Sospesi in aria

Sospesi in aria

Mentre firmavo il contratto, il proprietario dell’appartamento mi disse:
– Se posso permettermi un consiglio…
– Sì?
– Se si trova bene, e le saltasse il ticchio di comprare…
– L’appartamento?
– Sì. Ecco, io venderei.
– È un po’ presto per dirlo.
– Mi piace giocare d’anticipo.
– Ha fretta di svendere e andarsene?
– Sì. E badi che ci rimetto. In capo a qualche anno il valore dell’appartamento sarà triplicato.
– Perché?
– È evidente che questo nuovo giustiziere – quello che vola, intendo – vive nel quartiere.
– Ah sì?
– Eccerto, è sempre qui che lo hanno avvistato.
– E secondo lei questo farà schizzare alle stelle il valore dell’appartamento.
– La criminalità è già calata bruscamente. Per dirne una. E poi fra un po’ costruiranno. Stanno buttando giù la scuola abbandonata per farci un parco. Pensi che ottimismo, prima i ragazzini ci spacciavano e al consiglio di quartiere non avevano modo di fare niente.
– E sarebbe merito di questo supertizio. Il giustiziere volante.
– E di chi, sennò?

Mi sganciai rapidamente da questa conversazione. Il tizio voleva vendere rapidamente gli immobili in zona per speculare chissà dove, e cercava di sbolognarmi quello che avevo affittato. Giustizieri volanti, come no. Era davvero l’ultimo dei miei pensieri, in quella fase disarmante della mia esistenza. Quando entrai nell’appartamento una mattina di gennaio – un appartamento che pure avevo già visto un paio di volte – ero determinato a detestarlo.
Poveretto, non se lo meritava. Era un trilocale confortevole e rinnovato da poco, dove stettero a meraviglia tutti i mobili sopravvissuti alla bancarotta fraudolenta di mio padre, che mi aveva prima incastrato con una fideiussione e costretto poi a pagare i suoi debiti prima di finire in galera. Avevo ancora il mio lavoro, per fortuna, ma non più una lira in tasca. Ed ero convinto che quel nuovo appartamento ad affitto bloccato in un cesso chimico di quartiere sarebbe stato perfetto per il mio stipendio e per la genteel poverty che trovo sempre nei miei romanzi preferiti.
In capo a qualche mese, fui costretto però a ricredermi. Ogni mattina, sporgendomi al balcone del nono piano, vedevo sempre meno edifici intorno a me, e sempre più verde. Avevano davvero buttato giù quell’orrenda scuola fatiscente davanti al mio condominio, e ora piantavano i cedri e gli aceri. Sentivo cantare i pettirossi la sera, e il rumore degli annaffiatoi. Rifecero ben presto la facciata di un altro condominio, e misero in sicurezza i fili elettrici scoperti del nostro. La sera si popolava poco a poco di coppiette, mamme e papà con passeggini, bimbi che giocavano a palla senza nemmeno minacciarsi col coltello. Credevo di essere arrivato in un quartiere sfigato e allo stremo. Invece, improvvisamente in pace, fiorivamo come il gelso a primavera.
Era davvero merito del giustiziere volante? Poteva darsi. Per esserci, c’era davvero – era impossibile non notarlo. Lo vedevo ogni mattina sfrecciare sopra il mio tetto, e spesso la sera, sospeso nel cielo come una minuscola figurina, a scrutare il quartiere. Ti faceva sentire protetto, perché c’era; ma siccome era lontanissimo, non ti veniva l’ansia di essere guardato. Da quel poco che riuscivamo a intuire, sembrava se non altro umano (due braccia, due gambe e una testa), alto e magro. E anche quei dettagli tendeva a nasconderli, avvolgendosi in un mantello lungo il doppio di lui. Ci chiedevamo, spettegolando con i vicini dal fruttivendolo o in lavanderia, come riuscisse a fare tutte quelle cose mirabolanti, tipo volare, essere immune al fuoco, alle pallottole, ai coltelli e ai cazzotti, forte come una balena e veloce come un elettrone. Lo si vedeva spesso dalle nostre parti, cioè nel cielo sopra di noi, e così ci chiedevamo anche se non vivesse nel quartiere. Gli piacevano molto i trucchi più classici, tipo sventare le rapine a mano armata, impedire ai finti tecnici del gas di razziare le case dei vecchi rincoglioniti, o fermare con le mani nude due automobili che stavano per venirsi addosso. Non facevi in tempo a vederlo atterrare, e già era decollato di nuovo per portare all’ospedale i feriti.
Ma non era solo un poliziotto da strada, che ti salva da una fucilata ma ti lascia alla tua miseria. Dovetti dargli credito di essere molto più acuto di così. Ogni giorno si leggevano sui giornali notizie allucinanti su funzionari corrotti sputtanati e fatti arrestare; su manifestanti e studenti in scuole occupate, protetti dalle forze dell’ordine che volevano manganellarli. Se era strumento di qualcosa, non lo era del governo o di nessuna istituzione – forse solo della sua coscienza. Chi avesse voluto parlargli o anche solo guardarlo in faccia si scontrava ben presto con il fatto che, oltre a non lasciarsi avvicinare, portava sul volto una maschera che lo copriva per intero, lasciando la sua faccia nel nulla.

Se non che io avevo scoperto che era una ragazza.

Per caso, eh, mica perché fossi chissà chi. Sei mesi dopo essere entrato nell’appartamento venni a sapere che si poteva accedere al tetto del condominio da una porticina arrugginita, che nessuno apriva da anni, e il cui lucchetto non teneva più da tempo. La aprii con un calcio, e salii per godermi il tramonto dalla cima del mio condominio, con in mano una fetta d’anguria (ormai era giugno) che volevo mangiare a morsi. Ed ecco, mentre vagabondavo tra le ventole e le caldaie, una ragazza alta e magra seduta a ranocchia su un comignolo, con una maschera che le pendeva inerte dalle dita della mano destra. Il vento della sera le muoveva a ritmo irregolare il mantello e i capelli nerissimi. Era la divisa del giustiziere: però il giustiziere era una giustiziera. Mi nascosi dietro un parafulmine, l’anguria stretta al cuore che batteva, sperando che non avesse sentito il calcio alla porta. Ma non guardava nella mia direzione; sembrava persa nei suoi pensieri. Dopo due minuti si tuffò nell’aria, e come un falco scivolò nel cielo sopra di lei, troppo veloce per seguirla con gli occhi.

Non dissi nulla a nessuno. Ma da quel momento, ogni volta che vedevo il giustiziere saettare nell’aria, o sollevare una macchina, o frapporsi tra un mitra e la sua vittima, cercavo di trovare ulteriori conferme su quello che avevo scoperto. E in effetti sì, il bacino sotto la sua divisa sembrava piuttosto largo, i fianchi stretti, e quelli davanti erano chiaramente dei seni. Era una giustiziera. Cominciai a mettere da parte tutti gli articoli dove si parlava di lei, tutte le foto, tutti gli avvistamenti. Mi nacque una curiosità incredibile. Tornavo spesso sul tetto del condominio, sperando di ritrovarla. E con gioia mi resi conto che quello doveva essere una delle sue tane, perché la trovavo spesso sul suo solito comignolo, che fissava l’orizzonte.

Arrivò agosto. Saremmo morti di caldo senza il nuovo parco. La sera si levava un po’ di vento, e io stavo sul balcone del mio appartamento con una coca con ghiaccio e limone, e una bimba di 15 chili presa dal fruttivendolo (parlo di angurie, ovviamente). Ero appunto a metà della suddetta bimba, il mio portatile aperto su una serie TV coreana, quando davanti a me, in piedi nel cielo, comparve la giustiziera volante.
– Disturbo?
Mi andò la fetta di cocomero di traverso. Tossii pietosamente per due minuti.
– Sta bene?, chiese.
– Sì. Giuro. Sì. Mi scusi, rantolai alzando gli occhi pieni di lacrime.
Aveva la maschera indosso. La divisa, una tutina monopezzo sobria e nera come i suoi capelli, non le aderiva al corpo, anzi le volteggiava intorno, il mantello sbatacchiato dal vento.
– Dicevo: spero di non disturbare, – disse a bassa voce.
– No, – ribattei allibito. – No, affatto.
Le mostrai la sedia libera e l’anguria.
– Mi fa compagnia?
– Preferirei che la facesse lei a me.
– Eh?
Scattò in avanti, mi afferrò per le ascelle come si prende un bambino per tirarlo su, e un secondo dopo ero in aria, un chilometro sopra il tetto di casa mia, trattenuto dalle sue braccia, sotto di me la città che lentamente sprofondava nella notte.
Senza volerlo, urlai.
– Mi scusi se sono stata un po’ brusca, – mi disse lei, urlando a sua volta per sovrastare il rumore del vento – ma nel mio mestiere si corrono molti rischi, e io devo capire se lei è uno di quelli.
– Che sta dicendo, – gridai, pensando che mi avrebbe lasciato cadere da un momento all’altro.
– Ho molti nemici, – proseguì lei. – Gente che vuol farmi fuori, e cerca di scoprire il mio punto debole, se ce n’è uno.––Ora, sono mesi che lei si apposta un giorno sì e uno no sul tetto di questo condominio, spiandomi mentre ci passo quel poco tempo libero che ho. Mi sento i suoi occhi addosso. Non conosco le sue intenzioni, ma conosco molti modi per scoprirle.
Detto fatto, mi lasciò andare. Scivolai immediatamente giù, prendendomi lo spavento della mia vita. All’ultimo momento mi afferrò per un piede e mi tenne così, sospeso a mezz’aria, tutto il corpo che urlava, la gravità che piluccava ogni mio atomo. Cominciai a piangere dallo spavento.
–– Perché mi spia?
Risposi con un singhiozzo di terrore.
Perché mi spia? – ripeté lei. Mi feci forza:
– Non la spio.
– Non dica idiozie. Perché mi sta spiando?
Inghiottii il catarro che stava per cascarmi dalla bocca aperta.
– Ok, cerco di vederla ogni volta che posso, ma giuro che non la sto spiando.
– A casa mia questo si chiama spiare. Chi la paga? Che cosa vuole ottenere?
– Che cazzo dice. Nessuno mi paga.
– E allora perché mi sta addosso?
Perché mi piaci, – gridai finalmente, le lacrime che mi accecavano.
Silenzio. Immobili a mezz’aria, per un attimo riconobbi la costa sud del nostro continente, con i suoi fiumi e le montagne all’interno. Le cose buffe che noti quando stai per morire.
– In che senso? – chiese lei dopo un po’.
Mi pulsava la testa. Inghiottii nuovamente, presi un lungo respiro.
– Nel senso solito. Uno vede una tipa carina che passa per strada e la guarda. Non ti ho fischiato, non ti ho importunata, non faccio queste cose – poi nel tuo caso manco saprei come, visto che sei sempre a duecento metri d’altezza – ma insomma, mi piaci e ti guardo.
Altro silenzio. Mi scoppiava la testa. Cominciammo lentamente a scendere verso terra, io sempre appeso per un piede, che lei mi stringeva la caviglia nella mano.
– Ho sentito scuse più originali per una trappola, – disse dopo diversi minuti di silenzio, quando ormai eravamo in vista del tetto, e io cominciavo a calmarmi.
– Non è una trappola. È la verità.
Avevo gli occhi chiusi. Toccai terra con le mani, ebbi un sussulto. Mi lasciò andare, capitombolai a terra. Aprii gli occhi: ero di nuovo sul mio balcone, e intorno a noi la sera diventava notte. Lei, in piedi in aria a pochi metri dal terrazzo, mi guardava incuriosita.
– Lei mi pare davvero troppo sfigato per essere uno dei miei nemici, disse infine ridacchiando.
Qui m’incazzai.
– Ma lei è matta. Mi fa quasi morire di spavento e poi se la ride.
– Deve scusarmi se sono stata un po’ brusca. Ma il mio mestiere è quello che è.
– Come crede. Purché non mi ammazzi, risposi sedendomi al tavolo.
– Ma che ammazzare e ammazzare. Io non uccido mai.
– Tanto meglio, ribattei rabbioso, afferrando forchetta e coltello.
– La lascio al suo cocomero, allora. Non la disturberò più.
–Scomparve.

Ma tornò più di una volta, e sempre più spesso. Certo, non mi disturbò più, nel senso che fu sempre molto educata e mai invadente. E tuttavia pareva sempre trovare un nuovo motivo per fermarsi davanti al mio balcone. Una sera m’interrogò sul mio lavoro e sulla mia famiglia, con l’idea che potessero esserci collegamenti coi suoi nemici, e io fossi usato per danneggiarla senza saperlo. Un’altra volta pretese di perquisire casa mia, per cercare armi nascoste. Avevo appena sistemato i miei libri sugli scaffali montati di fresco, e finimmo per fare le due del mattino litigando su Effi Briest: lei pensava che Geert Von Innstetten fosse uno stronzo, io lo compativo. Una terza sera mi portò un’anguria, a suo dire per compensarmi dello spavento che mi aveva fatto prendere. La tagliai e la finimmo insieme. Siccome doveva mangiare, fu costretta a togliersi la maschera. Non aveva solo i capelli neri; anche gli occhi lo erano, grandi occhi color dell’onice. Il nasino all’insù coronava un musetto né troppo lungo né troppo corto, con una fossetta per ciascuna guancia, che si vedevano solo quando sorrideva – come appunto in quel momento. Inutile dire che io avevo dimenticato di essere quasi stato fatto fuori, e la mangiavo con gli occhi. Arrivò settembre e, in preda a un calore interno che mi toglieva il sonno, le chiesi se potevamo uscire insieme.
– In che senso?
– Nel senso solito. Io, te, magari un ristorante, una passeggiata. Un cinema, se vuoi.
– Forse darei un po’ nell’occhio, col mantello e tutto.
– Scusa, non hai un’identità segreta?
– Eh?
– Sì, dai, un nome, un cognome, un lavoro, una vita normale. Quello che sei quando non sei la Giustizia Volante.
– Che razza di nome è?
– I giornali ti chiamano così.
– Povera me. E povero te, che pensi che io abbia una vita.
– È triste, questa cosa che hai detto.
Mi guardò con un sorriso che in effetti era triste.
– Ma è vera. Da quando faccio questo mestiere, ho mollato tutto il resto. Della mia vita precedente mi sono rimasti solo il nome e il cognome. E il cognome non te lo posso dire. Andresti a cercarlo ovunque.
– Ma smettila.
– Il nome, se vuoi, te lo dico.
Si avvicinò. Diventai rosso. Le mie braccia mi urlavano di circondarla e stringerla. Volevo immergermi in quelle sue labbra sottili. Sentivo il profumo dei capelli.
– Amelia, disse infine.
Chiusi gli occhi.
– Io sono A–
– No, – disse mettendomi un dito sulle labbra.
La guardai perplesso.
– Lo so già. Ho fatto le mie ricerche.
– Ah.
– A che ristorante pensavi?

Uscimmo e andammo in un ristorante sul mare, quelli dove mangi le ostriche crude – ma per evitare il potenziale disastro (sono di stomaco debole) finii per ripiegare su un risotto nero di seppia. (Lei no. Lei prese le ostriche. Tanto poteva digerire il piombo fuso.) Per l’occasione Amelia si era messa una longuette nera a maniche corte – calzava un paio di ballerine. Non mi pareva vero di camminare accanto a lei per strada, come due persone normali. Passati lo spavento e la nausea della prima volta, con la memoria che come al solito addolcisce tutto, mi capitava di guardare il cielo stellato, passeggiando sul lungomare, e d’immaginarmi ancora nell’alto dei cieli, solo io lei e le nubi. A cena parlammo di molte cose e ad un certo punto finimmo per intrecciare le dita delle mani. Al ritorno, muti e mano nella mano, ci trovammo in un vicolo deserto. Mi sentii afferrato e proiettato in aria tra le sue braccia – vedevo la spiaggia lontana sotto di me, gli scogli e il mare di tenebra che si allargavano fino all’orizzonte, sotto la falce di luna. Ci fermammo sospesi in aria, l’uno tra le braccia dell’altra. Ci guardammo e a me vennero le lacrime agli occhi.
– Alessandro, disse lei sottovoce, e ci baciammo per ore nel cielo notturno.

La nostra vita insieme cominciò così. Da quel momento in poi, ogni giorno è per me come un anno intero di ricordi colorati e alla rinfusa, uno più denso di vita dell’altro. La convinsi a trasferirsi da me. Aveva davvero poco e nulla della sua vita precedente: qualche libro, un gioiello di sua madre, uno stappabottiglie a forma di omino. Diventai il fidanzato di una soldatessa in perenne missione speciale. Non sapevo mai quando sarebbe tornata a casa, né – quando c’era – quanto tempo sarebbe rimasta prima dell’emergenza successiva. Oltre alle ronde che faceva di solito, era anche connessa a diversi siti di giornali e informazioni, così se succedeva un disastro lo scopriva in tempo reale dallo smartphone, e in mezzo secondo era volata fuori dalla finestra. Tornava sempre con la divisa lercia o bucata – gliela dovevo regolarmente buttare al quinto o sesto lavaggio, e cucirgliene una nuova. Mi adattai a improvvisare pranzi, cene e colazioni in una decina di minuti, e a tenere sempre pronti Brufen, Moment e Oki per i momenti di sconforto – era immune alle esplosioni nucleari, ma non alle emicranie da stress, per non parlare dei crampi mestruali, poverina. Il resto lo faceva il fatto che eravamo innamorati, e dunque un modo per stare bene insieme si trovava sempre. Ricordo in particolare, quando l’autunno cominciava a ghiacciare i cieli, questa pessima abitudine di Amelia che senza avvisarmi, magari mentre mi ero alzato dal letto o accendevo il bollitore tè, mi assaliva da dietro e mi portava con sé su nel cielo. Non si fermava finché non eravamo arrivati alla stratosfera, dove la nostra città e tante altre non erano che macchie sul fondo verde e azzurro – minuscoli di fronte all’enormità della luna.
– Ma sei matta. Congeleremo. Quassù non c’è ossigeno, – protestai la prima volta che mi fece questo scherzo.
– Finché sei con me, non c’è problema, – mormorò lei nel mio orecchio, tenendomi ben stretto.
In effetti non sentivo freddo, né mi pareva di soffocare. Sentivo solo il fischio tremendo del vento celeste, che si abbatteva su di noi stranamente tiepido.
– Com’è possibile?
– La forza dentro di me.
– Cos’è?
– Te lo spiego un’altra volta, – rispose lei cominciando a spogliarmi, e allora basta, cosa volete anche voi, la domanda gliel’avrei fatta magari più tardi. Ammetto però che dopo aver perso due dei miei pigiami sopra le nubi, perché prova tu a tenerti stretto un pigiama a due pezzi mentre stai facendo cosacce in verticale a otto chilometri di altezza dal suolo, cominciai a dormire in mutande e canottiera.

La domanda non gliela feci più per mesi – Amelia evitava l’argomento con vili trucchetti del genere che avete appena visto. Ma l’argomento tornò definitivamente fuori a dicembre. In quel periodo Amelia era spesso sul Mediterraneo, per acchiappare i gommoni dei migranti e portarli a riva prima che la notte e le tempeste li inghiottissero. Una sera, mentre ero in ufficio, divenne virale un video dove la riprendevano, da lontano, mentre veniva bersagliata da missili terra–aria, che il governo libico negava di possedere, e che non si capiva bene se fossero stati diretti a lei personalmente, o se fosse stata colpita per sbaglio. Amelia era invulnerabile, ma non l’avevo mai vista dopo l’impatto con non so quanti missili SAM con testata a frammentazione diretta (mi ero informato subito su wikipedia). Perché l’avevano colpita, questo nel video si vedeva. Tornai a casa con un profondo disagio. La trovai in piedi appoggiata alla parete del salotto, le mani sulle ginocchia, che respirava affannosamente. Ci abbracciammo per un’eternità; la presi in braccio, la posai sul divano, e mi preparai al colpo.
Sul suo corpo non c’erano ferite aperte. Qualche graffio qui e lì. Era sozza e annerita dal fumo e da uno strato di detriti e polvere, e piena di lividi, sangue e ammaccature. Ma mi resi conto che sotto la pelle le correva una luce strana, soffocata eppure tagliente, che una dopo l’altra sbiadiva e risanava i lividi, asciugava gli ematomi, chiudeva i graffi, lasciando solo il sangue secco e lo sporco.
– Come ti senti?
– È più lo spavento che altro. E il dolore.
– Non vedo ferite gravi.
– Non ce ne sono, tranquillo. Sono solo un po’ ammaccata.
– Nel video ho visto che ti hanno colpita.
– Oh, sì. Due missili li ho evitati, ma il terzo e il quarto mi hanno presa in pieno. Guidati dal radar, le teste di cazzo. Madonna che botta. Senza la forza sarei stata disintegrata.
– Vieni. Ti meriti una doccia bollente.
– Stai con me, sì?
– Ma certo.
Mano nella mano, andammo in bagno. Mi spogliai e feci lo stesso con lei. Con la dolcezza che avrei usato con un cucciolo la condussi nella doccia, aprii l’acqua bollente, e cominciai a passarle sopra la spugna piena di sapone, sciogliendo la melma e la polvere che aveva addosso, e facendole scorrere a rivoli lungo le gambe, le caviglie e i suoi piedi lunghi. Finì per rilassarsi, chiudere gli occhi, e appoggiarsi a me, mentre l’acqua bollente cadeva, e i vapori ci nascondevano al mondo.
– Grazie, Alessandro. Mi sento meglio.
E fu lì che mi tornò in mente la domanda che non le facevo da mesi.
– Mi parli sempre di questa forza che è dentro di te. Ti riferisci ai tuoi poteri?
– Sì.
– Non mi hai mai detto se sei nata così, sai?
– No, hai ragione. Non mi piace parlare del mio passato. Anche perché c’è poco da dire. Ero una persona come tante altre. Un bel giorno la forza è venuta da me. Direi quasi che è germogliata dentro di me. E da allora io sono stata quella che chiamano la Giustizia Volante.
– Non riesci proprio a farti piacere questo nome?
– È un po’ idiota, onestamente.
– E hai dovuto mollare tutto il resto? La tua vita, intendo.
Alzò la testa e mi guardò con i suoi occhi di onice.
– Oh, sì. Amici, genitori, la mia casa. Tutto! Ale mio, non potevo fare altrimenti. Avere una vita significa… be’, avere distrazioni. Cosa che però io non mi posso permettere.Lo vedi cosa riesco a fare, e cosa mi sta riuscendo di fare nel mondo. Non posso smettere, capisci? Non posso lasciar morire qualcuno perché in quel momento non ho voglia di usare la mia forza.
Tacqui, lasciandomi riempire dal suono dello scroscio d’acqua.
– Ti sei sentita in dovere di fare la tua parte.
Mi guardò seria.
– Sì.
– Ma ti sei mai chiesta cosa sia questa forza? Da dove sia venuta? E perché abbia scelto proprio te?
– Centinaia di volte. E la risposta è sempre la stessa. Non ne ho idea. Avevo quindici anni, ne ho ventisei. E da quando ho quindici anni, questa è la mia vita.
– Amelia, ma questa è una tortura. Sei in completo isolamento.
– Ma no. Ogni tanto riesco a vestirmi normalmente e parlare con qualcuno, per strada, sull’autobus, sulla metro. E poi ora ci sei tu nella mia vita. Anche se te la sto facendo a pezzi.
– Non diciamo scemenze.
– Ma è vero. Tu avresti diritto a una vita normale, con una compagna normale e degli amici. Adesso tra il lavoro in ufficio e quello a casa, a fare da badante a me, non hai nemmeno il tempo di uscire con i colleghi a bere una birra, o che ne so, farti una corsetta.
Qui si rischiava di toccare un problema che da tempo fingevo non esistesse. Per evitare il disastro, tornai al discorso di prima:
– Questo lascialo decidere a me. Il punto è che la nostra relazione non può essere tutta la tua vita.
– No, hai ragione, – sospirò lei tristemente. – Ma ora come ora non so pensare ad un’alternativa.
Finimmo di lavarci, ci asciugammo, ci infilammo sotto le coperte nell’oscurità dell’appartamento. Si sentiva solo il rumore della caldaia. Mano nella mano, provammo ad addormentarci. Amelia era sfinita. Ma prima di assopirsi, disse:
– A volte mi chiedo se ci sono altri come me. Altri che sono stati visitati dalla forza.
– Li hai mai cercati? – le chiesi.
– No. Ma potrei. E dovrei. Se fossimo più di uno, ci sarebbe meno carico sulla schiena di un singolo.
Provai a rispondere, ma avevo troppo sonno. Amelia dormiva già.

Nevicò tutto quel dicembre e per buona parte di gennaio; poi marzo lasciò il posto ad aprile, e noi già aspettavamo la fine dell’inverno, e guardavamo il sole brillare sulle pareti degli edifici sbiancate dall’acqua gelida. Una sera uscii alla luce del tramonto per fare la spesa dal fruttivendolo, perché avevo il sospetto che Amelia sarebbe rientrata in anticipo dal Cairo. Ero talmente concentrato sulla lista che mi ero scritto, che non feci caso agli schiamazzi improvvisi intorno a me, e ai rumori di motocicletta; o che dalla banca davanti al fruttivendolo stavano uscendo dei rapinatori in passamontagna. Mi voltai solo quando sentii gridare i passanti per una raffica di mitra che risuonò e rimbalzò tra le pareti degli edifici. Un attimo dopo ero a terra, sdraiato a pancia in giù.
Feci per rialzarmi, ma ero improvvisamente pesantissimo, il cappotto zuppo di liquido, e una specie di debolezza alle estremità. Intorno a me c’erano altre persone capovolte, rantolanti, sorrette da passanti e familiari, le facce piene di schizzi di sangue e ammaccature. Riprovai ad alzarmi, ma mi sentivo torpido e svogliato. Mi rimaneva quel tanto di coscienza per intuire cosa era successo, e accettare ciò che sarebbe successo a brevissimo. Sentivo le sirene della polizia e delle ambulanze. Chiusi gli occhi, e tutto divenne rosso e sordo.
Pochi secondi dopo, ero tra le braccia di qualcuno, leggero, circondato da uno strano tepore; e aprendo gli occhi, vidi il musetto stravolto di Amelia, e noi sospesi nel cielo serale gelido.
– Amelia…? – chiesi con un filo di voce.
– Ti hanno preso al cuore, – rispose lei – e sei andato in arresto in ambulanza. Non riuscivano a rianimarti. Ti ho preso e ti ho portato quassù.
Lentamente, mi pareva di riprendere conoscenza.
– Perché…?
– Per salvarti, – rispose. – Posso ancora salvarti. Ma devi essere forte, Ale. Devi stare sul pezzo. Dimmi che sei sul pezzo.
Ero ormai del tutto sveglio. Una luce sottile, insistente, scendeva dalle mani di Amelia verso il mio corpo, circondandolo lentamente.
– Ci sono, ma cos’hai in mente?
– Ti sto dando la mia forza.
Mi guardai il giaccone insanguinato, sforacchiato dai colpi di mitragliatrice. Il sangue non usciva più. Lo sentivo asciugarsi e tornarmi nelle vene.
– Quando avrò finito, avrai i miei poteri. E sarai guarito, invulnerabile. Devi essere pronto a reggermi, va bene? Altrimenti cadiamo.
– Sì, – risposi con decisione. Ma poi:
– Scusa, perché reggerti? Tu non voli?
– No. Se ti passo la mia forza, io non ne avrò più.
– Come, non ne avrai più?
– No. Tu diventerai come me. E io tornerò a essere quella di prima.
Mi ci volle un po’ prima di cogliere la precisa entità, la portata di quelle parole. Non voglio fingere che la cosa non mi stesse bene, per i primi cinque secondi. Fui tentato, eccome, di accettare quel regalo e star zitto. Poi ripensai a quello che era Amelia; e vidi chiaramente ciò che dovevo fare. Corrugai la fronte, strinsi i denti, e cominciai a respingere centimetro dopo centimetro la forza che mi invadeva, rimandandola dove era prima. Amelia mi scosse violentemente per le spalle.
– Ma che fai…?
– Non posso accettare.
– Ti ha dato di volta il cervello…?
Presi un respiro, cercando di non piangere.
– La forza è venuta da te. È una cosa tua. Non puoi darla a me.
Amelia mi guardò con orrore.
– È venuta da me e io ne faccio quello che voglio.
– No, Amelia. Così non è giusto.
– Perché?
– Non è giusto per me, che questa responsabilità sulle spalle non la voglio – e nemmeno per te. Lo hai detto tu stessa, quella volta. La forza è arrivata per un motivo: ed è arrivata da te, non da altri. Non è stato un caso. Sei stata scelta. È un peso che puoi portare solo tu.
Amelia tremò di rabbia:
– Questo peso che mi porto addosso tu lo conosci bene. Non venirmi a dire che devo tenermelo, non ne hai nessun diritto. E poi non sto rinunciando a niente, semmai mi sto facendo sostituire. Mi hai visto in azione per mesi, imparerai in fretta. Io ti starò vicino, come tu sei stato vicino a me – e la missione la farai tu.
Ma io non volevo fare il lavoro di Amelia. Io non ero l’eroe che era Amelia. Quella vita, quel potere, quel destino erano suoi. La grandezza aveva scelto lei, non me.
– Questo scambio potevi farlo con chiunque altro, – replicai. – Perché io? Non c’è niente di speciale, in me. Sarei un eroe molto peggiore di te.
Era d’accordo con me anche lei, sapete. Ma capita a tutti un momento di debolezza. Con le lacrime agli occhi, Amelia sparò l’ultima cartuccia:
– Perché ti amo, e non posso accettare di vederti morire. Non dopo così poco tempo insieme. Non dopo tutti questi anni senza senso.
E lì la sentii di nuovo – sorda e sensuale, la tentazione di mandare tutto in vacca e vivere il resto della mia vita. Ma quando ami una come Amelia, e dico amarla sul serio, a parte che viene prima lei, ma poi bisogna che ti prepari a salvarla anzitutto da sé stessa. Finii di respingere la forza. Tornai a essere pesante, dolorante, a soffocare nell’acutezza della sofferenza e nel calore del sangue che mi usciva dovunque. Mobilitai allora le mie energie migliori, e risposi:
– Te ne farai una ragione. Non è colpa di nessuno. Cerca di vivere meglio, più felice. E cerca altri come te!
Mi feci pallido e freddo, sonnolento. Amelia ora piangeva a dirotto. Provai a dire: ‘Andrà meglio la prossima volta, amore mio’ – ma mi uscì solo metà della frase, e poco meno che un alito di fiato. Mi si spezzava il cuore a vedere Amelia in quello stato – ma il dolore va bene, il dolore è una reazione sana; il dolore passa, e si ritorna felici.

Quanto tempo è passato da quando sono stato portato quassù…? Forse pochi secondi, in questo torpore non mi riesce di capire se sono sveglio o sto dormendo. Non faccio che ripensare a questo ultimo anno – a ogni giorno, ogni ora che ho passato accanto ad Amelia; e al futuro che l’aspetta. Forse è un modo per farsi forza quando tutto si scollega, e vado finalmente in arresto cardiaco una seconda volta. Non sento più dolore – forse sono svenuto, e non ho ricordato la mia vita con Amelia, ma l’ho sognata – ho sognato i miei ricordi con lei. Che bello però, rimanere sospesi nel cielo, abbracciato al suo corpo magro e pallido, come tante altre volte. L’ultimo stimolo che mi arriva dal mondo esterno è un fiocco di neve sul naso. Apro gli occhi un’ultima volta. Uno, dieci, cento piccoli fiocchi. Forse è l’ultima nevicata di marzo, prima che venga la primavera.

Copertina originale di miryel

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Giulio Iovine. Nato a Bologna il 10/07/1987. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio 2021 ricercatore all’Università di Bologna, dove studia manoscritti antichi e insegna Papirologia. Pubblica prose, meme, teatro e video sui suoi profili Facebook e Instagram, nonché sul suo blog Il Monte Analogo; racconti brevi su riviste (tra cui Altri animali, Crack, Digressioni, Dimensione cosmica, Ei$ordi, Enne2, Il primo amore, Kairos, Malgrado le mosche, Micorrize, Quarta corda, Smezziamo, Spore, Turchese – lista completa in linktree); e romanzi su Wattpad (con il nome di ‘Francesco Storbini’). È membro della redazione della rivista Spaghetti Writers.

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