comandavano, e Nord e Sud se lo menavano a vicenda.
Brian è un soldato con una missione e, a giudicare dalle sventagliate di sguardi che lancia in giro, sembra non ne sia mai uscito. Mi squadra da dietro una mascella scolpita, tempestata da una barba che gli cresce sull’attenti come il bambù; la zazzera castana gli cade ribelle sulle spalle e la lingua torna sempre a battere sul buco della gengiva, che una volta ospitava un incisivo. Odora di cherosene; tra lui e il vietnamita è una gara a chi è più lercio, o forse sono solo le lampadine mezze fulminate del locale a renderlo uno scimmione di Lao Cai.
Apre la bocca e la richiude. Ha il viso spianato come una pista d’atterraggio che non può nascondere niente. Possibile mi trovi così cambiato? Io stento a riconoscerlo. Non avesse raccontato di come aveva fatto il culo a quella checca di Newport sarei convinto di trovarmi davanti uno che si è fottuto la sua piastrina militare.
Silenzi. Siamo in imbarazzo. È difficile trovare un terreno comune di conversazione in un pub improvvisato quando l’unico vincolo che ci lega è il cielo e la violenza.
Arriva il cameriere con due boccali. Dovrei ringraziarlo per aver sciolto la tensione ma il suono della latta sul legno è sgradevole.
«Che è ‘sta roba?» La voce di Brian lo è ancora di più.
«Le birre?» il CHARLIE chiede soccorso con lo sguardo.
«Grazie tante, lo vedo da me.» Brian si passa una mano dietro al collo e scuote la testa «Che è ‘sto piscio? Abbiamo detto due birre, Beers, american beers, dentro bottiglie di vetro.»
Il cameriere si inchina tante volte da far concorrenza ai mercanti di Bac Ha.
«Lasciaci il tappo!» Gli strilla Brian appresso. «Questi vietnamiti non vedono l’ora di avvelenarci tutti.» Indica lo spaccio «Prendi questo posto. Era nato per mettere sotto uno stesso tetto liberatori e vietcong. Noi dovevamo farci belle crocerossine in mimetica con il grande cuore a stelle e strisce, e sparare stronzate tipo: “Siamo venuti a salvarvi e bla bla bla” e ingoiavamo il rospo buttando giù roba preparata da quelle dita unte.» Un sorrisetto beffardo gli rovina la geometria del viso «Poi c’è stato l’attentato all’hotel Bricks e tanti saluti alle manfrine dei politici. Ora c’è rimasto solo quel CHARLIE a occuparsi di tutto.»
Il derelitto con la tigna batte un piede a terra e spiaccica uno scarafaggio. Osserva la frittata sotto la suola, sputacchia una risatina catarrosa, e se ne va.
«Te la ricordi Ia Drang, John?» La voce di Brian mi coglie alla sprovvista e mi irrigidisco. Deve aver assistito alla performance del tizio; avrà visto l’orrore che ho rivisto io? Non penso mi legga nel pensiero. Non penso che Brian sia una cima a leggere. Eppure un uomo può cambiare nel momento stesso in cui smette di respirare la tua stessa aria. È un cazzo di frullato indigesto. Agli anni si sommano le ombre di ciò che saremmo dovuti essere e gli strati di pelo sullo stomaco sono l’unico palliativo per digerire questa merda senza vomitarci addosso.
È un attimo e mi fotto; farnetico sproloqui mentali e le quattro pareti di legno del locale vengono spazzate via dai tornado della memoria e mi ritrovo nella giungla; ci sono io a baciare il fango con le urla incomprensibili che fischiano assieme ai proiettili sopra al mio corpo. Il riflesso di una pozzanghera restituisce il volto di un mostro e solo quando sono al sicuro nella tenda da campo, sotto alle docce, mi mordo le mani sperando che nessuno si accorga che sto piangendo, perché ho riconosciuto la mia faccia in quel mostro, e avrei voluto abbandonarla in quella foresta di mangrovie, dove qualche muso giallo, provato dalla fame, poteva trovarla e mangiarla e invece mi resta cucita addosso come i gradi dell’uniforme che ho giurato di servire.
«… prendo le mie ali e me ne volo in cielo.» Brian conclude il discorso ad alta voce. Me lo sono perso completamente ma il tono è da “scacciata di fantasmi.” Annuisce al vuoto, alzando la birra in un brindisi. La mia aspetta di essere afferrata.
Ho la gola secca ma non riesco a muovere la mano. Voglio farlo ma sono paralizzato. Da quanto è lì?
«Sai cosa penso John? Che siamo fortunati. Fortunati cazzo.» Brian tracanna la birra e la soppesa «Ci spediscono ad alta quota, ci fanno portare le chiappe a migliaia di piedi così non sentiamo le fiamme, non sentiamo le grida.» Un altro lungo sorso e la finisce. Rutta sommesso. Poggia la bottiglia sul tavolo e inizia a staccare l’etichetta con la fronte aggrottata per l’impegno. Se non sapessi chi è, giurerei sia un pittore con la sua tela e il suo paesaggio. Senza sollevare il grugno sospira a voce bassa «Oddio, vorrei tanto essere un cameriere o qualcun altro.» Si riattacca alla bottiglia ma beve solo il suo fiato «Sa di palude.» La scaglia per terra e alcune schegge di vetro si incollano al cadavere dello scarafaggio. «Vorrei tanto essere nato vecchio.»
Vedere Brian devastato, mi aiuta. Scolo la mia birra per rimettermi in pari e poggio i gomiti sul tavolo. «Già» confermo giusto per ricordare che suono ha la mia voce. «Altro giro?»
Brian alza le spalle «Sì, dai. Facciamocene un’altra. Ehi sgorbio, portaci due birre e vieni a pulire il casino.»
L’alcol gli scioglie la lingua; è un piacere ascoltarlo dissertare sulle differenti vibrazioni della cisterna di un Boeing B-52 in volo nei cieli statunitensi o di Nanchino, degli ultimi colori che rimarrebbero impressi a un cieco dopo un rendez-vous con il fosforo bianco. Brian ripesca gli encomi alle esercitazioni fisiche, l’odore delle puttane che pagavamo con le collette delle nostre magre paghe di cadetti. Di colpo sbotta «Com’è che si chiama quella checca di Newport?»
Rifletto un attimo: «Checca di Newport.»
Brian sghignazza. «Holy shit! Chissà cosa ne penserebbe di noi Rottinculo Newport se ci trovasse qui.»
«In che senso?»
«In che senso? Andiamo John, ci siamo scambiati le parti. Eri tu quello che starnazzava tutto il tempo. La Checca una volta mi ha spifferato che te lo voleva ficcare in bocca, così godeva e ti azzittiva! Due piccioni con una fava.» Punta il cavallo dei miei pantaloni «Fava piuttosto piccola dai ricordi nelle docce.»
Ha il viso spianato che non può nascondere niente «Balle.»
Sbuffa: «Ok me lo sono inventato. Però ci scommetto le palle che l’avrà pensato un centinaio di volte. Ti ricordi quando lo pestavamo e lui per proteggersi i coglioni si piegava e ci offriva il culo? Era più forte di lui!» Scuote la testa e mi fissa. Pone una domanda inespressa a cui non voglio soccombere e gli do in pasto un’altra risposta: «L’ho capito che mentivi perché Checca non si è mai avvicinato a te o l’avresti riempito di botte.»
Stavolta Brian ride della grossa. È pronto a un nuovo brindisi «Al ciccione gallese. Che il colera se lo porti.» Brian inclina il polso da bevitore di alcolici dozzinali, dubito abbia stretto altro, oltre a bottiglie di vetro, il suo cazzo e la cloche di un Republic F-105 Thunderchief.
Torna a fissare il vuoto. Stiamo giocando a chi la nasconde più grossa.
«C’è un motivo se ti ho chiesto di vederci» tentenna «Mi sono fatto la donna.»
Ho praticamente già vinto «Oh! Beh complimenti Brian, hai trovato quella giusta, sono contento per te.»
«Naah. Ho trovato la prima che è rimasta senza che le dovessi sparare alle gambe. Ha gli occhi a mandorla, mi arriva alle spalle e ha la fica strettissima.»
«Te la sei trovata “gialla.” Abbiamo gusti diversi.»
Brian finge di non aver sentito «Tu!» sbraita al cameriere appena lo scorge «Vieni qui» e zompettando, quello si avvicina. Si ferma a due metri dal tavolo. «Sai cosa sono i fondi federali?» Brian struscia indice e pollice di fronte al muso giallo «Sono il motivo per cui quando vai al cesso caghi merda e non l’anima.»
Il tuttofare avrà capito sì e no due parole. «Toilette?» indica timoroso la parete est con dietro la fossa biologica.
Brian si alza di scatto. Potrebbe mangiargli in testa. «Rum?» Ci metto un po’ a capire che ce l’ha con me. È rimasto imbalsamato a fissare il vietcong.
«Va bene.» Lo rassicuro «Brian siediti.» Due commilitoni hanno lasciato i bicchieri a metà e imboccato l’uscita laterale. Siamo rimasti noi tre.
«Rum.» Stavolta la voce è stentorea e diretta al vietnamita.
Il muso giallo sbianca «Mi spiace l’abbiamo terminato.»
Cristo santo. Ora lo uccide. Dovrei fermarlo ma sono curioso di vedere dopo due anni di congedo forzato se il colore del sangue è sempre lo stesso e resto fermo.
Brian tira su col naso e scaracchia un lobo di catarro a terra. Gira il collo e mi inquadra con i suoi occhi da dieci decimi: «Lo sai, una delle prime volte che bazzicavo in questa topaia ho pestato questo ragazzo. L’ho pestato e lui zitto, ha incassato neanche fosse un sacco da boxe.» Sale sul tavolo con gli scarponi, scende e abbraccia il vietnamita che, per lo spavento, lascia cadere penna e taccuino. «Sei un soldato! Fai il tuo dovere.» Gli assesta due pacche sulle spalle tanto da piegarlo a libretto. «Come ti chiami?»
«Kim Phúc.»
«Ma fa schifo! Che ne dici di Stecchetta? Mi ricordi le partite a biliardo quando per divertimi bastava spedire le palle in buca.»
«Checchetta?» Gli fa eco Stecchetta.
Brian è con le lacrime agli occhi. «È stupendo! Come fai ad ammazzarlo? Portaci del liquore, non mi frega se lo devi distillare ora dal riso, basta che lo porti.»
Brian è uguale ai pupazzetti a sorpresa che ci regalavano da piccoli. Ti aspetti che la scatola contenga un regalo e invece scatta una molla con sopra un pagliaccetto che vuole saltarti alla gola però non ci arriva e si affloscia. Alla fine Brian, senza le tonnellate di metallo e le molle a propulsione del suo aereo, è una mammoletta. È poca cosa.
Stecchetta ha preso alla lettera Brian e ci ha portato un distillato di riso dal nome impronunciabile. Siamo al terzo bicchiere. È peggio della birra ma dà tepore. Dopo averci servito per l’ennesima volta è tornato a raccogliere il taccuino e la penna e a dare una spazzata a terra.
Brian, dopo un resoconto dei dispacci sul fronte della Linea McNamara, torna alla carica: «L’hai rifatto l’esame di abilitazione?»
Mento e svio: «Sì, a breve usciranno i risultati. Non mi stavi parlando della tua donna? Come hai detto che si chiama?»
«Ah sì… non ce l’ho più la donna.» La fiata alcolica di Brian mi raggiunge con il suo olezzo. «Si è incazzata quando ho provata a ingravidarla.»
Ho un moto di ribrezzo. «Perché ‘sta stronzata?»
«Non lo so. Che poi manco ci rimaneva incinta, la cagna.» Brian ghigna per un attimo e poi è di nuovo affranto.
Spernacchio con le labbra «Compensi.»
«Uhm?» È attento, quasi entusiasta. Sembra a suo agio nel sentirmi nei panni del vecchio John.
«Ti lavi la coscienza. Ti sganci dalle responsabilità per prenderne altre.»
«Tu sono anni che non sganci un cazzo.»
Subisco il colpo ma l’alcol mi sostiene e continuo: «Pensaci. Secchiate e secchiate di acido naftenico e acido palmitico non potranno mai competere con i miliardi di spermatozoi che ci circolano nei coglioni. Quando li sganciamo, riversiamo un oceano di futuro e quel futuro non spetta a molti, spetta a un’unica vita. Pensaci. Premi un tasto e ciò che è non è più; ma quanta soddisfazione dà sparare dentro un cazzo, e ciò che non esisteva, ora è?» respiro «Certo, con tante disperate proprio un’itterica dalla nascita ti vai a scegliere? Per fortuna che spari a salve.»
Brian ha il volto contratto: «Ci hai sempre incasinato il cervello coi tuoi discorsi al poligono. Non so che cazzo dicevi allora e cosa cazzo vuoi dirmi adesso, so soltanto che questa guerra non ha fine. Spuntano CHARLIE ovunque e mi sono detto “Ora gliela annacquo, basta fargli sfornare CHARLIE, voglio un James Dean con le bacchette in questo buco dimenticato da Dio.» Non aspetta una mia difesa: «Lo sai perché li chiamano bombardamenti a tappeto?»
«No.»
Brian è orgoglioso di conoscere qualcosa che pensa io non conosca: «Perché dopo che ci sei passato sopra col napalm, se mantieni la visuale dall’alto senza perdere quota e apri la carlinga, sotto di te, al posto di troia natura, c’è un cazzo di tappeto persiano grande quanto uno stadio di football, con tutti i disegnini compresi nel pacchetto regalo.»
Rido nonostante voglia spaccare la sedia. Rido fingendomi un civile che conosce i drammi solo “per sentito dire” e non li ha mai vissuti sulla sua pelle. Rido nonostante sapessi la risposta, perché la freddura l’ho inventata io.
Mi guardo attorno. Panche vuote. Il juke-box tace. Gli ultimi rimasti a farsi una bevuta sono i tafani e le zanzare.
Brian mi afferra per il collo da dietro e mi sussurra: «Raccontami di Ia Drang, Jhonny-boy. Il nome in codice dell’operazione era “Silver Bayonet.”»
«E levati dal cazzo!» Gli assesto una gomitata e molla la presa.
«Li pagano pure certi pezzi di merda per inventare quei nomi fottuti? Baionetta? Cristo sono rimasti in Normandia.» Con la punta dello stivale smuove lo scarafaggio. Stecchetta deve averlo lasciato lì apposta. «Ci assomiglia e non ci assomiglia, manca qualcosa.» Batte due dita sul mento poi estrae uno Zippo, si inginocchia e lo scoperchia. Sfrega con il pollice la rondella e una fiammella tenue tra l’azzurro puro e il rosso acceso illumina i resti dell’insetto a mezzo piede dalle assi di legno. L’avvicina delicatamente neanche dovesse caramellare un dolce. Il carapace sfrigola e spuntano bolle e fumo «Ecco. Adesso ci siamo.»
Sono stanco. «Perché hai voluto vedermi?»
Brian mostra i denti superstiti: «Ho spennato uno a poker tempo fa. È un addetto alle comunicazioni e mi passa roba di prima mano.»
«Quindi non è stata una rimpatriata.»
«Direi più un favore.» Si infila le mani in tasca e solo adesso mi accorgo che è ancora in divisa. «Sei famoso Johnny. Alla base ti chiamano il Cuoco, per quanti ne hai arrostiti.» Si mette a osservarmi manco fossi una bestia rara. «Cosa ti dice la testa, eh? Cosa ci vedi in loro?» Una mano lascia la tasca e sparisce dietro la schiena. Come in un trucco di magia dozzinale, è passata dallo stringere aria a stringere un coltello. «Non volerai mai più, John.» Ora capisco il coltello, capisco la distanza, capisco la necessità di parlarmi e tenermi sotto controllo. Io li ammazzo gli ambasciatori. «Ti troverò, Brian. Conosco il tanfo della tua brandina. Ti taglierò la gola e lascerò che a pagare sia un fottuto muso giallo.»
Se l’ho spaventato, non lo dà a vedere. «Il fuoco, John, ce l’hai nelle vene.» Mi lancia un segno d’intesa «Non lo capisci? Siamo dalla stessa parte.» Con un gesto secco appunta il coltello su una trave di legno. «Ecco la tua baionetta.» La lama oscilla leggermente, l’acciaio riluce sotto le lampadine. «Il massacro che hai compiuto a Ia Drang possono insabbiarlo, ma nella tua ultima rissa hai fatto secco il figlio di uno che conta, a cui i CHARLIE danno retta. Ti aspetta la corte marziale. Oppure…» Brian arretra lentamente, continuando a fronteggiarmi «Oh John! Quel massacro è motivo di vanto tra le brigate e nella mia, dopo che suonano il silenzio, in tanti bisbigliamo e ci scazzottiamo perché ognuno di noi ha il suo numero preferito su quanti ne hai incendiati, sbattendotene di gradi e regole.» Ha lo sguardo fiero ed esaltato come se le avesse sganciate lui le bombe «Domattina presentati dal generale Drammond. È in cerca di disperati. Ti trasferiranno. Dove non lo so, ma uscirai dai radar. Puoi metterglielo al culo ai giudici e al procuratore» esegue il saluto militare «Volevo essere io a dirtelo.» Poco prima di essere inghiottito dalle mangrovie, strilla: «Continuiamo a cuocerli.» Usa il noi sapendo che non ha i coglioni per farlo.
Nei momenti difficili, quando sorvolavo una tempesta, o finivo paracadutato nelle linee nemiche, riducevo il mio campo d’azione a poche semplici parole, a cui aggrapparmi. Erano il mio credo. Le uniche che potessero avere un significato. Tra le tante, inutili, circolate in questa notte, le più importanti sono state quelle inespresse:
Volerò di nuovo.
Bye bye Saigon.
E quelle lasciate in eredità da Brian:
Ia Drang.
La tua baionetta.
Quando chiamo Stecchetta con in dote la proposta da buon samaritano di aiutarlo a riordinare, eseguo a mia volta un trucco di magia e l’acciaio del coltello sguscia sotto la maglia a contatto con la schiena. È fredda la sensazione che invade la mia pelle, così distante dal calore delle bombe eppure foriera anch’essa di morte, perché la fine potrà avere molteplici sfaccettature ma il silenzio dell’ultimo istante – non importa se sorvolo o corro in una cazzo di giungla o quartiere malfamato – è sempre assordante. Faccio inginocchiare il Vietcong schifoso, con la scusa di raschiare via lo scarafaggio e gli piazzo il filo della lama parallelo all’orecchio, talmente vicino da tranciarglielo se solo starnutisce. È la sua spada di Damocle. No. È la mia e gliela cedo volentieri con annessi carichi di peccati e di pretese; io posso ancora spiccare il volo ma devo liberarmi da ogni zavorra. Stecchetta è piegato e lavora inutilmente di gomiti nel pulire le travi lerce, non lo sa ancora ma il nostro è un duetto musicale: la spazzola raschia e il mio cuore pompa sangue cannibale bramoso di vedere sprizzare altro sangue, io non posso non accontentarlo e calo il coltello. La spazzola, il secchio e l’orecchio cadono come corpi scomposti dopo un bombardamento a tappeto mentre Stecchetta lancia uno squittio portandosi la mano al foro vicino alla tempia; il suo volto è l’immagine dell’incredulità, lo sguardo che mi rivolge è un misto di supplica e vergogna.
Incalzo «Ti dice niente Damocle, eh?»
Un farfugliare incomprensibile seguito da uno scalciare di piedi la sua unica risposta.
«Beh…» ruoto braccio, polso e mano e il coltello sgocciola in una danza cremisi «Neanche io so chi cazzo era, però ho un coltello, tu che hai Kim? Come? Lo vuoi? E allora prendilo è tuo.» Lo lancio e si conficca a un palmo dai testicoli, Stecchetta sobbalza e scatta all’indietro urtando con la nuca sul tavolo, il contraccolpo lo manda a impattare con lo zigomo sullo spigolo della sedia. Ha la fortuna di svenire e la sua privazione di sensi priva me dell’impulso omicida.
Alla fine, il sangue, i rantoli, le macchie, gli insetti e il mondo sono gli stessi di due anni fa. Prima di buttare il muso giallo in mezzo ai suoi parenti nella fossa biologica, lo lascio dissanguare in una pozza. Mi allontano, senza darle il tempo di farmi scorgere il mostro.
La radio a transistor gracchia le notizie dalla civiltà. La brandina cigola sotto il mio peso, scarponi sull’acciottolato marciano cadenzando un andirivieni trito e ritrito, odore stantio d’umanità mischiato a quello delle bestie. Sprimaccio il cuscino con naso e mento, tiro su la coperta e assieme alla mia faccia la natura fagocita ogni possibilità di progresso senza bisogno che apra gli occhi, però li apro lo stesso. I ricami del tessuto creano un velo su quanto mi circonda. È una tela fitta di censure che casca a pezzi, sfilacciata dal troppo utilizzo. Chissà se Stecchetta è ancora in posizione orizzontale. Riuscirà ad alzarsi o verrà gettato in una fossa comune? Forse parleranno di aggressione, forse di omicidio, quando si tratta del mio commiato anonimo a una nazione che puzza e continuerà a puzzare indipendentemente da quanto napalm potremo mai spargerle addosso. Mentre sfido l’alba che sorge sull’eliporto, il vento artificiale, generato dall’elica in rotazione del Cessna, sferza gli alberi di cera ai margini dell’accampamento, la mimetica impeccabile e il mio volto sbarbato di fresco. Sacca in spalla, saluto di sfuggita il pilota, gli occhiali a specchio s’impegnano a nascondere la sua natura da disperato, ma con me è dura, io riesco a fiutarla perfino sottovento. Comunque sono dei gran begli occhiali. Dovrò procurarmene un paio. Le eliche si avviano sospendendo un blocco di metallo che gli ignoranti chiamano aereo e io chiamo miracolo. Le ruote si staccano dalla pista e fremo dalla testa ai piedi per la magia a cui posso di nuovo assistere. Distanziamo il suolo e ci avviciniamo alle stelle, Il finestrino sotto di noi inquadra il fiume Mekong. È un velo di nebbia che rimpiazza la strada, ma io sono troppo impegnato a perdermi negli strali del cielo.
Copertina di Gianmarco De Chiara
Ottimo racconto. Dopo le prime descrizioni, che non facilitano il lettore come d’abitudine per l’autore, il locale malfamato, lurido e decadente prende vita e immerge il lettore in quel mondo fuori dal mondo in cui si muovono i personaggi.
Brian, benché non sia il protagonista, viene inquadrato meglio. Il “cuoco” è invece più sfocato; dobbiamo vederlo attraverso i serafici pensieri che anticipano le sue battute ed il suo io viene fuori nell’ultima parte del testo.
Personalmente avrei spinto di più su alcuni momenti chiave, come quando Bian “abbraccia” il cameriere terrorizzato, mantenendo alta la tensione, mentre avrei sorvolato sulla prima parte del colloquio, rendendola più incisiva, in quanto a mio parere si può raggiungere il clou con più efficacia.
Quando il testo arriva al fulcro, comunque, si gode appieno del racconto.
Complimenti!
Disamina che abbraccia (per fortuna, non come Brian) e affronta la totalità del racconto, mostrandomi aspetti che solo un lettore pedissequo e affezionato è in grado di esprimere.
Grazie!