Tocco d’artista

Tocco d’artista

Racconto di Valeria Micale

Non fosse stato per le tre letterine che precedevano il suo nome, Verena Sangalli non avrebbe mai sposato Augusto Delpin. Paffuto come un bambolotto, capelli esili e radi, ginocchio valgo che i migliori ortopedici non erano riusciti a correggere, tutto, nel suo aspetto, sembrava congegnato per suscitare il riso o la pietà. Ma c’erano quelle tre letterine sul biglietto da visita che lui le porse, chiedendo che gli venisse recapitata a casa la mezza dozzina di pigiami appena ordinati, e fu su quelle che lo sguardo di Verena Sangalli si posò: ing, ingegnere. Laurea predestinata, la sua, per perpetuare la tradizione dei maschi di famiglia, che gli aveva garantito l’ingresso (comprato, si diceva) in un prestigioso studio cittadino e gli garantì pure il matrimonio. La sposa, figlia di un grossista di biancheria, otteneva, in cambio, il lasciapassare per frequentare i migliori salotti della città.
A dispetto dei malevoli, la Sangalli si era rivelata una brava moglie e un’ottima padrona di casa, oculata nella gestione delle finanze e abile nel figurare in società. Delpin le aveva delegato volentieri il ruolo di capofamiglia, riservando a sé quello di cavalier servente. Malgrado la modesta istruzione – si diceva avesse il diploma di ragioniera – la Sangalli non sfigurava al suo fianco, anzi, sembrava che l’università l’avesse fatta lei, tanto era edotta in ogni argomento e forbita nel parlare. Quanto a lui, chi poteva sapere se fosse un genio o un idiota, dal momento che non apriva bocca? Si limitava ad annuire a chiunque gli rivolgesse la parola, lasciando l’impressione di essere totalmente d’accordo con l’interlocutore. Ogni pomeriggio faceva capolino nel salotto di casa dove le signore giocavano a canasta, le riveriva con un cenno del capo e si accomodava nella poltrona di pelle a fumare la pipa mentre quelle litigavano per una pinella. Non potendolo lodare per l’intelletto, lo lodavano per l’eleganza: impeccabile anche nelle estati più torride nella camicia di lino immacolata, così come nei cachemire pastello d’inverno. I mocassini di capretto facevano quasi dimenticare i piedi piatti che li calzavano.
Avevano raggiunto la settantina così, lui silenzioso e accondiscendente, lei autoritaria quel tanto che bastava a evitargli il supplizio delle decisioni e la responsabilità delle scelte. L’ictus cambiò le cose. Va detto che tutto ciò di cui Delpin si occupava non necessitava di movimento. Quanto alla parola, la riacquistò quasi subito per non farne che un uso modesto. Ma adesso si spostava sulla sedia a rotelle e le rigature sul parquet non se ne andavano neanche con la cera. Era sempre stato un oggetto superfluo, come certi utensili da cucina dimenticati nel fondo di un cassetto, ma ora era diventato un peso e qualche volta alla Sangalli saltavano i nervi. Per fortuna si era appassionato all’elettronica e trascorreva ore in un camerino che aveva adibito a laboratorio e attrezzato di tutto punto, dove realizzava certe diavolerie di sua invenzione con l’estro di un vero artista e, all’occorrenza, aggiustava qualche piccolo elettrodomestico. Nel piccolo laboratorio, tra resistori e circuiti, dimenticava la sedia a rotelle e le lamentele di sua moglie giungevano attutite come gli annunci dell’altoparlante della stazione nelle giornate di scirocco. Solo la musica gli dava la stessa sensazione di beatitudine; quando non era in laboratorio, si rifugiava in salotto ad ascoltare vecchie incisioni di classica che conosceva a memoria.
La malattia dell’ingegnere aveva trasformato in ammirazione quel misto di invidia e diffidenza che circondava la Sangalli. Nella disgrazia, divenne la beniamina delle amiche. Che moglie devota! Dedicarsi a un invalido, lei che avrebbe avuto ancora la forza di mangiarsi il mondo. Quando comunicò che aveva deciso di ristrutturare il bagno per adeguarlo alle mutate esigenze del marito, nessuna sospettò che fosse l’occasione per realizzare ciò che da tempo, in realtà, desiderava: un bagno di lusso. Non sopportava più il marrone dei vecchi sanitari venato da strie di calcare, le piastrelle fuori moda, la vasca, inutilizzata a scapito della più pratica doccia nel bagnetto di servizio: tutto scomodo, datato. Voleva un bagno moderno e funzionale: il lavabo sul mensolone di legno, i sanitari sospesi, lo specchio con la cornice illuminata a faretti come quello dei camerini degli attori e una doccia emozionale grande quanto l’intera parete, con idromassaggio, sauna e cromoterapia. Manie di grandezza, forse, ma accompagnate da un’oculata disamina delle soluzioni più convenienti, dalla febbrile consultazione di siti internet dove acquistare a un terzo del prezzo gli arredi visti in negozio e da una stringente contrattazione con l’impresa per ottenere uno sconto sui lavori. Non per niente era nata bottegaia. Unica concessione: l’architetto, ma solo per vantarsene con le amiche. Non si sarebbe certo lasciata influenzare dai gusti di un frocio con la sciarpina di seta. L’ingegnere non ebbe voce in capitolo. La Sangalli lo consultò solo per valutare le caratteristiche tecniche degli impianti, riservando a sé la scelta di marmi, piastrelle e laminati. La casa fu invasa da riviste di arredamento, campionari, planimetrie. Quando i lavori finalmente iniziarono, Delpin benedisse il martello a percussione che lo liberava dall’incessante ciarlare della moglie.

***

Uno spesso strato di polvere aveva ricoperto la casa; la si ritrovava persino nei piatti e sotto i denti e sembrava si impastasse col cibo, conferendo a ogni pietanza un gusto di calce. La carrozzina avanzava con difficoltà sui cartoni stesi a protezione del pavimento; le ruote ci si impuntavano e procuravano degli squarci che la Sangalli si affrettava a chiudere con strisce di nastro adesivo. L’ingegnere udì provenire dal bagno la sua voce che apostrofava gli operai, intenti nell’ultima e delicatissima operazione, il montaggio della cabina doccia: «Più in qua», «Attenti!», «Non così!». Santi, ad averla sopportata per due mesi senza mai perdere la pazienza e lasciarsi scappare una parola di troppo. Aveva avuto da ridire su tutto e cambiato idea continuamente, aveva litigato con l’architetto e minacciato di fare causa all’impresa. E naturalmente lo aveva diffidato dall’intromettersi. Lui le aveva obbedito, come sempre.
Delpin si fermò sulla porta. Gli operai stavano incardinando le due ante mobili a quelle laterali, fisse. Ne regolarono l’altezza di modo che cadessero perfettamente a filo, quindi procedettero alla verifica del movimento: i cuscinetti a sfera scorrevano sui binari di alluminio emettendo un fruscio appena percettibile. La Sangalli era ammutolita. Oltre la barriera di vetro temperato, lo sfavillante soffione ultraslim dischiudeva la meraviglia delle sue quattro luci a led e il pannello a colonna si ergeva come un totem promettendo, attraverso un sofisticato sistema di controllo touch screen, due velocità di idromassaggio, cromo e ozonoterapia.

***

L’ingegnere si era ritirato in salotto. Aveva avuto un bel daffare a studiare le schede tecniche della doccia, caricare gli iniettori, regolare la pressione degli idrogetti e delle pompe peristaltiche. Almeno in questo, lei si era fidata. Ora, tutto funzionava a puntino. Poteva rilassarsi sulle note della quinta di Mahler. Scelse l’incisione della New York Philharmonic diretta da Bruno Walter, azionò il giradischi e si accese la pipa.
Verena Sangalli riempì il dispenser col sapone alla mandorla e sistemò l’azalea sulla mensola. Tirò fuori dal cassetto l’accappatoio che aveva conservato per l’occasione; affondò la mano nella spugna color lavanda, percorse col polpastrello i fili dorati del monogramma. Ne aveva fatta, di strada, dalla biancheria venduta all’ingrosso. Accese le candele e sistemò le ciabatte nuove sul tappetino. Avrebbe iniziato col programma Tonic, seguito dal Flower e infine dal Relax, per immergersi in atmosfere notturne mediorientali che le avrebbero conciliato il sonno. Si spogliò evitando di guardare il corpo riflesso nello specchio, entrò nella doccia e sfiorò il touch screen. Gli idrogetti le colpirono i lombi, discesero verso i glutei e risalirono fino alle spalle, in un’alternanza di caldo e freddo che le risvegliò il microcircolo, sclerotizzato in sottili ramificazioni violacee. Il diffusore emise l’essenza di agrumi. Acqua e luce si mescolavano alle note aromatiche creando una sensazione inebriante. Si sentì rinvigorita. Quando le bocchette dell’idromassaggio si chiusero, dal soffione scaturì una pioggia di purissimo bianco. Il display segnalò l’aumento di temperatura. Chiuse gli occhi. Un odore dolciastro le solleticò le narici: sembrava frangipani, ma più pungente. L’aria si saturò di un vapore fitto e acre che le fece mancare il respiro e le annebbiò la vista. Cercò a tentoni il pannello di controllo. La temperatura continuava a salire. Esattamente otto minuti dopo, il display lampeggiò, segnalando il passaggio al programma Relax. Una cascata di luce violetta illuminò il corpo inerte accasciato sul piatto antigrip, su cui l’acqua continuava a scorrere.
In salotto, l’ingegner Delpin socchiuse gli occhi, rapito. Un sorriso ineffabile gli si disegnò sul viso. L’orchestra attaccò il terzo movimento, rondo-burleske.

Copertina originale di Marina Cerquetti

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Valeria Micale, biologa, è nata e vive a Messina. Suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste Bomarscé, Crack, Donne difettose, Malgrado le mosche, Micorrize, Pastrengo, Nazione Indiana e nell’antologia sul femminicidio “Caro maschio che mi uccidi” (Fusibilia Libri, 2019). Con il racconto “Una casalinga perfetta” ha vinto il Premio Letterario Zeno edizione 2020. Nel 2022 ha pubblicato la raccolta di racconti “Scirocco freddoso” (Edizioni Bette).

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