Racconto di Marianna Vitale.
Di lei ricordo solo il nome un po’ all’antica e il giorno in cui mi insegnò a tuffarmi come un delfino. Si chiamava Tina, aveva qualche anno in più di me – forse quattordici o quindici – e quando ripenso a lei me la immagino con i capelli a caschetto, l’attaccatura a forma di cuore sulla fronte, occhi grandi e rotondi e labbra spesse.
Ci siamo conosciute sulla spiaggia, più precisamente in acqua, mentre osservavo mio padre tuffarsi dalle scogliere più alte, che a me avevano sempre fatto un po’ paura – la stessa paura di quando entravo in una stanza buia e camminavo in punta di piedi per timore di svegliare le creature della notte che popolavano i miei libri di favole. Non avevo problemi ad arrampicarmi sugli scogli, anche senza le scarpette che proteggevano i piedi da tagli e ferite, ma una volta arrivata in cima mi prendeva una strana vertigine, come quando ti gira la testa dopo aver fatto tante piroette. Rimanevo lì bloccata, non riuscivo a tuffarmi di testa e così mi lasciavo andare dritta come un’asse da stiro – l’impatto con l’acqua mi faceva male ai piedi, molto più dei graffi che mi ero fatta per salire.
Tina si avvicinò a me dopo aver visto uno di quei tuffi maldestri che finivano con brevi urla di dolore.
«Devi buttarti di testa» mi disse. «Bucare l’acqua con le mani, così…» e allungò le braccia sopra il capo per farmi vedere.
«Non lo so fare, ho paura» ammisi, seguendo con lo sguardo mio padre che si allontanava verso l’ombrellone, contento che avessi trovato un’amica con cui giocare. Mi preoccupava il fatto che non fosse più lì con me ad anticipare i miei passi come quando ero bambina.
«Ti insegno io, è facile. Prima proviamo con gli scogli più bassi» disse lei, prendendomi per mano. «Io mi chiamo Tina, e tu?».
«Maria» risposi, e mi lasciai guidare.
Tina scelse uno scoglio piccolo e sporgente vicino alla riva. L’acqua lì sprofondava velocemente e non c’era il rischio di andare a sbattere sui sassi del fondale.
Salì sullo scoglio e si mise in posizione: le ginocchia piegate, come una rana un po’ goffa, le mani a punta come il muso di un delfino. «Ora ti faccio vedere».
Quando si tuffò mi stupii del silenzio con cui aveva toccato l’acqua. Era come se le sue dita, tese sopra la testa, avessero aperto un varco che aveva accolto il suo corpo con gentilezza. I tuffi che facevamo io e mio padre, al contrario, erano rumorosi, goffi e pieni di schizzi.
Tina riemerse con l’eleganza di una sirena, sistemandosi i capelli e il pezzo sopra del bikini, due triangoli ricoperti di paillettes.
«Ecco, è facile. Ora prova tu».
Mi posò una mano sulla schiena per aiutarmi a salire sullo scoglio – un tocco leggero come la bacchetta magica di una fata, che trasmetteva calore e un pizzico di coraggio.
Ma quando guardai in basso l’idea di tuffarmi di testa mi terrorizzò. Mi tappai il naso con due dita e scesi lentamente in acqua, usando lo scoglio come uno scivolo.
«Maria, ti devi vincere» disse lei, spazientita. «Una volta che ti butti, la paura passa. Fidati» e mi aiutò a tornare su.
Ci riprovai. Questa volta Tina mi tenne una mano in mezzo alle scapole, per assicurarsi che inarcassi le spalle, e mi sistemò le braccia, in modo che formassero una V al contrario sulla mia testa.
«Okay, ora chiudi gli occhi. Inspira. Piegati un po’ in avanti. E… tuffati!».
Di quel primo tuffo ricordo le dita che tagliavano il mare per farmi spazio, il freddo dell’acqua contro la pelle, il momento in cui provai ad aprire gli occhi – troppo presto – e li sentii bruciare tantissimo per il sale.
Quando riemersi Tina batteva le mani. «Brava! Ce l’hai fatta».
Sorrisi a denti stretti. Non volevo dirle che avevo il cuore impazzito e le gambe che mi tremavano per lo spavento.
«Ora proviamo su quello alto».
La seguii senza obiettare, fissando il laccetto del suo bikini annodato dietro la schiena.
Mentre ci arrampicavamo sullo scoglio più alto, che aveva una forma ad arco ed era pieno di appigli su cui appoggiare mani e piedi per tirarsi su, mi voltai a cercare lo sguardo di mio padre. Volevo che mi vedesse, che si accorgesse che avevo sconfitto le mie paure ed ero pronta a tuffarmi come un’adulta. Come lui.
Tina si tuffò per prima. Fece un piccolo salto e scese dritta e precisa come l’orlo di un vestito nuovo. La vidi arrivare sott’acqua, aprirsi un varco con le braccia per riemergere, e tirarsi su come fosse un movimento naturale – quasi stesse ancora nuotando nel ventre caldo di sua madre.
Controllai se mio padre mi guardava. Gli feci un cenno di saluto e lui ricambiò, sorridendo.
Chiudi gli occhi, pensai. Inspira. Piegati in avanti…
Più tardi quel pomeriggio mio padre mi chiese di riprovare insieme a lui, ma io dissi di no, che avevo freddo e non volevo più fare il bagno. Rimasi tutto il giorno sotto l’ombrellone, in compagnia di mia madre che faceva le parole crociate, a giocare con la mia Barbie. Immaginavo che fosse Tina, e la facevo tuffare tra i ciottoli bianchi e polverosi della spiaggia.
Quando lei venne a cercarmi, con i capelli bagnati che le sgocciolavano facendo brillare le paillettes del bikini, le dissi che avevo mal di testa, che non mi andava di tornare in acqua.
«Ci vediamo domani, okay?» disse allora, salutandomi con la mano.
Annuii, ma già sapevo che il giorno dopo saremmo stati su un’altra spiaggia: avevamo prenotato un’escursione in barca per esplorare le grotte lungo la costa.
La osservai mentre si sdraiava sulla riva e lasciava che le piccole onde le accarezzassero le gambe – avanti e indietro, avanti e indietro. Le paillettes colpite dal sole lanciavano luccichii a intermittenza, come un codice Morse.
Avevo eseguito tutti i passaggi correttamente, ne ero certa. Eppure ero atterrata di pancia, provando un dolore terribile al contatto con la superficie dell’acqua. Se mi guardavo il ventre la pelle era ancora un po’ arrossata, come se avessi preso troppo sole. Tina non se n’era accorta e aveva esultato per il semplice fatto che mi ero tuffata, che avevo vinto la paura. Mio padre, da lontano, aveva visto tutto. Quando ero tornata all’ombrellone mi aveva accarezzato la testa come fossi un gattino bagnato e mi aveva detto: «Con un po’ di pratica ce la farai anche tu».
Mentre guardavo Tina risalire per la terza volta sullo scoglio ad arco e tuffarsi dal punto più alto con la grazia di una ballerina, infilai la Barbie sempre più giù, in mezzo ai ciottoli. Premetti le dita sulla sua testa bionda e perfetta finché la spiaggia non la inghiottì, facendola scomparire del tutto.
Di lei ricordo solo il nome un po’ all’antica e quelle poche ore trascorse insieme. Non l’ho nemmeno salutata quando siamo andati via, raccogliendo gli asciugamani in fretta perché la nonna aveva chiamato per dirci che la cena era quasi pronta. Ma ancora oggi, quando mi capita di tuffarmi a delfino, ripenso a lei che mi insegnò ad addomesticare l’acqua e le mie paure. Nella testa risento la sua voce, come il canto di una sirena: “Chiudi gli occhi, inspira, piegati in avanti”.
E allora chiudo gli occhi, e mi lascio andare.
Copertina originale di Beatrice Maffei
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Marianna Vitale è nata a Rimini nel 1993 e si occupa di copy per il settore turistico. Nel 2022 ha pubblicato “Soltanto giovani”, una raccolta di racconti dedicati al tema dell’adolescenza con Augh! Edizioni. Alcuni suoi racconti sono stati tradotti in inglese e pubblicati su riviste internazionali come “World Literature Today” e “Apple Valley Review”.