Devo arrendermi all’evidenza: il mio primo ricordo d’infanzia è farlocco. Dicono che la memoria adulta si formi intorno ai cinque anni, che di rado la mente conservi frammenti più remoti, legati a episodi segnanti. Eppure mi rivedo piccolissima, seduta di sbieco sul braccio forte e irsuto di mio padre. Saliamo i gradini ancora non ricoperti di marmo della casa nuova per entrare nel soggiorno dalle superfici grezze. Passiamo in cucina e – una prova ulteriore della falsità del ricordo – ci sono già i pensili ai muri.
La mente ha fabbricato il ricordo e ne ha fatto il primo in assoluto. Una sorta di sigla d’apertura del film della mia infanzia, indissolubilmente legato a quella casa.
Una banale villetta a schiera con garage e orticello, cucina in formica e mobili di compensato. Allora, cosa la rendeva speciale? Nessun trito ritornello sulla famiglia e sull’amore: ci sarebbero stati ovunque.
Diciamo che fu un felice incontro di inizi: una casa appena nata tra altre case appena nate, in un quartiere che cominciava a disegnarsi tra i campi e il nulla. Un universo in fieri tutto da esplorare: il terreno di gioco perfetto per chi aveva appena imparato a camminare.
Parafrasando il Fra la via Emilia e il West di Guccini, un angolo di città non ancora città, sospeso tra la via Emilia e il fiume. Un groviglio di argini, distese di pioppi e campi acquitrinosi che si meritarono a lungo il soprannome di “Paduli”.
Lì si costruiva per dare una casa ai tanti operai in provenienza dal Sud. I colleghi avevano tentato di dissuadere mio padre dal trasferirsi in zona, perché «Ci stanno solo maruchein (“terroni” per il razzista modenese medio) e zingari.» Obiezione che il suo rustico pragmatismo spazzò via con un: «E quindi? Mica verranno a pisciarmi in cortile.»
Nessuno ci pisciò in cortile, sia messo agli atti.
In una regione in trasformazione come l’Emilia di quegli anni, non erano solo i proletari ad avere bisogno di una casa, ma tutta una classe media appena nata, fatta di artigiani, di operai promossi quadri, di insegnanti e liberi professionisti. Tra campi incolti e strade appena asfaltate, spuntavano palazzoni popolari frammisti a ville, villette e palazzine eleganti. Alla loro ombra, anche i bambini crescevano frammisti. Tutti insieme, quelli delle belle case con giardino e quelli dei condomini popolari. Il figlio del farmacista e il nipote della bidella.
Giocavamo nei cortili – oggi il mio, domani il tuo – o direttamente in strada. Giocavamo a calcio, i marciapiedi sui due lati delimitavano le porte, con time-out forzati imposti dai passaggi delle rare auto. Giocavamo a versioni spurie di tennis e pallavolo, una squadra in strada e una in cortile, il cancello a fungere da rete, fino a quando lo smash di troppo sulle aiuole fiorite scatenava il furioso Adesso basta! di un genitore.
Uno qualunque, non per forza il tuo, perché si giocava apparentemente bradi e invece no. Anche quando, armati di pattini, bici o solo dei piedi, ci spostavamo in uno dei tanti prati che il quartiere offriva, a ogni sciocchezza che superasse la soglia invisibile di tolleranza, spuntava un adulto con la minaccia definitiva: «Lo dico a tua madre.»
Anonimi sconosciuti dimostravano di conoscere di noi nome, indirizzo e tutti i familiari fino alla terza generazione. Bande di ragazzini che si sentivano liberi come padani Tom Sawyer sottostavano in realtà alla vigilanza attenta di un quartiere intero, fosse per farsi tirare le orecchie o disinfettare ginocchia sbucciate.
Correvamo. Correvamo tanto. A piedi, in bici, caricati sulla bici di un altro. Nei cortili, per strada, lungo il Panaro. Saltellavamo tra fossi e canali a caccia di innocenti tritoni, con rametti appuntiti trasformati in fiocine, o a inseguire lucciole e farfalle, armati di retini improvvisati. Una via di mezzo tra i ragazzini di Stand by me e quelli di It, ma senza l’impiccio di cadaveri umani o mostri mutaforma. A fare da cornice, invece dei campi del Maine, quelli dell’umida piana modenese, tra salici, pioppi e ortiche.
Certi giorni d’estate non rincasavamo nemmeno per pranzo, fieramente autorizzati a fare un picnic nel prato dietro casa. Protetti dal baldacchino di un salice piangente, sfoderavamo panini con la frittata o con la cotoletta, gnocco ingrassato e mortadella scambiati in un baratto continuo, perché il panino dell’amico è sempre più verde del tuo. Nel mio caso, però, erano sempre gli altri ad agognare il salame di cioccolata di mamma.
Il quartiere sorgeva intorno a un nucleo originario, costruito pochi anni prima: il Villaggio. Palazzine e villette distribuite ad anello intorno a una zona verde che racchiudeva una chiesetta, un piccolo parco e una struttura con commerci, sale civiche e lei: la biblioteca.
Ogni sabato mattina ospitava i “Giochi in biblioteca”. È lì che scoprii che una fiaba consta di elementi fissi e imprescindibili: un eroe, un antagonista, un aiutante – magico o no – delle prove da superare… Imparavamo a leggere ad alta voce, ad ascoltare, a fare domande, a collaborare per creare nuove storie; costruimmo un’immensa (almeno dal nostro punto di vista) torre di Raperonzolo in cartone, la casetta di Hansel e Gretel e quelle dei Tre porcellini; teatri delle ombre cinesi con cartoncini neri e carta velina…
E senza rendercene conto imparavamo il confronto, il rispetto, l’importanza di ascoltare gli altri e forse di più, perché non sempre si possono usare le parole. Come quando nel quartiere, e quindi a scuola e nei sabati in biblioteca, arrivò una bambina cilena, in fuga dalla dittatura e da situazioni troppo grandi perché le capissimo del tutto. Usava un’altra lingua ed era aggressiva. Soffriva di traumi evidenti, diremmo ora. «Quella morde e mena» dicevamo allora. Non ci si poteva dialogare più di tanto, ma disegni, mimi e giochi parlavano anche a lei.
Ecco, pensare a quella bambina con le trecce e gli occhi scuri, di cui ho dimenticato il nome – strana memoria che fabbrica ricordi falsi e si mangia quelli veri – mi conferma che il nostro quartiere appena nato si mostrava accogliente con tutti. Esuli cileni e argentini, poi algerini, tunisini e via via nuovi immigrati in cerca di alloggi a buon mercato.
Il piccolo oratorio del 1800 divenne una chiesa greco-ortodossa per la piccola congregazione locale. Una delle sale civiche fu offerta come luogo di riunione e preghiera ai primi cittadini musulmani installatisi in città. Poco tempo dopo, i Testimoni di Geova avrebbero costruito il loro tempio due isolati più in là. Uno spazio per tutti.
Sto dicendo che sono cresciuta in un’Utopia con la maiuscola, un pezzo di città ideale? No. Non era il mondo degli unicorni. Con il filtro della memoria tutto è più bello, più giusto e più rosa, ma non cancella le risse tra comitive di adolescenti, in cui ogni tanto spuntavano i coltelli e le ferite vere; i garini tra macchine e moto che invadevano il viale ogni venerdì sera fottendosene dei rischi per sé e per gli altri; le siringhe usate buttate tra l’erba dei parchi in cui andavamo a giocare, quelle negli anfratti dell’argine, tra i cocci di bottiglia a cui prestare attenzione quando si sfrecciava in bici o si cercavano le more lungo il fiume. Le ricordo, le cose brutte. Eppure, per noi era un luogo perfetto.
Una città ai margini della città. Più borgo che città. E ancora mezza campagna: bastava attraversare il piccolo sottopasso del cimitero per sbucare tra campi coltivati e animali al pascolo. Eccolo, il mio primo vero ricordo d’infanzia: seduta dietro a mamma sulla bici a osservare le mucche che pascolavano nel campo di fronte alla vecchia chiesa parrocchiale.
Una chiesa che, pur d’atmosfera, non era più adatta a un territorio la cui popolazione era in costante aumento: troppo piccola, troppo fredda, troppo costosa la manutenzione. Veniva usata solo per le cerimonie. Per mesi catechismo e messe si svolsero nel capannone di un’azienda dismessa, poi in una sorta di hangar, costruito accanto, in parallelo e con gli stessi materiali della bocciofila, in un perfetto stile sacro e profano molto emiliano, destinato a fungere da chiesa provvisoria per diversi anni. Strano a dirsi per una come me, da sempre allergica alle religioni: ho amato quella parrocchia-hangar. Forse perché i preti dehoniani che ne erano l’anima erano belle persone. Ce n’era uno giovane, alternava il ruolo da parroco di quartiere a quello di missionario, fino a che il cuore glielo permise (ci vollero diversi bypass, per farlo desistere). Dopo il catechismo ci insegnava a giocare a rugby, maschi e femmine insieme, senza distinzioni. E come dimenticare la suora che ci surclassava a calcio-balilla mentre spiegava «che il Paradiso è bello, certamente, dobbiamo fare tutti gli sforzi per meritarlo, ma non sono poi sicura di volerci andare: sai che noia in mezzo solo a gente buona.» Un po’ zingaro anche il clero, da quelle parti.
Vivevamo il quartiere come un nostro feudo, un territorio indipendente. Oltre i suoi confini “la città”: un luogo un po’ mitico un po’ ostile, in cui si andava solo accompagnati dai genitori. La nebbia che spesso e volentieri avvolgeva ogni cosa lo rendeva fisicamente un paese distinto dal resto dell’agglomerato. La nostra Macondo, la nostra Isola che non c’è. La nostra Terra di Mezzo con la z che sissola.
E se ogni reame, immaginario o reale che sia, ha la sua figura mitologica, il suo Lare protettore, quello del quartiere che non c’era aveva le sembianze di un barbone.
Uno con tutti i crismi: la barba ispida, il vino nel sacchetto e il cappello in testa. Una coppola, per la precisione, nera come i capelli e la barba, come il grembiule che indossava. Portava il nome – di battesimo o d’arte, chi può dirlo – del genio per eccellenza: Leonardo.
Si aggirava per il quartiere in sella a una bicicletta pieghevole, sul portapacchi un fascio di scatoloni appiattiti. Dava una mano a chi glielo chiedeva: spazzare le foglie davanti alla macelleria, scaricare casse per il fruttivendolo… preferiva fare, piuttosto che chiedere, in cambio di un po’ di cibo o di un oggetto che gli interessava; il quartiere capiva e gli evitava lo sgarbo d’elemosinare: si trovava sempre qualcosa in cui potesse aiutare.
La sua casa era una barchessa, residuo di un passato agricolo in via d’estinzione, in un campo incolto racchiuso tra condomini abitativi e capannoni industriali. A fargli da letto e da mobilio, i suoi preziosi cartoni, damigiane, cassette, lattine e cianfrusaglie varie, una stufetta per scaldarsi. Solo ora mi chiedo come sopravvivesse al freddo inverno padano. Nell’ottantasei, quando scese tutta quella neve – la pacchia per noi ragazzi: scuole chiuse e giornate trascorse a fare la slitta e battaglie di palle di neve – come se la cavò Leo? Dove stava? Forse scompariva e tornava solo con la bella stagione, come le rondini?
Mi pare ancora di sentirlo. Parlava, parlava sempre, da solo e con chi gli capitava a tiro. Qualunque ne fosse il punto d’origine, i suoi discorsi finivano tutti in sproloqui su Benito, Baffone e cosa ne sapete voi. C’era sempre un ragazzino più perfido degli altri per divertirsi a stuzzicarlo, prenderlo in giro o sfilargli uno dei suoi cartoni dalla bicicletta. Ridevamo a sentire la valanga di parolacce e imprecazioni che scaturivano dalla sua barba, con quella voce roca e strana.
Inveiva contro i ragazzini tutto il giorno, ma non ne stava mai davvero lontano. Li osservava attraverso la rete della scuola durante la ricreazione, da qualche metro quando si giocava nei parchi o nelle strade. Pronto a sbraitare quando i giochi si facevano stupidi o pericolosi. Una sorta di angelo custode sporco e incazzoso.
Arrivò l’adolescenza e smettemmo di fare caso a lui: avevamo nuovi interessi, il quartiere cominciava a starci stretto ed evadevamo dai suoi confini. Ma Leo, con la barba e i capelli un po’ meno neri, stava sempre lì.
È morto nei primi anni duemila, dopo una vita lunga per un clochard. Morto è la versione ufficiale: preferisco pensare che il nostro baby sitter sui generis – sbucato dal nulla quando il quartiere cercava di darsi anima e corpo – sia ripartito senza salutare quando ha sentito che non c’era più bisogno di lui. Un Mary Poppins sporco e sboccato a cavallo di una graziella pieghevole.
Oggi il quartiere è tanto più vasto, più ricco – uno dei più apprezzati dalle agenzie immobiliari – ormai pienamente assorbito nella città, cresciuta anch’essa. Le sue origini sopravvivono nei nomi delle strade: via 9 gennaio 1950, via Caduti sul lavoro, via dei Tornitori, via dei Fonditori… e nei ricordi di chi le ha vissute. Il prato e la tettoia però sono sempre al loro posto. Un cartello attesta ufficialmente che quello adesso è il Parco della barchessa di Leo. A decorarlo, un suo ritratto, disegnato dai bambini della scuola: una caricatura ispida e un po’ buffa, com’era lui. Mi chiedo se lo farebbe ridere o sacramentare.
Forse entrambe le cose.
Foto di Marezia Ori
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Bio: Marezia Ori, modenese trapiantata in Provenza, si occupa in freelance di creazione di contenuti, ghost-writing, traduzione e correzione testi. Nel tempo libero… più o meno uguale. Un paio di suoi racconti hanno vinto concorsi, altri sono apparsi su siti e riviste come Blam!, DistruttoriDiTerre, Piccoligrandisognatori.com, Piegàmi, Spazinclusi.