Scaliamo il passo in precario equilibrio, con il gelo a farci da manto. Il bacio di Inverno trapassa le giubbe e ci intirizzisce le ossa, sotto un sole beffardo che concede chiarore ma non calore. Kaneq saggia le asperità del terreno con le gambe inabissate fino al ginocchio, in una distesa di neve che avviluppa le insidie rocciose, in un inganno di letale morbidezza. Si volta a intervalli regolari per controllare che non finiamo preda di crepacci o slavine. Intanto le costanti scosse, prodotte dal lento incedere della Montagna in direzione di Safordeil, affievoliscono le speranze della nostra missione.
«Dobbiamo accamparci. Restano poche ore di luce.» Kaneq ci parla schermandosi il volto dalle raffiche di vento. Non teme le insidie del terreno e il passo è sicuro quanto l’illusione che si è costruito di se stesso. Il riverbero del crepuscolo, riflesso dal nitore d’Inverno, dona ai suoi contorni un’aura incandescente. «Aqui, Legia, avete capito?»
«Sì Kaneq» lo rassicuriamo. È parte del nostro compito.
Annuisce e strattona la corda a cui siamo legate per riprendere la marcia.
Dopo tante sventure, il fato ci arride. Incappiamo su una sporgenza a gomito, poggiata su una cresta di basalto abbastanza grande da creare un cantuccio dove accamparci. Stendiamo i teli, lavoriamo di martello, conficchiamo i picchetti; Kaneq verifica la resistenza degli spioventi dandoci le spalle. «C’è spazio solo per una tenda. Dovremo accontentarci.»
«Sei preoccupato.»
«Smettetela di mentalizzarmi» ci fissa perplesso «perché vi siete tolte i tabarri?»
«Sono fracidi.»
«Ho bisogno di sapere con chi parlo quando vi parlo.» Avvolge due strisce di tessuto intorno alle nostre braccia, all’altezza dei seni. «Iuta per Aqui, lino per Legia.» dal suo volto corrugato e stanco balena un lampo di soddisfazione. «Useremo le pietre per il fornelletto. Vado a cercarle. Intanto impermeabilizzate il telone.» Vorrebbe aggiungere altro, invece ci porge un vasetto di resina di pino, distoglie lo sguardo e apre la tenda.
«Lo fermeremo Kaneq, te lo promettiamo.» Proviamo a confortarlo ma lui è già fuori, inghiottito dalla bufera.
Torna cingendo peridotiti lisce e slavate. «Le ho trovate vicino all’accampamento. La fortuna continua a sorriderci.»
«La Montagna che tenta di sopraffarci è la stessa che dona parti di sé per la nostra sopravvivenza.»
«Se non le allestiamo prima del tramonto, Carnali, resterà vera solo la prima parte.»
Isealda, come riuscivi a strappargli sempre un sorriso? Come riuscivi a mostrargli ciò che volutamente ignorava? «Hai ragione, ti diamo una mano.»
Le pietre roventi sulla terracotta emanano caldi vapori all’interno della tenda e ci permettono di vivere un’altra notte. Lo spazio vitale è limitato a poche spanne: gli spifferi feriscono come aghi le parti scoperte del corpo e l’incessante sbattere dell’intelaiatura sul costone roccioso scandisce l’incedere del buio sulla Montagna Strisciante.
«Kaneq, resta sveglio.» gli scuotiamo la gamba con le nostre mani gelide.
Soppesa l’acciarino e se lo passa fra le dita «Dovrei essere spaventato e invece sono stranamente calmo.» Il fiato, a differenza del nostro, non gli si condensa quando respira.
«Inverno, prima di prendersi il corpo, inaridisce i ricordi e l’anima.»
«Parlatemi di qualcosa che non so, Carnali.»
Cerchiamo e ci stringiamo le mani sotto il telo riscaldato: «Ti narreremo la nostra storia. Ascolta.»
*
Tre parole ci cullarono durante l’infanzia e scandirono la nostra pubertà: assieme mai divise. Al tempo dei nostri primi vagiti Inverno aveva inghiottito, con il suo oblio di ghiacci e bufere, il granducato di Erendan e la città-fortezza di Tolda. La nascita delle predestinate era attesa già da quando la Montagna strisciante sovrastò le vette dei pascoli delle popolazioni nomadi degli Yushai. E spazzò via le carovane itineranti dei saltimbanchi di etnie miste. La fede cieca in un intervento divino che avrebbe dato pace ai sopravvissuti volse presto in livore e bestemmie, quando anche la mente dei regnanti e dell’erede fu avvolta dalla coltre di neve che ne annacquò i ricordi e ne svuotò i corpi.
Safordeil era intonsa e prospera nella sua frugalità. Leone e le sue rune protettive che cingevano le alte mura erano gli unici a risuonare nella valle. Inverno, e le sue tempeste perenni, erano ancora un mero spauracchio usato dalle madri contro i capricci dei figli; ma abbiamo conosciuto comunque il dolore. La morte compensò la nostra venuta al mondo reclamando nostra madre. Prima di spirare riuscì a dare alla luce la sesta di noi.
«Usate la mente, non la lingua.» ripetevano le balie come un mantra durante lo svezzamento nella sala delle cerimonie, sotto il grande stemma: “Un solo volto, innumerevoli aspetti.” non era solo l’immagine della Dea e il motto della nostra casata, era un augurio di prosperità per gli abitanti delle colline di Safordeil.
Nostro padre, Leone, iniziò a metterci i bavagli a quattro anni per imporre la concentrazione.
“Convogliate la parola. Fatela sgorgare nella mia mente e ve li toglierò” mentalizzava nelle nostre teste, a labbra serrate.
Eravamo vispe. Ci accarezzavamo l’un l’altra le teste glabre, coccolando il frutto del nostro potere. Guardavamo una nostra gemella riconoscendo, nel neo a goccia sullo zigomo sinistro, nelle ciglia a tinta bianca su carnagione dorata, i segni della nostra diversità.
Gli allenamenti cominciarono a cinque anni, a coppie. Era ancora troppo presto per il Legame e negli esercizi fisici e psichici andava bene una qualsiasi della cerchia.
Ci vietarono di toccarci. Al principio l’impossibilità di esplorare le peculiarità del nostro aspetto ci apparve come una tortura inutile. Poi ci arrendemmo alla nostra psiche parassita, così improntata alla condivisione da rischiare la pazzia se lasciata sola.
Per vestirci, per le pulizie corporali o per soddisfare un semplice prurito dovevamo chiedere a una gemella. Lo reputavamo un gioco, ma le scudisciate di Rulo alle trasgressive mutarono presto le nostre risate in pianti. Tremavamo ogni volta, vedendo il suo profilo da facocero varcare la soglia del nostro sancta sanctorum. La barba a chiazze falliva nel coprire le cicatrici e il sudore miscelato a vino gli conferiva un odore indelebile ben più delle sue punizioni.
Ci vietarono di domandare d’Inverno. Le poche nozioni sulla Montagna Strisciante che spazzava via interi villaggi, ci vennero inculcate da Leone: “Voi avete il dono della reminiscenza. La Montagna Strisciante potrà avanzare ma non ci sarà raffica o tormenta che riuscirà a privarvi dei ricordi. Non arriverà a ghermirvi e voi, privandolo delle sue armi, arresterete Inverno.” Ci trasmise tutte le sue conoscenze, basate unicamente sulle leggende e tutto il suo orgoglio e la sua rivalsa per un’entità mai vista, mentre noi eravamo lì a chiederci che suono potesse mai avere la voce di nostro padre.
Rulo poneva termine ai nostri dubbi con un lapidario: «Smettetela o Inverno vi prenderà.» tra una frustata e l’altra. Era crudele ma mai violento oltre il necessario e reagiva ai nostri calci e urla con imprecazioni a Mudrael.
Se Rulo era il bastone, la vecchia Enia era la carota. Entrava con passo strascicato e la sua gobba avvicinava alla nostra altezza una faccia smunta, impreziosita da rughe e lentiggini. In sua presenza potevamo toglierci i bavagli per mangiare, parlare ed esplorare le vaste stanze del palazzo.
«Cosa ci troverete nel correre in androni vuoti.» borbottava Enia, appoggiandosi al grosso bastone nodoso, mentre ci scapicollavamo lungo i corridoi disputandoci antichi tappeti e usando corrimani come scivoli. Parti di armature arrugginite, drappi sfilacciati e mosaici affastellati erano i nostri tesori. E combattevamo per difenderli, contro nemici di fantasia sempre troppo stupidi o lenti per reggere al nostro confronto.
Nella lotta secolare delle stanze contro la decadenza, solo la biblioteca mostrava orgogliosa il suo fasto: intarsiata da fregi, oltre a essere integra, era anche magnifica. Conteneva ogni copia di libro scampato alle tormente di Inverno e ai suoi sgherri di ghiaccio; imparammo a leggere e scrivere e i rudimenti runici divennero la nostra cosmesi.
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Dapprincipio pittavamo le rune sulla pelle; poi, vedendole sparire nei lavaggi mattutini, le imprimevamo sui bavagli cosicché, anche da mute, c’infondevamo forza.
«E quella sarebbe una runa?» soleva dire Enia dandoci uno scappellotto «Avete scritto “Assieme parassite”. Più piccola la runa centrale, deve formare una curva alla fine, dando l’idea del movimento. In questo modo.» E con mano tremante immergeva il pennino nella china e vergava:
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Assieme mai divise
L’allenamento ci sfiniva. Durante la notte, distese nei giacigli di fieno e lino vicino alle librerie opulente, sentivamo il dolore covare nei muscoli come braci latenti. Tale era la stanchezza da battere l’euforia di essere lasciate sole.
Le nostre cosce si bagnarono di sangue durante l’equinozio di Mudrael, la Dea dai molti aspetti. In omaggio alla maturità acquisita, papà ci venne a trovare due volte in quella stagione. “Siete nate benedette dall’immagine della Dea. Ognuna di voi sarà il Legame per una sorella. Aspettate che i capelli vi scelgano e l’intero volgo intonerà lodi al miracolo di Mudrael, il miracolo della reminiscenza.” mentalizzò papà “È un grande onore. Dovrete meritarvelo.”
Al comando distendemmo i palmi in avanti formando con le mani un triangolo unito dalla punta degli indici e dei pollici: “Assieme mai divise” le rune mutarono in parole nelle nostre teste e, passando di mente in mente, crearono echi di cacofonie. Fu la nostra prima condivisione mentale.
La fertilità spazzò via antichi divieti e apportò cambiamenti: ci tolsero i bavagli – oramai legacci inutili – ampliarono lo spazio abitativo includendo il parco, l’osteria del Luppolo Magico, le stalle e il sanatorio. Conoscemmo Vion il menestrello e suo fratello Iosen il falconiere, dama Isealda la cerusica e infine te, Kaneq. Ti presentarono per ultimo ma diventasti il crocevia delle nostre scelte.
Tanti e tali erano i nuovi stimoli da renderci euforiche e libere dai nostri manierismi. In questa nuova condizione ci innamorammo di ciò che eravamo e non più di quello che rappresentavamo. L’amore verso se stessi è miope e vacuo se non si è Carnali; nell’impossibilità di stupirci risiede la nostra passione. Baciarsi come forma di autoerotismo; baciarsi con l’altra sorella che ci completava e sentire che – se solo l’avessimo voluto – avremmo potuto attorcigliare le lingue e non smettere di parlare d’amore alle nostre menti. L’infatuazione, il tormento, l’ardore coincisero con la simbiosi e l’annientamento del ragionamento singolo, di una singola azione, di una latrina vuota .
Cominciammo a ripescare ricordi. Le nostre memorie passarono da laghi limacciosi a sorgenti cristalline. Rammentammo il volto cereo di nostra madre quando eravamo ancora in fasce, le conversazioni fuori dalle culle. Nulla di ciò che era stato detto, o visto, in nostra presenza poteva essere dimenticato. La consapevolezza del nostro potere viaggiava di pari passo all’impotenza nel vedere avvizzire le memorie dei nostri cari.
Smarrite in pensieri inesplorati ci sfuggì il grido d’allarme negli occhi sbarrati di Enia. Le sondammo i pensieri quando era già accasciata su un lato ma percepimmo soltanto un guscio vuoto. Restammo lì a vedere gli steli pressati dal corpo immobile e privo di sorriso di Enia senza renderci conto che stava già sfumando in ricordo. Rulo se la caricò sulla schiena, lasciando la sua sottana indifesa alle raffiche di vento. Arrivasti tu esigendo quel corpo e pretendendo rispetto. Rulo rise sguaiatamente mostrando la bocca sdentata. Gocce di pioggia caddero a ingrigire quel mattino, Vion declamò un verso:
Cinge la vittima di ghiaccio vestita e l’afflato incalza.
Il grido feroce annuncia il turgore giacché lei la coglie e balza!
Spegne la fiamma e innalza nel ciel la sua mortale danza.
D’orror compresa ogni finta dimora giacché la Montagna, miei convitati, s’avanza.
Lasciasti terminare l’arpeggio, poi allargasti le gambe, serrasti la mano e colpisti Rulo in pieno petto. Lo stupore sul suo viso da maiale fu tanto rapido nell’apparire quanto la sua caduta a terra. Vedemmo rimbalzare il suo capo e le sue gambe nella ghiaia e, quando alzammo lo sguardo, tu cingevi Enia e le rassettavi la veste.
«Vion, chi è Inverno?» chiedemmo d’istinto, libere dai divieti della fanciullezza.
«È la fine dei ricordi, Carnali. È la fine di tutto.»
Avremmo potuto interrogare i suoi pensieri, ma la morte di Enia era impressa a fuoco come un marchio indelebile di fallimento e ci richiudemmo in noi stesse.
Spaventate dal futuro che ci attendeva, prendemmo a ravvivare frammenti del passato eleggendoli a nuovi presenti conosciuti, senza morti o carestie; incidevamo rune nella biblioteca cercando ancora con lo sguardo l’approvazione di Enia, sorretta dal nodoso bastone. Il vuoto durò poco. La cerusica occupò quello spazio ma non scalzò il suo posto. Ben più procace, il paragone con Isealda risultò per noi impietoso e indigesto; mosse da gelosia, la rendemmo bersaglio di cattiverie. Divenne la bambola di pezza mai ricevuta in dono. I suoi sogni li trasformavamo in incubi, un segreto gelosamente custodito lo strillavamo dalle finestre: «Isealda si accoppia con Kaneq.» berciavamo. «Lo fanno diverso dai cavalli.» sobillavamo.
Alla fine di una delle assordanti tempeste, quando i falchi spiccarono il volo allontanandosi dal nostro nido con pergamene di speranza legate alle zampe, tu piombasti nella grande sala. Avevi i pugni serrati ed eri paonazzo: «Stupide, siete delle stupide.» l’impeto di rabbia schermò i tuoi pensieri lasciandoci attonite, in balia di quel vociare simile alle bufere che sconquassavano la corte. «Se la esilieranno, io la seguirò.» I tuoi occhi imbizzarriti cercavano i nostri e trovarono le rune: «Assieme mai divise? Oltre le mura protettive vi chiamano il serraglio.» Ti battesti due dita sulla fronte «Avanti! Leggete qua.»
Ma noi non ci riuscimmo e ci spaventammo. Abituate alle riverenze e avide di attenzioni non eravamo pronte a essere investite da un’ondata d’odio. Io e Leia, confrontandoci con la tua figura imberbe e la tua scelta da uomo, ci domandammo cosa si celasse dietro tale sofferenza. Cosa rendesse torbide le tue intenzioni. Pensammo fosse la rabbia, volevamo fosse così. Essere punite per non aver predetto la fine di Enia era un nodo in gola che non si sarebbe più sciolto. E nei nostri successivi conciliaboli non venne mai fuori la rivelazione che più di tutte avrebbe potuto salvare diverse vite.
Scusa. Stiamo tergiversando. Tirando le somme ci facesti bene senza saperlo.
Smettemmo di torturare Isealda lasciandola al tuo amore – un amore incomprensibile per noi proprio per il vostro essere così diversi – cancellammo la parola servitori dal nostro metro di giudizio e la sostituimmo con famiglia. Iosen raffinò la nostra mentalizzazione facendoci saggiare l’istinto rapido e semplice di cavalli e rapaci. Vion, dai capelli refrattari al pettine e un disordinato orgoglio nel vestirsi, corroborava il nostro apprendistato melodiando la ripetitività delle nostre giornate. Era vanaglorioso e non perdeva occasione per dar sfoggio di sé, dedicandoci al principio versi soavi:
Ero a vagar d’ardore quand’i acclamai sei bimbette note.
L’una e l’altre parlavan in bocca cucita,
e si udì solo l’ululo d’una mente rapita.
Era la vita lor tanto soave e commuove
Ch i dissi: «Voi tenete il vessillo
ch’ogni vertà si è schiusa a pistillo.»
Fino a scemare, dopo anni di convivenza, in goliardie da giullare:
Il gelo esecrale, la pugna immorale, suvvia riempiam un altro boccale.
Safordeil geme, smunge e arranca, allor com’è ch’io ho questa panza?
Svelato è il mistero, coi topi e li vermi s’è stipulata alleanza.
Le odi di speme trarran in inganno,
e dal cor invigorito giungerà il danno.
Ridiam bivaccati del sommo ideale poiché la storia s’è fatta amorale.
*
«Non è la prima volta che mi raccontate queste vicende, vero?» ci interrompe Kaneq.
«Vero.»
«Da quanto ho perso la memoria?»
«Qual è il significato del tuo nome?»
Muove il braccio stizzito «È così importante, ora?»
«Ha forse importanza fare la conta dei giorni andati se non ce ne saranno altri su cui contare?»
Sorride mesto: «Non ho bisogno della memoria per capire che mi tacete qualcosa. Se proprio dovete parlare di qualcuno, parlatemi di mio padre.»
Siamo colte da brividi: «Possiamo parlare della nostra famiglia e di ciò che è stato in contatto con noi. Una rievocazione è tale solo se è stata vissuta.»
Resta deluso: «Allora evitate il pezzo delle ballate. Fatemi scegliere i motivi per cui combatterò Inverno.»
«Ti sei scordato di essere orfano? Dicci i nomi delle nostre sorelle. Quanti anni hai?»
«Sto benissimo.» Fissa un punto oltre la tenda come se si aspettasse le risposte dalla Montagna. «Ricordatemi come sono cresciuto.»
«E sia, Kaneq. Continua ad ascoltare.»
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Copertina di William Bersani
2 pensieri su “Assieme mai divisi #1”