Topo di biblioteca

Topo di biblioteca

I denti opachi della professoressa Guidi si notavano appena. Anche quando parlava, la professoressa dischiudeva le labbra sottili lasciando solamente un taglio avaro alla fuga delle parole. I denti dell’anziana madre, la maestra Maltoni vedova Guidi, piccoli, scuri, staccati l’uno dall’altro, si intravedevano di rado, nascosti com’erano dietro la cicatrice della bocca verso cui convergevano rughe profonde.
L’appartamento della maestra, con i suoi mobili austeri e i quadri dalle pesanti cornici dorate, aveva intimorito Marco, ma l’odore di stantio e di chiuso cancellò la sua deferenza. Messo a disagio dall’anziana maestra che non aveva risposto al suo saluto affettato (è un po’ sorda, gli aveva spiegato la figlia), Marco si era entusiasmato alla promessa di una ricca biblioteca, come un bimbo davanti ai regali delle feste ancora da scartare. Che delusione però quando vide le vecchie edizioni polverose, dalle rilegature tarmate, di Ettore Fieramosca, Le mie prigioni, Fra gli Abissini: Ricordi di un prigioniero nel Tigrè e i libri per ragazzi Cuore, Avventure di un birichino di Parigi attraverso l’Oceania, Storia dei Mille narrata ai giovinetti. Cibo per topi e insetti, pensò. Conosceva vagamente solo alcuni di quegli autori, da qui la sua preoccupazione: cosa avrebbe potuto leggere per due volte alla settimana alla vecchia, se quelli erano i suoi gusti?
La visita si concluse con un accordo per un incontro di prova due giorni dopo. La professoressa gli spiegò che sua madre si intestardiva a volerlo pagare di persona con i soldi della pensione (lo faceva pure con la badante), anche se non riconosceva gli euro. Inoltre, la badante sarebbe rimasta in casa, a disposizione se avesse avuto bisogno di qualcosa. Marco fu molto soddisfatto di questa soluzione: se la vecchia se la faceva addosso o fosse stata male, lui non avrebbe saputo che fare.
“Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre…” cominciò a leggere Marco, ma dovette ripetere e scandire più lentamente la frase una seconda volta perché la maestra, più sorda di quanto pensasse, non afferrava le parole.
I promessi sposi gli erano sembrati una scelta sicura, anche se non aveva più aperto il romanzo dal liceo. Aveva saltato l’introduzione, troppo complicata, e la descrizione iniziale, troppo lunga.
“Quando rimasi vedova” lo interruppe la maestra, “Don Franco mi domandò: Perché non si risposa? È ancora giovane.” Marco fece un sorriso di circostanza e riprese a leggere.
“…curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non…”
“Ma non sapeva cosa avevo passato con mio marito!” lo interruppe di nuovo. “Un topo di biblioteca…”
Tra pause continue, era arrivato alla fine dell’ora solo a: “… si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi”. Era terminato l’incontro di lettura. Primo e ultimo, aveva già deciso Marco. Ora doveva solo ricevere i suoi quindici euro. Ci volle un po’ di tempo per farle capire quello che voleva, ma alla fine la maestra estrasse da sotto lo scialle un portafoglio logoro di pelle nera e gli porse una banconota da cinquanta euro. Non ho il resto, pensò seccato Marco, mi tocca pure ritornare per portarglielo.
“Ecco le sue diecimila lire” disse la donna con gravità. Marco la guardò sorpreso come se stesse scherzando, ma afferrò la banconota, accartocciandola dentro il pugno che portò alla tasca.
“Grazie, signora Maltoni” disse scrutandola in volto per scoprire se ci fosse qualche trucco, se volesse metterlo alla prova. La donna non aggiunse altro.
Si chiese se avesse fatto bene. La vecchia è ricca, pensò, a lei non servono i soldi, a me invece sì. E se la figlia se ne accorge? Io non ne so nulla. E poi c’è anche la badante, come fa a dire che sono stato proprio io a prenderglieli?
Uscì tutto eccitato dalla casa, mettendosi a ridacchiare fra sé e sé. Stava quasi per darle il resto. Che idiota! Con il malloppo fece una capatina in libreria. Le copertine ruvide di vergatina pesante e i dorsi azzurri, gialli, arancione delle collane allineate in bell’ordine gli sembravano giocattoli luccicanti. L’unica scocciatura era decidere cosa comprare.

***

…nel modellino di fattoria disposto sul davanzale profondo della finestra figuravano gli animali consueti, ma tutti rivolti in un’unica direzione – quella della loro proprietaria -, quasi che fossero sul punto di levare un canto; perfino le galline erano sistemate rigorosamente in cerchio.

Stava leggendo avvolto da quel cosmo narrato, come quando da ragazzino si inoltrava nella giungla al seguito di Kammamuri e del suo padrone Tremal-Naik, sordo ai richiami della mamma per la cena.
“È il libro di McEwan che preferisco.” Una voce irruppe nel suo universo e lo trasportò con stupore nella libreria. La commessa gli stava sorridendo.
“Allora lo prendo!” rispose, aggiungendolo agli altri libri che teneva in mano. Un Bellow, un Manchette, un Conrad e un Fenoglio.
Tre giorni dopo ritornò dalla maestra. Aveva telefonato alla figlia per dirle che accettava l’incarico e anche per capire se avesse scoperto qualcosa. Tutto a posto. Fissò un altro incontro.
Appena arrivato, già sul portone di casa, la badante gli chiese se poteva uscire un attimo a pagare una bolletta scaduta.
“Va bene” acconsentì, “ma alle cinque devo proprio andare, ho un appuntamento importante.” Mentì perché non se ne approfittasse. Dopotutto le sto facendo un favore, pensò, dovrebbe rimanere in casa quando ci sono io. La lettura non andò meglio. Per quasi tutto il tempo rimase ad ascoltare la donna che ripeteva le stesse frasi sul suo matrimonio, lamentandosi del marito bravo solo a leggere. Decise di smettere dieci minuti prima.
L’anziana maestra estrasse il portafoglio e cercò di aprirlo senza riuscirci. Dopo alcuni tentativi, Marco le chiese spazientito se poteva aiutarla. La donna sembrava riluttante, ma alla fine cedette. Il portafoglio conteneva varie banconote da cinquanta euro, da venti e una da dieci. Meglio che non prenda un’altra banconota da cinquanta, rifletté, una da venti è meno rischioso. Alla fine tolse una banconota da venti e quella da dieci. Restituì il portafoglio e sorrise sfrontato.
“Ecco fatto. Grazie mille, signora maestra.”
Controllò l’orologio: la badante era in ritardo. Attese altri cinque minuti rimanendo seduto in silenzio davanti alla donna che guardava nel vuoto, poi si alzò indispettito. L’aveva avvertita di arrivare puntuale. Andò in cucina, dove il piano del tavolo di fòrmica azzurra era rigato dall’uso e i pomoli dei cassetti scoloriti. Spalancò il frigo: tra i barattoli con etichette in una lingua sconosciuta (della badante probabilmente) vide una coca. L’aprì e si mise a gironzolare per la casa sorseggiandola.
Entrò in quella che dall’odore denso di vecchiume doveva essere la stanza della maestra. Sopra il cassettone, dentro cornici annerite, figurine stinte di bambini in grembiule, giacche e pantaloni corti, divise da balilla, lo guardavano mute e compassate. Riconobbe in alcune foto di gruppo la giovane maestra seduta al centro della classe. Vicino al letto, in una piccola cornice ovale di legno, era fissata nei sali d’argento una bambina (la professoressa?) che stringeva in braccio un gatto pezzato. Sul comodino, una busta di plastica rigonfia di vecchi fogli a righe, con correzioni in matita rossa e Bravo sottolineato. Lesse il primo tema.

Diario. Io quest’anno avrei piacere di essere promoso per l’ultimo anno che vengo. Se questo anno sono promoso posso ringrasiare bene la signora maestra che per me è stata gentile e premurosa. A me dispiace lasciare la scuola per la signora maestra che è stata buona con me; a me dispiace anche per i compagni, ma con quelli ci troviamo anche alla domenica. Io tutto il tempo di scuola non sono stato buono, ma la signora maestra mi perdonava quasi sempre e anche per questo penso bene ringrasiarla.

Accanto alla busta c’era una lucida penna stilografica, il genere di regalo degli alunni per fine anno. Gli piaceva. Crederanno l’abbia persa, pensò Marco, e se la mise in tasca. Ma che ora era? Era quasi trascorsa mezz’ora. Ingollò l’ultimo sorso di coca e si diresse verso la cucina. Dalla finestra vide giù in strada la badante che salutava con un bacio un uomo, poi entrava in fretta dal portone del condominio. Che stronza, si disse, andando in cucina a seppellire la lattina sotto la spazzatura. Quando la badante entrò in casa e si scusò del ritardo (c’era una lunga coda in posta, fu la giustificazione), bofonchiò che non importava e scese di corsa le scale.

***

Dopo quattro squilli Marco rispose al telefono. Era la professoressa.
“Buonasera signor Marco. Mi dispiace, ma devo disdire l’appuntamento di domani con mia madre… No, nessun problema, anzi era felicissima che qualcuno le leggesse dei libri. La mamma è mancata ieri… Grazie. Era già avanti negli anni, ormai ero preparata… Grazie ancora. Volevo anche dirle che, visto che lei sembrava interessato ai libri di mia madre, può venire a prenderne quanti ne vuole… Non si faccia riguardo, mi fa piacere che qualcuno li possa leggere. Vuole venire giovedì?… Allora facciamo venerdì, alle cinque, ci sono gli operai che smontano i mobili… Buonasera.”
Marco aveva pronunciato “condoglianze” a bassa voce, rapidamente, come per far sparire quella parola che gli suonava falsa. Se dire “condoglianze” significava esprimere la propria partecipazione al dolore per un lutto, lui non aveva provato nessuna partecipazione, non aveva provato nulla. Sospettava inoltre che la figlia volesse solo disfarsi dei libri ammuffiti della madre, ma non aveva trovato una scusa pronta per non andare. Avrebbe dovuto telefonarle per disdire l’appuntamento, tuttavia si vergognava di infastidire qualcuno in lutto. Passò due giorni arrovellandosi se dovesse telefonare oppure se potesse fare a meno di presentarsi: non credeva che in quel caso la professoressa l’avrebbe richiamato. Infine andò.
Gli operai stavano rimuovendo i mobili, sulla carta da parati erano visibili le chiazze chiare dei quadri tolti. La libreria doveva ancora essere smontata, per terra erano già pronti degli scatoloni vuoti. Un operaio lo informò che la signora professoressa gli aveva detto che poteva portarsi via quello che voleva. Tanto, aggiunse, quello che rimaneva l’avrebbero gettato nella spazzatura. Poteva fare con comodo, ci avrebbero messo un po’ per smontare la cucina. Mentre Marco rovistava poco convinto, un libro cadde aprendosi sul pavimento. Si chinò per raccoglierlo, ma di scatto balzò all’indietro schifato.
Dall’ombra dietro un mobile era sbucata una pantegana che, oscillando, avanzò dritta verso di lui. Marco arretrò altri due passi, disgustato e più di tutto spaventato che la bestia potesse arrampicarsi sulle sue gambe e magari intrufolarsi nei pantaloni o sotto la camicia. Ma il topaccio si fermò davanti al libro, lo annusò e si sollevò sulle zampe posteriori. Un occhio, una minuscola biglia di vetro nero, scrutò Marco, poi fissò la pagina. Mostrando gli aguzzi incisivi giallastri, lesse con voce stridula, come di gesso sulla lavagna.
“Noi non ci siamo mai amati, quand’eri viva, lo sai bene. Abbiamo fatto finta, tutti e due.”

*****

Le citazioni in corsivo nel testo sono tratte rispettivamente da: Alessandro Manzoni, I promessi sposi; Ian McEwan, Espiazione; Danilo Gasparini, a cura di, “Mi piace tanto le erbe cotte…” Cronache, pensierini, dettati di bambini poveri e contenti, Miane 1928-1947; Georges Simenon, Lettera a mia madre.

Prima pubblicazione, con menzione, nell’antologia del concorso letterario “Incontri in biblioteca” Leggendo con tanta intensità che…, Casa Editrice Stylos, Aosta, 2005, pp. 35-42.
Ringrazio la Casa Editrice Stylos per aver gentilmente concesso la ripubblicazione del racconto, che ho lievemente modificato.

Copertina originale di Francesca Galli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *