Spilli e caramelle

Di spilli e caramelle

Dalla casa accanto arrivava il ronzio di una radio, o forse era quella di nonna, l’aveva dimenticata accesa al minimo da chissà quanto. Lei era di spalle a versarmi un succo di pompelmo, la schiena curva e la bottiglia mezza piena in entrambe le mani; un maglione di lana azzurra lavorato a mano e rimpicciolito dal tempo le fasciava i fianchi larghi.
Io sedevo in poltrona e la sua scatola da lavoro era sul tavolo, sullo schienale di una sedia la gonna a fiori della farmacista da stringere di una taglia. Guardavo la sua scatola da lavoro e allo stesso tempo mi vedevo dal di fuori, come se un’altra me stessa sedesse sulla cassettiera alle mie spalle.
Dov’era la latta dei bottoni? mi chiedevo, una latta tonda che nella mia testa conteneva pietre preziose e caramelle e gettoni per la felicità? Certe volte, mentre nonna la riponeva nell’armadio, la agitava un po’ e da dentro arrivava un fracasso infernale, come mille maracas.

Allungai il braccio e rubai tre spilli dalla scatola, non so perché. Anzi, sì che lo so: avevo dei compagni di classe che ogni pomeriggio si fermavano dal Daniele a comprare le caramelle e per ogni euro che ne chiedevano ne mettevano in tasca una manciata ciascuno di nascosto, e poi passavano l’indomani a vantarsene (il Daniele era il proprietario della latteria sulla piazza centrale, teneva anche le caramelle sfuse divise per colore in certi altissimi cilindri trasparenti); forse volevo capire cosa provassero i miei compagni, se si potesse essere orgogliosi di un’azione così o se quelle caramelle in fondo alle tasche invece dello zucchero non lasciassero che briciole di vanità e paura andate a male.

Sulla via di casa sentivo freddo, l’umidità mi penetrava le ossa, era buio. Mi cadde uno spillo ma lo raccolsi subito; i tre spilli avevano le capocchie viola e brillavano come ametiste.
Li appoggiai in camera mia, sul comodino, tra il quaderno dei disegni e l’elastico per i capelli. Nessun moto di orgoglio come nei miei compagni.
Mamma venne a darmi la buonanotte e recitammo l’Ave Maria come al solito, a mani giunte e quasi sottovoce. Arrivate a «nell’ora della nostra morte, amen», mi convinsi più che mai che quel sonno che mi mettevo ad aspettare fosse in realtà la mia morte, e in qualche punto dei miei polpastrelli credevo davvero di meritarla, perché avevo rubato quei tre spilli a nonna.
Nel buio della mia stanza, con l’acqua della doccia che andava perché c’era papà in bagno, e pareva una cascata o un temporale, mi convinsi anche che quei tre spilli fossero tutto ciò che mi riguardava, tutto ciò che mi definiva.

La notte opprimeva il mio corpo stanco e gli spilli sibilavano come serpenti dagli occhi cattivi e lucenti.
Non riuscivo a dormire, qualcosa di appuntito pungeva i miei polpastrelli stretti tra le cosce; e sentivo il temporale battere sugli scuri, sebbene non piovesse, o era la scatola dei bottoni che si agitava in testa?
Mi alzai di scatto, in qualche punto della schiena il pigiama si era appiccicato alla pelle sudata. Uscii e corsi a casa di nonna, il cuore mi batteva in gola, nelle ginocchia, nelle mani, avevo le guance in fiamme e le ossa gelate, avevo messo il cappotto? e le scarpe?

Nonna mi aprì, era fresca come se fosse mattina, mi sorrise e mi fece sedere in poltrona. Dalla casa accanto arrivava il ronzio di una radio, o forse era quella di nonna, l’aveva dimenticata accesa al minimo da chissà quanto.
Mentre versava il succo di pompelmo dandomi le spalle, risistemai gli spilli nella sua scatola da lavoro nella stessa posizione sul tavolo; mi sembrò che nonna, con la bottiglia mezza piena in entrambe le mani, annuisse, e che all’improvviso le mie tasche si gonfiassero, piene di zuccherini, cioccolatini e liquirizie.

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Illustrazione di  MOON SOUP ART

Roberta Garavaglia, classe 1984. È mattiniera. Le piace il gelato e ascoltare conversazioni altrui. Ha partecipato con successo a certi concorsi letterari e altri suoi racconti sono stati pubblicati su riviste on line.

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