Immagine di Daniele Bepy

C’era una volta il mare

Lo sanno tutti, giù in paese, che una volta ci doveva essere stato il mare. Qualche sera d’estate, quando le strade si riempiono del vociare indistinto delle signore del borgo alto, quando dai terrazzini si leva lo sfrigolio della carne alla griglia e i bambini lanciano gli urletti irrequieti del prima di cena, a Maria piace sedersi in veranda con una tazza di caffè. Lì, nella frescura del crepuscolo, se chiude gli occhi fortissimo e trattiene un poco il respiro, le pare proprio che l’insieme di tutti i suoni si trasformi nelle onde del mare.

La storia era cominciata diversi anni prima, in un pigro pomeriggio di sole, quando il Barone – durante una delle sue lunghe passeggiate estive – era inciampato in un fossile di conchiglia. Era tornato in paese di corsa, con l’affanno e l’eccitazione che gli toglievano il respiro, stringendo forte il frammento di roccia nel palmo sudato della mano destra. I testimoni raccontano che la funzione serale fosse appena finita e i pochi fedeli si stessero già disperdendo quando videro il Barone precipitarsi in piazza come un disperato.

“Guardate cos’ho trovato!” aveva urlato sollevando il tesoro per aria, concitato, col fiato corto e le guance arrossate. “Se lo vendo divento ricco.”

Il fossile aveva fatto rapidamente il giro del paese e Maria l’aveva stretto tra le mani quello stesso Ferragosto. Era una piccola pietra calcarea dalla forma irregolare, ruvidissima al tatto, con al centro impressa la forma di conchiglia. Maria, a occhi chiusi, aveva contato le scanalature con i polpastrelli. Se il fossile era la prova che un tempo, al posto del piccolo borgo di cascinali, ci doveva essere stato il mare, allora loro dovevano essere gente di mare. E Maria, che il mare non lo aveva mai visto, un po’ una donna del mare ci si sentiva. Aveva così appoggiato il fossile all’orecchio sinistro e, per la prima volta, giurò di aver sentito il fragore delle onde.

Maria era arrivata sessant’anni prima nella stessa casa che ancora abitava. Orfana di fatto, accudita dalla sorella di sua madre – una zia nubile e senza figli suoi che gestiva l’alimentari del paese – Maria era cresciuta con le storie di terre lontane: foreste così fitte da rabbuiare le giornate di sole e deserti immensi abitati da popoli che leggevano cantando e si lavavano con la cenere. Aveva trascorso i suoi anni al borgo, tra gli studi da ragioniera e le estati in alpeggio.

Compiuti diciotto anni, Maria aveva preso parte alle grandi celebrazioni per la festa dei coscritti. Il paese era tutto in ghingheri e, ancora prima del calar del sole, le porte delle case si erano spalancate. Perfino la zia aveva adornato la cascina con ghirlande floreali e nastri rossi di raso sulla cancellata in ferro battuto. I festeggiati correvano su per la strada in salita, passando di casa in casa, facendosi belli e bevendo vino rosso di nascosto dai genitori. Maria, che non era mai stata così emozionata, era scesa in piazza in anticipo e aveva raggiunto i ragazzi nel cortile di fronte alla scuola, ora irriconoscibile per via delle lunghe tavolate apparecchiate che non lasciavano spazio per passare. C’era una ragazza nuova: si diceva in paese che si fosse appena trasferita, da fuori, con tutta la sua famiglia. Anche lei era vestita elegante per l’occasione e portava i capelli scuri raccolti all’indietro. Mentre gli altri parlavano svelti, gesticolando, con la voce trepida di chi è in attesa della festa, se ne stava seduta sul muretto con i piedi a ciondoloni. Maria si era avvicinata per presentarsi.

Dopo la cena di paese con pietanze di ogni tipo – c’era perfino il pregiatissimo tonno di gallina – i neodiciottenni si ritrovarono tutti nell’ex magazzino del farmacista, ora adibito a salone da ballo. Maria, ebbra per i tre bicchieri di vino, danzava con suo cugino Toni, che però, più ubriaco di lei, ballava di gomiti, dimenava le anche e rideva sguaiato. Maria lo mollò sotto le luci stroboscopiche a fare il cretino e uscì dalla porta sul retro

La vide seduta sulla panca di legno vicino alla chiesa. La musica del magazzino si sentiva appena. Già l’avevano detto, a Maria, che Paulette non arrivava dai paesi vicini ma da molto lontano, dalle isole. Quella sera, la ragazza straniera le raccontò il mare: dell’acqua così limpida da lasciar intravedere il fondo; di spiagge di pietre colorate che ferivano i piedi se non facevi attenzione; di famiglie intere che vivevano in barca e ragazzi che correvano verso la riva l’ultimo giorno di scuola, lanciando le cartelle sul bagnasciuga. Maria la ascoltava estasiata.

“È tanto lontano?” le aveva chiesto.

“Non lo è. Ti verrò a prendere appena finirai la scuola e andremo al mare insieme.”

Paulette, però, non era più tornata in paese. Maria era venuta a sapere che si era trasferita con la famiglia ancora più lontano, dall’altra parte del mare. Ma andava bene così. Maria aveva faccende da sbrigare, l’alpeggio, i formaggi, la vita di paese e, dopo la morte precoce della zia, anche il piccolo negozietto di alimentari da mandare avanti. Tutto sommato, il mare una volta c’era, al borgo. E anche adesso, sessant’enne, due volte orfana, Maria nelle sere d’estate chiude gli occhi e si immagina onde altissime che spazzano via i tetti delle cascine, le stradine e i vicoli che conosce a memoria, le stalle, le vacche, i maiali, le botteghe degli artigiani dalle finestre impolverate che danno sulla piazza, la facciata della chiesa sopravvissuta a due guerre, le persone che la chiamano per nome, i sentieri terrosi che si diramano per la valle, e poi l’intero borgo e i suoi dintorni boschivi, e, perché no, anche il luogo dove il Barone trovò il fossile di conchiglia. Qualche volta, quando il buio è già sceso e il vociferare si è quietato, Maria si abbandona al pensiero che il mare abbia finito di cancellare proprio tutto, anche la poltrona a dondolo su cui siede, il suo stesso corpo, e perfino il ricordo di una ragazza straniera che una volta le prese la mano.

Copertina originale dal titolo “Mare fossile” di Bepy Daniele

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Elisa David è nata e cresciuta a Torino. Ha una laurea presa all’estero e una carrellata di “lavoretti” alle spalle. Ogni tanto scrive storie.

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