Torneranno gli uomini sulla Terra? Copertina originale di Francesca Riscaio

Torneranno gli uomini sulla Terra?

Quando i vermi uscirono dalla terra, noi eravamo tutti lì. Cominciarono a spuntare da ogni anfratto e piega del terreno, dalle fratture dell’asfalto sulle strade, dai cretti dei marciapiedi, dai piazzali venati di supermercati, scuole, magazzini. Mari, oceani e fiumi depositavano, sulle rive e sulle sponde, quantitativi sorprendenti di cadaveri di bigattini che affioravano in superficie, spesso già esanimi, come schiuma sulle onde. Fu la più oscena primavera mai vista, con larve che germogliavano al posto dei fiori. La terra iniziò a vomitarceli addosso senza motivo comprensibile: all’inizio pochi, come se sospirasse o sbuffasse e al posto dell’aria, dalle sue bocche, uscissero bachi di sego; poi un getto continuo, un rigurgito ininterrotto di vermi, che si contorcevano affollandosi gli uni sugli altri, rivestendo il terreno, un brulicare perpetuo, disgustosamente biancastro.
Nessuno percepì quelle bestiole come un pericolo. Rimanevano dove sbucavano a contrarsi, come in preda a spasmi dolorosi, o spostandosi di una manciata di centimetri. Spesso, venivano trascinati via, scostati dal fluire continuo dei loro simili, che fuoriuscivano dalle stesse fessure. Bambini crudeli e ragazzetti annoiati si divertivano ad ammazzarli, dopo infime cattiverie, nei modi più fantasiosi.
Vittorio, il mio vicino, un contadino arrivato alla contemporaneità direttamente dall’inizio del XX secolo, fu l’unico del paese a dichiarargli guerra. Liberò le quattro galline, tenute come compagnia, e tutti i suoi maiali, salì a cavallo del trattore e percorse avanti e indietro i campi, che possedeva intorno a casa, per sottrarli all’invasione di quei repellenti parassiti, schiacciandoli con le grosse ruote del mezzo agricolo. Chi passò e lo vide quando tutto iniziò, lo credette pazzo. Morì per un collasso a bordo del trattore, mentre ancora cercava di difendere i suoi terreni, ma, mentre molti lo videro scendere in guerra, solo io e pochi altri sapemmo come finì la sua battaglia e quella della sua ciurma di animali.
Il fenomeno riguardò il mondo intero. Le notizie si rincorsero e accalcarono come i vermi di cui parlavano. Vennero istituiti tavoli di crisi internazionali. La questione ebbe risonanza mondiale, ma tutto era confuso, vago. I politici cominciarono a twittare incolpandosi vicendevolmente di ciò che stava accadendo. I social media si riempirono di foto e post. Alcuni, in principio, trovarono l’avvenimento divertente. Ad altri, molti, sembrava assurdo, paradossale, certamente incomprensibile. I vecchi snocciolavano frasi logore e monotone sui tempi andati. I catastrofisti non la finivano di parlare di una eventuale, irreversibile compromissione dell’ordine naturale che avrebbe determinato la nostra estinzione. Ma pochi li ascoltavano e la maggior parte di noi non prendeva sul serio la questione. Il giorno dopo i primi affioramenti, ricordo di essere uscito a spalare bachi dall’ingresso, insieme a mio figlio, che mi saltellava intorno divertito. Li avevamo visti accumularsi sul far della notte, come fossero stati neve che si depositava sul mondo circostante. Era parso un gioco spalarli via. Quei bigattini inermi, niente affatto pericolosi, che sotto le suole delle scarpe e sotto gli pneumatici delle auto nuove fiammanti, pagate a rate come le nostre vite di allora, diventavano pesto pantano, non sembravano poterci nuocere in alcun modo.
Ma non smisero di uscire dalla terra. Anzi, la quantità prodotta dal maestoso corpo celeste aumentava esponenzialmente al passare delle ore. Così come la loro dimensione. E accanto ai piccoli bigattini, ricordo delle domeniche passate da bambino a pesca con mio zio, sbucarono vermi lunghi come bisce. Con i corpi grassi, tozzi, goffi, contorcendosi come in preda a un terribile mal di pancia, erano veramente buffi da vedere, ridicoli, ma nessuno rideva più. Uscivano dai tombini, spinti fuori da chissà quale forza, dai canali di scolo, dagli scarichi delle cucine e dei bagni, dai rubinetti. L’acqua scorreva impastata di cadaveri di larve, poi smise di essere acqua e divenne poltiglia, miasmatica e densa come il latte scaduto da lungo tempo e dimenticato fuori dal frigorifero. Il più grande Black Friday cui l’umanità avesse mai assistito: i vermi invadevano ogni luogo, mischiandosi con le persone fino a travolgerle, fino a non poter più distinguere nessuna forma umana nell’onda verminosa. Le piante, gli animali soccombettero rapidamente. Gli uccelli per un po’ banchettarono lieti. Ma, a un certo punto, non c’erano più posti stabili dove potersi posare e anche per loro la partita divenne ardua.
Il giorno in cui i colossi uscirono dai vulcani, noi eravamo ancora tutti lì. Cercando di districarci nella marea strisciante nella quale stavamo affogando. Eruttarono, giganteschi e osceni; vermi grossi come montagne si abbattevano sui propri simili, che ormai si erano sostituiti al suolo. Precipitarono a peso morto sugli oceani ridotti a paludi putride, sulle città costipate e brulicanti, su tutto ciò che era stata la terra. Questa si squarciò in diversi punti sotto l’impatto delle loro masse, inghiottendo interi paesi, province, uomini e vermi stessi. Fu come se il magma contenuto nelle profondità del pianeta si fosse trasformato in bestie striscianti e fosse esploso, senza mai esaurirsi. Il suolo borbottava e tremava sotto i nostri piedi, come se ribollisse, poi, i vulcani scatarravano fuori le immense, flaccide e schifose larve, che ci piovevano addosso come resti di titaniche esplosioni nel cielo. E fu così che sprofondammo nel ventre del pianeta.
Le eruzioni diminuirono, divennero mensili, come il ciclo delle donne, quasi un monito ai superstiti. Per tutto il tempo in cui durarono, i bachi di sego più piccoli non smisero mai di affiorare in superficie né dopo si fermarono. Noi cercammo spazio nelle fratture apertesi, sotto il suolo, scavando cunicoli e gallerie.
C’è da chiedersi perché non tentammo di opporci, non facemmo qualcosa per impedire che tutto ciò accadesse. Suppongo ci aspettassimo che fossero i governanti a prendere in mano la situazione, gli eserciti, che chiunque altro si ribellasse, ma non certo noi. Non potemmo reagire: da quando spuntarono le prime larve a quando i vulcani eruttarono, trascorsero pochi giorni. Fu come un’inondazione: semplicemente il livello crebbe talmente tanto velocemente e costantemente che realizzammo il pericolo nel momento in cui fummo sommersi. Arrivavano già alla gola di un uomo adulto quando, tre, forse quattro, giorni dall’inizio della vicenda, la terra si ruppe stramaledicendoci nei suoi recessi più profondi.
Ci furono tentativi di contenimento o risoluzione del fenomeno, che finirono in dramma e senza alcun successo. Soldati esaltati con lanciafiamme andavano in giro, come ragazzini a una scampagnata, arrostendo i nuovi abitatori del mondo. Ma quelli continuavano a sbucargli intorno, anche nei punti dove tutto ardeva, così l’incendio si propagava raggiungendo i soldati stessi, per poi continuare a mangiarsi superfici sempre più grandi senza mai fermarsi, fino a una nuova eruzione che faceva crollare l’intera area in fiamme e sedava il fuoco. L’aeronautica provò a bombardare zone estese nel tentativo di mondarle. Ma gli aerei, quando riuscivano a decollare, rovinavano al suolo. Le cabine brulicavano di larve, e, mentre i piloti provavano a svuotarle, continuavano a riempirsi, come se si formassero dentro gli abitacoli. Alla fine, i temerari e gli impazienti decidevano di prendere il volo, ma la conclusione rimaneva la stessa: perdevano il controllo e precipitavano sulla marea inquieta di bigattini sottostante.
Non sono stato testimone diretto degli eventi. Mi trovavo già sottoterra, quando accaddero. Il giorno in cui la terra cedette, persi mio figlio e mia moglie. Non c’era niente per me sopra, perciò mi arresi al suolo, senza più desiderare di vedere la luce del sole. Le storie dei bombardamenti e degli incendi arrivano dalla superficie, dagli ultimi che tentano di resistere. O, meglio, arrivavano. È un po’ che non abbiamo più contatti con gli abitanti di sopra. Mi chiedo quanti ne siano rimasti. Ce ne saranno ancora?
Quelli che erano tra le stelle non poterono rientrare.
Uomini delle stelle.
Uomini del sottosuolo.
Se ci penso, scoppio a ridere.
Dicono che dallo spazio la Terra sembri una enorme larva biancastra, arrotolata su se stessa.
Puzza, la Terra. Tutto puzza. Di marcio, dolciastro fetore. Il lezzo delle patate in putrefazione. È nauseabondo.
Sembra che gli astronauti bloccati nel cielo siano in contatto con degli scienziati, scampati miracolosamente all’inondazione verminosa, barricati in una manciata di laboratori-torre resi impenetrabili da potenti tecnologie; rinchiusi nei loro baluardi futuristici, in costante contatto con gli uomini delle stelle, lavorano ininterrottamente per trovare una soluzione, per restituire speranza all’umanità.
Sembrano tante cose. Di racconti ne sono girati parecchi.
Certo è che siamo esiliati qua sotto, noi, superstiti della razza umana. E non fa alcuna differenza la lingua parlata o il colore della pelle. Non ci distinguiamo più bene e non parliamo quasi mai.
All’inizio, molti provarono a risalire, a riprendersi ciò che gli apparteneva. Ma, per emergere da un oceano inverminato, non serve saper nuotare, non basta coordinare le battute dei piedi con i movimenti delle braccia per ritrovarsi a galla, così come non è sufficiente saper arrampicare per superare frane di bachi. A quelli che non tornarono non si sa bene cosa successe. Ma divennero sempre meno i coraggiosi che tentavano la risalita. Noi, quelli che si fermarono sotto, provammo a riprodurre qui il mondo conosciuto, a organizzarci, cercando di realizzare tante Moria dei disperati. Io, ingegnere laureato in corso con il massimo dei voti e con un’esperienza di qualche anno, pensai di poter aiutare a costruire un nuovo universo sotterraneo, di essere utile ai sopravvissuti della mia specie. I vermi nel sottosuolo non stanziano. Affiorano e scorrono verso l’alto, a flusso continuo, lasciandoci un po’ di posto per muoverci, per esistere. Ma è come se fossimo vittime di una tremenda maledizione: non appena riuscivamo ad abbozzare una struttura sotterranea complessa, una nuova eruzione si abbatteva sulla terra, facendola tremare fino a sconquassare le nostre Khazad-Dûm appena edificate, causando morte e rovina. Ci accorgemmo allora che esclusivamente i cunicoli piccoli, appena sufficienti a contenerci, nei quali ci si poteva muovere attraverso solo strisciando o al massimo andando carponi, non crollavano. Perciò fummo costretti a ridimensionare i nostri progetti: invece di mitiche miniere di nani a più livelli colme di tesori da scoprire, ci trovammo a scavare agglomerati da talpe. Esistono gallerie più grandi, reggono miracolosamente alle scosse, ma sono talmente rare e corte che, ormai, abbiamo preso l’abitudine di gattonare anche lì. Non sappiamo più stare eretti. Abitiamo in questi stretti formicai, in buche lungo i passaggi che usiamo per spostarci, con l’aria appena sufficiente a sopravvivere, nel buio quasi completo, alla ricerca di affioramenti di acqua non invasi da larve. Ma, se ci sguazza dentro qualche vermicello, non facciamo più complimenti, perché infine i bigattini sono diventati il nostro nutrimento. I primi tempi, cercavamo radici da rosicchiare, ma, quando cominciammo a perdere i denti, marciti e putridi, ci accontentammo di scovare muschi e funghi. Dopo non molto tempo, dovemmo rassegnarci a pasteggiare a larve. Era l’unica cosa a non mancare. Facile da reperire. A portata delle bocche di tutti.
Capita di mangiare altri esseri umani, li succhiamo per la precisione: fatti a pezzi i corpi, teniamo in bocca la carne e le ossa e le frattaglie per ore e ore. A volte, ci aiutano i bigattini. Si fermano a banchettare con noi. Mi è capitato spesso di portare alla bocca brani di cadavere pullulanti di compagni di convivio. Gli umani, li mangiamo quando sono in punto di morte, ma solo per fare spazio, per praticità: i rifiuti organici ci creano enormi problemi, non siamo cannibali. O, forse, sì. In fondo, tra noi e i bachi di sego di cui ci nutriamo non c’è molta differenza. Dal giorno in cui apparvero, sono passati circa quarant’anni. Se i miei conti sono giusti. Con il tempo, vivendo nel sottosuolo, molti di noi sono mutati, deformandosi. E i figli, perché, nonostante tutto, da brave bestiole quali siamo continuiamo a mettere al mondo figli, beh, dicevo, i figli che nascono paiono usciti dai più orrendi incubi di Lovecraft. Mi chiedo se torneranno mai gli uomini sulla terra. Mi viene da ridere. Sarebbe più opportuno domandarsi se gli uomini potranno mai essere di nuovo humus. Ma, in fondo, noi, humus, lo siamo stati veramente? O è ciò che stiamo diventando? Magari, invece, quando avremo perso la coscienza di ciò che eravamo e il processo di trasformazione sarà completato, quando infine saremo diventati anche noi vermi, allora, forse, potremo tornare a sorgere dalla terra a occupare il posto che ci spetta. Dubbi. Domande. Ma nessuna risposta. Nel buio fetido delle gallerie, dove si sentono solo i suoni sordi di corpi trascinati, mente il terreno umido mi si impasta addosso, provo a non pensarci e riprendo a strisciare anch’io a caccia delle larve più grosse da mangiare.

Copertina di Francesca Riscaio

3 pensieri su “Torneranno gli uomini sulla Terra?

  1. Mi è piaciuto molto come Francesca ha portato all’estremo, in maniera convincente, l’idea base dei vermi. Il finale è perfetto. Lo stile è scorrevole, ma ricco, con frasi ben segnalate da punti e da virgole. Il racconto mi ricorda un po’ Kafka de “La tana”, forse per l’idea dei sotterranei, ma anche per la situazione surreale. Bella e suggestiva cover, anche quella di Francesca. Da leggere.

  2. Grazie molte, Maurizio, per il tuo supporto, grandemente apprezzato. Sono contenta che la cover ti sia piaciuta, ci tenevo molto… ed essere accostata a Kafka, be’, un onore! Grazie ancora! Francesca.

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