Tutti noi vorremmo uccidere Golia

Tutti noi vorremmo uccidere Golia #1

Era uno scrittore e ne scrisse: gli aspetti teneri della paternità – la nostalgia delle tutine di ciniglia che la moglie appendeva sullo stendino per i piedini, il pacco dei Pampers Sole e Luna tra lavatrice e muro – e il retrogusto un po’ amaro nell’ammettere che il figlio stava crescendo. L’arco aveva scoccato la freccia, illustri penne erano state intinte in simile calamaio; buttò giù il post sollevando più volte la mano dalla tastiera per prendere il bicchiere e far ballare i cubetti di ghiaccio.
Il figlio si avvicinò, stretto nell’accappatoio, e gli si sedette sul ginocchio appoggiando i piedi ancora umidi sulle sue pantofole.
“Cosa scrivi?”
“Scrivo di te” gli rispose e tutti e due rivolsero lo sguardo alla pagina word.
“Devi raccontarlo proprio a tutti?”
Livio rise strofinandogli il cappuccio e provando un certo sollievo: era ancora il suo figlio piccolo.
“Pensi che potrebbe sfuggire a qualcuno?”
Magari a un daltonico, e tutti pensarono di esserlo diventati quando Matteo fece il suo ingresso a scuola, il lunedì seguente.
La maestra gli disse: “Togliti il berretto”. Poi, sistemandosi meglio la catenella degli occhiali: “Volevo dire la parrucca”.
I bambini scoppiarono a ridere e l’insegnante, piuttosto seccata, prese ad armeggiare col registro elettronico per inserire alcune considerazioni nella sezione Note.
L’improbabile accoppiata fra quanto aveva scritto il padre e quanto la maestra –più il fatto che nel gruppo WhatsApp delle mamme ne seguisse un certo tam-tam tra l’allarmato e il divertito – comportò che il post dello scrittore diventasse virale, visualizzato, condiviso e soprattutto commentato. Una tale valanga non gli era ancora capitata, aveva questo blog ormai da qualche anno ma niente di più di un po’ di autopromozione. Le uscite dei libri erano conformi al suo stile di scrittura intimo e discreto: una breve sinossi, gambe accavallate, microfono per bellezza e calice per brindare con l’agente, l’editore e chi dei suoi venticinque lettori si fosse fatto vedere. Neppure la moglie partecipava più a questi incontri, e a ben guardare erano anni che non sapeva con certezza cosa scrivesse suo marito.
Questa volta lo scoprì grazie a una compagna di università che dopo la laurea era andata a vivere a Parigi.
Stavolta scrisse: lo sapevo che era una brace coperta. E nel messaggio dopo: tuo marito.
perché? digitò Ornella leccando il cucchiaio.
prende a calci il perbenismo della vostra città.
Non capisco, rispose Ornella, anche se un’idea cominciava ad averla, e non poté evitare di concludere: ma non sei anche tu di questa stessa città?
Ma l’amica insistette: come fate a essere così gretti, meschini, provinciali? tuo figlio ha già capito tutto. bravo!

E nel messaggio dopo: anche tuo marito.

Ornella spense l’iphone e si sedette con la ciotola della crema sulle ginocchia. Continuò a mescolare: era il tiramisù della merenda e mancava solo mezz’ora all’irruzione dei ragazzi in cucina. Era in ritardo perché aveva voluto preparare anche l’arrosto e i finocchi in besciamella da scaldare in microonde per quando se ne sarebbe scappata alla lezione di pilates. I ragazzi avrebbero fatto il broncio ma quella era l’ora sacrosanta, l’unico svago della settimana già abbastanza compromesso da mal di pancia, capitoli di storia e filmoni – o meglio repliche – che, secondo Livio, non si potevano perdere. In sintesi, capricci.
Quando quest’ultima parola si formulò nella sua testa, Ornella lasciò andare il cucchiaio che cadde sul pavimento schizzandole le calze, e ricordò, anche se non c’entrava niente, un selfie che aveva ricevuto tempo prima: l’amica davanti all’ingresso del Georges Pompidou in trench verde acido taglia 38 e baschetto sulle ventitré. Ginocchia secche, caviglie sottili.
Non l’aveva invidiata – la magrezza, tutta quell’energia che si irradiava dal guazzabuglio dei tubi colorati alle sue spalle, il sorriso bianco bianco – perché aveva considerato la foto come la riprova che da quel vitino non sarebbe mai uscito niente. I fianchi erano troppo stretti, il cappello egocentrico: l’amica era sterile. La crudeltà di quella diagnosi le aveva procurato una vaga ombra di rimorso ma la maternità l’aveva protetta anche in quella situazione: si trattava solo del sesto senso di chi si dedica calcuttianamente agli altri. Non aveva mai avuto dubbi sul valore aggiunto che l’essere madre conferisce a una donna. Aveva allattato i figli ad oltranza, permettendo loro di sollevarle la maglia e attaccarsi ai suoi capezzoli in ogni situazione – parco, ristorante, chiesa –; aveva spinto passeggini gemellati specchiandosi nelle vetrine formosa di petto e di sedere, un po’ come la statuetta primitiva della dea della fertilità. Aveva amministrato pipette di sciroppo, suppostine, pastigliette di Bentelan con la competenza di una pediatra. Cucito costumini bianchi per i saggi di Natale e mantelli neri per il carnevale sui ponti di Venezia, i bambini strizzati fra i turisti e Piazza San Marco che, come un’oasi, si spostava in continuazione di qualche calle più in là. Aveva cotto Power Ranger nel forno per la prima colazione, costruito uno zoo per i pupazzi – c’era stato da vergognarsi per la lite dei bambini per il bruco in mezzo ai cestoni dell’Ikea – aveva litigato con suo marito per acquistare lettini a forma di Ferrari, litigato con la suocera perché permetteva ai bambini più di un’ora e un quarto di televisione e solo mezz’ora di pista Polistil. Aveva litigato per il Nintendo, questo direttamente con i figli, e l’aveva requisito molto spesso: scusa mamma non dico più porco a mio fratello, bacio; qualche volta niente bacio; altre volte il Nintendo era stato vilmente sottratto dai colpevoli mentre gli insulti ancora risuonavano da una stanza all’altra. Con i figli aveva litigato per la sua vecchia collana di libri Birilli che loro si rifiutavano di aprire perché a tutti e due non gliene fregava niente dei classici; e per gli scarabocchi sugli zaini, soprattutto se degli altri. Come dimenticare la tavola rotonda sulla pornografia? Non è bello strappare pagine da certe riviste per grandi e poi incollarle nel diario, vero? I bambini avevano annuito imbarazzati. Si era sentita vecchia, quel giorno, e impicciona. E in tutto questo, suo marito?
Scriveva.
Anche l’altra sera, mentre lei cercava di strigliare il figlio con la miscela di tutti i prodotti per capelli che aveva in casa, compreso quello per pidocchi, Livio si era fatto il suo bel bicchiere e aveva scritto qualcosa. Aveva preso a calci la città, come era corsa a riferirle l’amica parigina. Aveva preso i loro fatti privati e ne aveva fatto un fottuto pallone da calciare oltre le Alpi.

Il figlio minore era sempre stato strano, Livio lo pensò avvertendo dalle parti dello stomaco quel disagio vago ma persistente che chiamava senso di colpa. Nell’ostinato tentativo di innamorarsi di lui, l’aveva fatto oggetto di tutte le sue attenzioni: gli aveva permesso di addormentarsi ogni sera nel lettone, portare i giochi a tavola, usare il vasino ben oltre l’età della ragione, più tutta una serie di marachelle impunite, tipo mettere l’acqua con la canna nel serbatoio della Panda, e mescolare il contenuto dei cassetti della biancheria, costringendolo a rovistare in mezzo a mutande small e collant otto denari. L’aveva abbracciato e sbaciucchiato e girato sulla spalla per convincerlo di questo: io ti adoro. Fa niente che hai undici dita.
Che neppure ce l’aveva più! Quel secondo pollicino che fin dal primo giorno il bambino aveva preso a succhiarsi, come se gli fosse più simpatico degli altri. Livio glielo aveva fatto asportare all’età di sei mesi, operazione che aveva comportato notti insonni, e passeggiate su e giù per il corridoio per calmare i pianti disperati, con Ornella che si ostinava a spennellare le piccole gengive di rosa selvatica, se magari erano i dentini. Livio non avrebbe mai dimenticato l’inconfessabile sensazione di non appartenenza che gli era precipitata addosso quando aveva aperto per la prima volta il pugnetto del bambino e fatto per baciare ogni dito, né poteva smettere di sentirsi in colpa per averlo allontanato bruscamente dal petto e lasciato cadere con un tonfo nella culletta. La moglie aveva gridato, il bambino si era messo a strillare.
Da lì in poi, nonostante si fosse sforzato, tutto gli era sembrato strano.
Il bambino chiedeva spesso della morte, il bambino si addormentava tardi, il bambino a scuola non amava il cortile ma rimaneva in classe a sfogliare i libri. Non adorava la nutella, gli piaceva fare il gioco del cieco, aggiustava le scatole con lo Scotch, fino alla prima elementare non riusciva a dire ieri e supermercato, faceva la lotta come un dannato ma a Babbo Natale chiedeva le Barbie.
Insomma, non c’erano due pezzi del puzzle che si incastrassero decentemente, anche se di tutto questo nel blog il padre non aveva mai fatto menzione.
Quello che scriveva serviva per far emergere la parte scremata di se stesso, quella nobiltà di animo di cui si illudeva da ragazzo e che gli veniva restituita dalla critica: privo di partigianerie, aperto, globale. La giusta distanza, lo sgretolamento di qualsiasi visione egoistica. Una volta sua moglie l’aveva chiamato buonista; a lui sembrava semplicemente di essere equidistante, come quando aveva scritto del figlio e della sua sorprendente estrosità quasi si trattasse del figlio di qualcun altro.
Ora era travolto da ciò che pensavano gli altri. Molti a favore del suo spirito libertario, molti urtati dalla leggerezza col quale aveva parlato della cosa, alcuni pacati nei toni, la maggior parte esagerata sull’uno e sull’altro fronte. Il fatto di trasporre in pochi secondi un concetto astratto in una sequenza meccanica di digitazione rende molto imprudenti, questo pensava Livio leggendo un post dopo l’altro, e trovandoli tutti, senza eccezione, opinabili, e alla fine banali. La discussione che si riproduceva a cascata di minuto in minuto era di un kitsch insostenibile, di un livello talmente basso che sarebbe stato il caso di mettere il blog in standby almeno per qualche ora, dopo di che rimuovere il post sul figlio e sui suoi capelli nuovi. Tutto ciò di cui Livio aveva sempre epurato la sua scrittura riaffiorava come un geyser velenoso nei commenti con l’effetto di sdoppiare tutto: quello che Livio voleva scrivere, quello che pensava di aver scritto e quello che pensava realmente. Per mettersi alla tastiera aveva dovuto premere sul fondo dello stomaco la prima reazione, quella di quando il figlio aveva fatto il suo ingresso in cucina indossando una grottesca zazzera arancione carota. Era sempre stato un bel bambino, somigliante nell’ovale del viso e nel taglio degli occhi alla madre, ma nel momento in cui si era stagliato nella cornice della porta con quel carciofo geneticamente modificato sopra la fronte, Livio aveva avuto un impulso, un impulso come di… Assieme al sapore amaro della consapevolezza arrivò un altro commento. Livio lo lesse stringendo il bicchiere di bourbon come a stritolarlo:
ti scoperei. subito. adesso.

“La mamma ha dimenticato il materassino”.
“Non è a pilates, ha detto che voleva uscire da sola. Papà ha fatto la faccia e lei si è arrabbiata. Si è messa i tacchi, forse non torna”.
“Ma dove dorme?”
“Va a dormire in montagna, magari”.
“E la colazione?”.
“C’è il tiramisù”.
“Ma io odio il tiramisù di mattina, mi fa vomitare”.
“Papà odia farsi il caffè”.
“E ci porta a scuola lui?”
“Piuttosto mi faccio venire la febbre, lui arriva fino davanti al portone. Almeno la mamma ci lascia all’angolo”.
“Non ci da neanche baci”.
“Invece papà con quelle strette di mano, la pacca sulla spalla. È così da vecchi”.
“Hai visto la faccia che ha fatto quando sono tornato dalla parrucchiera?”
“Già! Si stava soffocando coi noccioli delle olive. Pensavo che la mamma gli faceva le manovre”.
“E la faccia della mamma? Quella di quando si mette le mani sotto le ascelle”.
“Non fa mai niente se non glielo dice papà. E lui ha solo detto: figliolo, imparerai ad essere responsabile della tua diversità
“Che non ho capito cosa vuol dire”.
“Che non sapeva che cosa dire”.
“Non gli mancano mica le parole quando parla dei suoi libri, ma qui sta sempre zitto se non gli dice la mamma cosa dire”.
“Ma perché?”
“Cosa?”
“Ti sei fatto rosso”.
“Avevo letto un fumetto… non puoi capire”.
“Non me ne frega un bel niente, solo che le ragazze per strada ti guardano e poi dicono che sei mio fratello. Mi rompe”.
“E digli che non sono tuo fratello ma il suo gemello separato alla nascita”.
“E quindi sempre mio fratello. Mi rompe”.

Quello in sostanza: diventare il proprio gemello che non si ha ancora conosciuto. Per questo Matteo era andato al negozio dei cinesi e coi soldi della paghetta si era fatto tingere i capelli. Sentiva che il suo gemello era così: ferrigno, goliardico. Irlandese. Era molto più felice da quando era il suo gemello. Aveva deciso di chiamarlo Golia.

Forse era stata Ornella a scrivergli. Forse si era pentita per la laconica discussione – Non vai a pilates? No! Ma perché? Perché no! – e chiusa nella sua Citroen c3, due viette più in là, aveva armeggiato corrugando la fronte, la lingua stretta fra le labbra, creandosi un falso profilo per scrivergli che lo desiderava. Con urgenza, come quando a casa in tuta e ciabatte, i ragazzi che si sdoppiano in tutte le stanze, non accadeva mai.
A quando risaliva l’ultimo amore? Forse a quella volta che l’aveva presa da dietro, sollevandole la gonna e la sottogonna di tulle, mentre lei si puntellava con le mani al tavolo ingombro di vassoi di sfoglie e ciotole di confetti. “Mi hai strappato le calze” gli aveva detto dopo sfilandosi i collant e cercando di lisciarsi il taffetà della gonna “sei uno stupido”. Ma non era veramente dispiaciuta. Era andata in chiesa coi polpacci nudi, e seduta al banco sembrava rabbrividire. Lo sappiamo solo noi tre, aveva pensato Paolo rivolto al crocifisso. Era il battesimo di Matteo. Dopo, solo amplessi convenzionali: letto a due piazze, fuori fascia protetta, silenziatore. La presenza dei ragazzi, della tosse dei ragazzi, delle feste, delle partite, delle visite specialistiche, dei pianti, del cambio stagione, delle scarpe che vanno subito strette, dei pantaloni con le ginocchia perennemente sporche, dei desideri natalizi, degli incubi, del vomito in piena notte, delle prove allergiche, dell’intolleranza al lattosio, della dermatite atopica, dei calzini che puzzano, delle tute marcite nei borsoni, delle manie, le sensibilità, il bisogno di considerazione, l’assistente psicologica, il logopedista, le attività ludico motivazionali compreso un corso di sessuologia infantile: ma quando diavolo doveva rimanere il desiderio di fare un po’ l’amore? Di sbattere quei due intrusi fuori dal portone e di prendere Ornella sul tavolo buttando all’aria il servizio per tutti i giorni, ed eventualmente inseguirla nei tanti angoli della casa se lei, in tutti questi anni, fosse diventata timida. Stanarla, dirle togliti tutto di dosso. Ora. Adesso. E quando Ornella ubbidiva… e se non ubbidiva, poteva essere ancora meglio.
Livio si versò una generosa dose di liquore – più o meno come se si trattasse di aranciata – e rispose al commento.
dove cazzo sei?

Stava guardando un film di un regista danese, uno di quelli che suo marito trovava eccessivamente autoriali, vale a dire pallosi. Era entrata nel cinema senza nessuna intenzione, se non provare una cosa che con Livio non avrebbe mai potuto fare. Si strinse nel paltò e nascose i piedi sotto la poltroncina. La sala era poco riscaldata, qua e là solo qualche spettatore coraggioso: si trattava di un girato integrale diviso in due capitoli abbastanza impegnativi. Il foglietto che le avevano dato in cassa parlava di un film sull’esplorazione sessuale al femminile. Improvviso, come il buio calato in sala, la colpì l’interrogativo se Livio si chiedesse mai perché a volte lei sostasse tanto nella vasca, l’acqua che intiepidiva e la schiuma che si sgonfiava in arcipelaghi che lasciavano affiorare le ginocchia, le cosce, il pube. Livio non era mai entrato, non si era seduto sul bordo con la mano nell’acqua. Da quando, con i copriscarpe azzurri, si era posizionato ai piedi del lettino ginecologico e, spaventato e commosso, aveva tifato per ogni centimetro che quelle testine oblunghe guadagnavano, la vulva di Ornella si era trasformata per lui in un portale misterico, di transizione dall’altra dimensione. Tutte e due le volte aveva visto il viso di Livio schiarirsi alla luce dell’epifania, il suo busto piegarsi verso il bambino che – finalmente, Santiddio! – le era uscito fra le gambe, ancora legato al cordone, mentre lei ricadeva indietro svuotata. Sola. Ornella non era fatta per la poesia in mezzo alla merda. Sarebbe bastato una mano sulla fronte, come aveva fatto l’infermiera, che, con una familiarità da sofferenza condivisa: “Come stai, tesoro?” le aveva chiesto. Non se lo sarebbe mai dimenticato, e da allora aveva ben chiaro che suo marito la adorava. Ma non la amava.

Livio andò a controllare che i figli dormissero e che non avessero i piedi fuori dalle coperte. Sacramentò un po’ quando inciampò su qualcosa di morbido, probabilmente il bruco dell’Ikea, e andò a scontrarsi contro qualcosa che verosimilmente era l’angolo della scrivania. Per un attimo ebbe voglia di accendere la luce e proclamare un’ispezione come in caserma, ma soprattutto di sancire una consegna settimanale. Sarebbe stata una settimana molto riposante, senza nessuno da andare a prendere e portare, amici da riaccompagnare e genitori da intrattenere. Ma chi l’ha detto che doveva essere amico coi genitori degli amici dei propri figli? Cosa diavolo aveva in comune a parte il freddo fuori dalla scuola e una certa sonnolenza durante le riunioni? Tutta l’innaturalità della presenza paterna in quelle situazioni era resa evidente dagli interventi stonati di padri volenterosi, più o meno sullo stesso tenore dei commenti al suo post. Era sempre stata Ornella a pretendere un suo coinvolgimento, a fargli reggere il vassoio dei tramezzini e riempire i bicchieri di carta col Cinzano al porta-offri. Lui odiava il porta-offri, solo la mente desolatamente vuota di una donna senza niente da fare poteva entusiasmarsi ad aprire la discussione sul gruppo WhatsApp.
Tu fai i paninetti al prosciutto?
Il prosciutto fa sete, io li faccio alla nutella.
Io porto le bibite, ma deteinate, senza zuccheri aggiunti, senza grassi idrogenati, senza olio di palma parabeni ogm.
So un posto dove hanno messo il barattolo di nutella da 500 g in offerta, lo dico solo a voi.
No, vi prego la nutella no, a mio figlio vengono i brufoletti.
I brufoli sul culo! Ormai Livio stava scagliando nel buio tutti i pupazzi Ikea che gli venivano sotto i piedi, chiedendosi perché diamine Ornella non gli rispondesse e che cosa stesse aspettando a tornare a casa per fare del sesso. Del sacrosanto sesso!

Lars Von Trier l’aveva portata avanti per sei ore, Ornella si era addormentata col mento nel foulard e si era svegliata di soprassalto quando erano state accese le luci in sala. Stava sognando una testa di neonato espulsa dalla vagina della madre, grande come quella di un uomo, rugosa e completamente fulva. Si strinse nel paltò terrorizzata. Il terrore la seguì anche in macchina, nonostante cercasse di parlare a se stessa in modo rassicurante. Non c’era niente da temere, pensava mentre una parte di lei trovava oltremodo minacciosi le strade silenziose e i semafori spenti. Si disse che aver tenuto il telefono spento dal pomeriggio era stata una vera idiozia, tutto può capitare quando non si è connessi al resto del mondo. I suoi figli potevano essere morti, magari Livio non era rientrato, forse stava prendendo a calci qualcuno. Una donna.

Avrebbe desiderato prendere a calci lei, questo è certo. Aveva una faccia – non quella che i suoi figli chiamavano la faccia ma una tirata con gli occhi larghi, bianca come se il sangue non vi scorresse più – e una voce che non pareva la sua quando disse: “Lo sai che ho chiamato la polizia?”
Era vero, dal centralino della polizia gli avevano detto di andarsene a letto e di richiamare la sera dopo. Lui era andato in soggiorno e aveva finito la bottiglia del gin. Poi era rimasto seduto con le mani sulle ginocchia deprimendosi e infiammandosi a ondate alterne, e componendo una ramanzina da usarsi nel caso in cui il ritardo non fosse dovuto a disgrazia – che se avesse avuto un incidente, Dio mio, non riusciva neppure a pensarci; aveva chiamato l’ospedale: della moglie non c’era traccia neanche lì –. Avrebbe voluto una tiritera perfetta, infarcita dei colpi più bassi che avesse mai inferto, ma quando vide Ornella che reggeva il manico della borsa con entrambe le mani e teneva le punte delle scarpe all’interno – quel suo delizioso atteggiamento da scolaretta che ha paura di essere sgridata – dalla bocca non gli uscì che un rantolo che aveva a che fare con l’ora tarda, la ramanzina bella evaporata.
La moglie, nascondendo meglio che poteva la scolaretta nel paltò, lo oltrepassò e gli disse qualcosa su un’amica di Parigi: quei toni andavano bene per le femme d’esprit, come quella là. E che lei, Ornella, aveva sempre desiderato visitare il Pompidou.
La mattina dopo, alquanto scocciato di essere stato ripetutamente svegliato da bufere di peluche, poi da mezze voci – credetemi, le è successo qualcosa, io me le sento certe cose – e da una baruffa dei genitori come non l’aveva mai sentita, Golia, mangiò un gelido tiramisù e, mentre i suoi erano ancora spiaggiati nel letto nella stanza odorosa di alcool quanto un pub, decise bene di fare filone.

Racconto  e foto di Sara Gambolati

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C’era una volta un libro di favole della buonanotte. Poi Piccole donne edizione integrale, Anna Frank per la tesina di terza media, d’amore per non impazzire dietro l’aoristo, di qualsiasi cosa pure di mettere giù i codici. E giù a leggere scrivendo la tesi, vagliando i bandi di concorso e scorrendo le graduatorie. Coi piedi sul cruscotto in viaggio di nozze e con l’ecografo sulla pancia di quarantadue settimane; anche con la bimba sul petto, testina a destra libro a sinistra, poi cambio.Quando strilla al lavoro:il prossimo! e pensa a cosa leggerà in pausa pranzo. C’è sempre  un libro a tenerle compagnia. E allora perché non provare a scrivere?
Alcuni suoi racconti sono comparsi su Treracconti, Spaghetti Writers, Altri Animali, Senzaudio, Yawp e Carie.

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