«Ti puoi girare per favore? Devo cagare».
«Di nuovo!», la voce gli uscì più forte di quanto avesse voluto, così ripeté in un sussurro: «Di nuovo!».
«Non è colpa mia se non ci riesco. Non è colpa mia se mangio solo cracker e gallette».
«Senti, ragazzina. Secondo me dovresti essere contenta di avere qualcosa da mangiare. Anche se fa schifo».
«Be’, non lo sono. E non sono più tanto una ragazzina visto che non ti sei ancora girato. Guarda che te la faccio qui».
«E va bene, va bene». L’uomo si voltò dall’altra parte, verso i sacchi con i vestiti e il mucchio di coperte sudice su cui dormivano.
Dividevano la stanza con una colonia di scarafaggi e il cibo era sempre un’incognita, ma le cose non andavano poi tanto male. A parte quando litigavano, ovviamente – e litigavano spesso. Si sa, la convivenza sa esser difficile, soprattutto quando è soffocata da mura tanto strette.
«E adesso perché apri la finestra?».
La ragazza lo fissò come fosse impazzito. Odiava quando la guardava così.
«Scusa tanto. Non credevo ti piacesse la puzza di merda».
«Non mi piace, infatti. Ma è giorno, là fuori. Possono vederci».
«Con tutto il casino che stai facendo, se non ci hanno visti, ci avranno sicuramente sentiti», disse mentre, sconfitta, chiudeva la finestra. In fondo, litigare non le piaceva. Le faceva venire l’asma. Come se la polvere non bastasse.
«’spetta», la interruppe.
«Che c’è?».
«’scolta».
Per un momento stettero zitti, le orecchie tese verso il pomeriggio trasparente.
«Ancora quel disco… », sussurrò lei. Piano, per non farlo arrabbiare.
«Non è un semplice disco. È una colonna sonora. Me la ricordo. È di un film vecchio, di quelli in bianco e nero».
«Un film in bianco e nero? E come fai a ricordartelo?».
Lui rise forte. «Perché scusa, quanto tempo credi sia passato da quando li giravano? Non li hanno mica fatti nel Medioevo».
«Non lo so, io… non ricordo molto di com’era prima».
Da qualche parte risuonarono degli spari, ma non ci badarono. Sembravano lontani.
Le sere le trascorrevano per lo più in silenzio. Un po’ per la paura di essere scoperti e un po’ perché non avevano poi molto di cui parlare. La ragazza era una bambina agli occhi dell’uomo e l’uomo un vecchio agli occhi della ragazza. Non c’era verso che andassero d’accordo, eppure erano da una vita che si trascinavano assieme da un posto all’altro. Da quando lui l’aveva trovata tremante e mezza morta di fame, non si erano più lasciati.
«Senti un po’», gli disse lei quando si furono calmati, «ma se quel disco ti piace tanto perché non andiamo a vedere chi è che lo mette?».
«È una colonna sonora. E non vedo cosa potrei mai ottenere ad andare fin lassù. A parte farmi ammazzare, intendo».
«Guardati…».
«Parla piano».
«Guardati intorno», riprese in un filo di voce, «i cracker sono quasi finiti. E anche le scatolette. E anche l’acqua».
L’uomo non rispose, e ciò significava darle ragione. Le notti non erano ancora poi tanto rigide, ma presto o tardi l’inverno li avrebbe travolti. Pensò con un brivido agli spifferi che correvano tutto intorno alla finestra: dormire da quel lato della stanza era impossibile già allora, figuriamoci quando sarebbe arrivato il freddo vero. E la porta? Si chiudeva a malapena. Ancora poche settimane e, se la fame li avesse risparmiati, sarebbero morti congelati.
«Sai quell’idea stupida di prima? Quella dell’andare a vedere da dove suona quel disco? Forse non è un’idea così stupida».
Restò in attesa della solita risposta puntuta, ma dal buio la ragazza gli restituì soltanto il respiro lento e regolare del proprio sonno.
L’indomani fu lui a doverla convincere.
«L’hai detto tu! Abbiamo quasi finito la roba da mangiare. E hai idea del freddo che farà tra un po’ in questo buco?».
«Sì, ok. Ma adesso? Abbiamo sentito degli spari ieri!».
Non le rispose. E cominciò a prepararsi.
Coperte, stracci, scatolette, borracce e scarpe di ricambio. I guanti e le torce. E il coltello. Due zaini.
Il loro tutto.
Quel pomeriggio la colonna sonora suonò di nuovo.
Per capire da dove venisse, restarono con le facce incollate alla finestra per tutta la durata del disco. Ed ebbero conferma che il loro amico doveva essersi barricato nell’unico palazzo ancora in piedi nella vecchia piazza del mercato. Quello alto, quello tutto marrone, quello con ancora le vetrate attaccate.
Iniziarono a elaborare il piano mentre spostavano il mucchio di robaccia messo davanti alla porta a mo’ di barriera – un paio di vecchie sedie col legno marcito, pezzi di lamiera, un’asse da stiro recuperata chissà dove.
«Allora ragazzina. Ecco che cosa faremo. Questa notte…».
«Questa notte? Vuoi partire di notte?».
«Meno probabilità di essere visti. Meno probabilità che ci sparino dietro».
«Più probabilità di finire in un buco. Assoluta certezza di non trovare la strada».
«Ascoltami invece di fare storie. Ci avviciniamo il più possibile al palazzo, ma non ci mettiamo a cercare da subito. Aspettiamo, invece. Dobbiamo aspettare il pomeriggio, quando farà ripartire la colonna sonora. Altrimenti come lo troviamo l’appartamento?».
Lei fece di sì con la testa, ma non alzò lo sguardo da quello che stava facendo.
Sapevano che la notte sarebbe stata silenziosa e sapevano che la notte sarebbe stata buia, ma furono sorpresi da quanto davvero lo fosse. Un gruppetto di nuvole basse copriva la luce della luna e non si sentiva una mosca volare. Il che rendeva ancor più pericolosa la loro traversata. Avrebbero potuto urtare dei calcinacci o una bottiglia. In quel silenzio così cristallino, anche uno starnuto poteva metterli nei guai. Così camminavano vicini, a volte tenendosi la mano senza saperne il perché.
Quando si furono avvicinati abbastanza, si nascosero dietro i resti di un muro abbattuto e si guardarono attorno. La piazza del mercato era immobile. Allora si sedettero, con le orecchie rivolte alla notte. Le strade deserte tacevano.
Potevano entrare.
Il portone era sfondato e ricoperto di graffiti – bestemmie, oscenità, un uomo senza testa che invitava ad entrare – mentre l’atrio manteneva ancora una parvenza di civiltà. C’era una pianta divelta e dei vetri rotti, ma erano state risparmiate sia la moquette che le cassette delle lettere.
Avevano bisogno di un posto riparato dove passare la notte. Alla ragazza venne in mente il gabbiotto del custode, e non fosse stato per il cadavere che ci trovarono dentro sarebbe stata una buona idea. Allora ripresero a cercare, con la sola luce delle torce a illuminare le scale deserte. Camminavano mano nella mano per non perdersi e trascinando i piedi per non incespicare. Quando arrivarono all’ascensore, si accorsero ch’era bloccato al pianterreno. Dalla puzza, qualcuno doveva averlo usato come bagno per un mucchio di tempo, ma restava comunque un rifugio ben riparato e facile da difendere: avrebbero trascorso la notte lì.
Gettati in terra zaini e coperte, si tennero stretti e aspettarono insieme il mattino.
Al loro risveglio le granate tuonavano già.
«Ma non ha paura a mettere la musica così alta?», gli disse lei dopo un po’.
«Bè, da lassù può guardarsi intorno e capire se qualcuno si avvicina. Deve sentirsi invincibile».
Chiusi nell’ascensore, seduti tra cartacce e bottiglie di plastica ingiallite, aprirono una scatoletta di mais. Mangiarono con le mani, velocemente, raschiando con le unghie il fondo di latta per poi leccarsi le dita sporche di olio.
«Secondo te…», iniziò la ragazza. Le labbra le si muovevano a malapena mentre parlava. Il volto, emaciato e immobile, sembrava una maschera di cera.
«Aspettiamo».
«Ma cosa gli diciamo a quel tipo?».
«Ci penseremo quando saremo lì».
Al primo attacco dei violini scattarono in piedi come dei soldatini.
«Facciamo piano, ok? Potrebbe essere una trappola».
Lei fece di sì con la testa e diede un colpo di tosse. Da come si muoveva sembrava dovesse svenire da un momento all’altro.
Sui gradini bisognava fare attenzione a tutte le cianfrusaglie che qualcuno – magari lo stesso Signore della Musica – vi aveva gettato. Vestiti luridi, valigie sventrate, un carrello della spesa. Salivano lenti, con le schiene attaccate alle pareti. L’uomo si sentì come in un film di profanatori di tombe.
«Che puzza di piscio».
«Sst».
La musica cresceva di volume e d’intensità. Tamburi, piatti e tromboni. Un tripudio di fiati. Suoni che la ragazza non aveva mai sentito.
Si fermarono sul pianerottolo dell’ultimo piano. Non poteva essere altrimenti. Le rampe di scale su in cima erano un labirinto di rottami e vecchie stoviglie. Era evidente che chiunque vivesse lassù non volesse visite. Ma allora perché, perché…
«Entriamo?», sussurrò lei. Ma la musica era talmente alta che l’uomo non la sentì.
«Come?».
«Entriamo?».
Lui non rispose. Respirava forte, con il petto scheletrico che seguiva il saliscendi di quel ritmo forsennato. La musica esplose, si schiantò con un piatto, tacque e ripartì.
«Questa è l’ultima. Suonava sui titoli di coda».
Lei fece un cenno con la testa.
«Tieniti pronta a tutto, va bene ragazzina?».
La porta li attendeva socchiusa. Probabilmente la persona che viveva lì non aveva mai posseduto le chiavi dell’appartamento, e dopo averla chissà come sfondata, non se l’era più richiusa alle spalle.
Entrarono inosservati. L’uomo aveva tirato fuori il coltello dallo zaino senza rendersene conto. Lo teneva in una mano tremante che pareva quella di uno scheletro tanto era bianca e scarnita.
La stanza, spaziosa e scevra d’oggetti, aveva il soffitto a pannelli come quello degli uffici. Alcuni fili penzolavano senza vita fin quasi a toccare per terra. Negli angoli, scatoloni ammassati, bottiglie e pacchi di vestiti e coperte.
Il Signore della Musica, con il sole del mattino alle spalle, non era altro che un’ombra. Davanti alle vetrate, gli occhi chiusi e le mani unite in un cerchio, saltellava di qua e di là con la grazia di un altro mondo. Anche i suoi vestiti – una giacca di tweed marrone con delle righine gialle e un elegante pantalone grigio – sembravano arrivare da un luogo e da un tempo lontani. Si muoveva leggiadro come volesse inseguire i violini e gli archi fuori dalle grandi finestre, come volesse librarsi in volo e sorvolare la città distrutta.
L’uomo si voltò verso la ragazza e vide che piangeva. Allora le fece cenno di aspettare. Fece un sospiro, spostò lo sguardo sul Signore della Musica.
E con un scatto gli si avvicinò e l’uccise.
Copertina di Arianna Cislacchi e Matteo Candeliere
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Matteo Candeliere è nato a Torino nel 1990. Si è laureato in Psicologia e suona la chitarra in una band che si chiama Gli Alberi. Ha pubblicato su Pastrengo, Voce del Verbo e Blam.