La fatica di guardarsi allo specchio è quella di dover corrispondere al ricordo migliore.
Fabrizio de André
Il riflesso che mi restituisce il fondo del bicchiere non è il mio.
Cinquant’anni, padre di due figli diligenti e prossimi all’emancipazione, marito fedele e forse un tantino prevedibile, architetto rampante prima e affermato poi. Oggi festeggio un compleanno a cifra tonda e una nomina a consulente della Presidenza della Federazione degli Emirati Arabi Uniti. Tutto molto bello, non c’è che dire, ma allora perché mi sento una merda?
Ero felice di aver finalmente accontentato mia moglie. I nostri ospiti sapevano bene che se non fosse stato per lei non avrei mai festeggiato. Teresa era radiosa, avvolta nel suo abito rosso veneziano che le faceva risaltare ancor di più il verde degli occhi. Aveva sorriso tutta la sera, con spontanea voglia di ospitalità e orgoglio per i miei successi. A forza di averla a fianco, di stringere mani e far tintinnare bicchieri, mi ero convinto che fosse stata un’ottima idea. Poi era arrivato il momento del discorso e Teresa mi aveva stupito.
“Giovanni, almeno questo te lo risparmio!” disse guardandomi con finta rassegnazione “Grazie a tutti di essere qui, il primo – e anche unico in realtà – che ho dovuto convincere a partecipare è stato proprio mio marito. E per andare sul sicuro non gli ho dato vie di fuga: invece di trascinarlo alla festa, ho portato la festa qui a casa nostra!” Le battute iniziali provocarono un applauso divertito. “A parte gli scherzi, non ci capita spesso di organizzare serate come questa, ma sono davvero felice di esserci riuscita oggi. Abbiamo un compleanno importante da festeggiare e un successo ancor più grande da condividere con voi, che cambierà la vita professionale di mio marito. Come saprete, Giovanni lavora da anni con la Federazione degli Emirati Arabi Uniti, ma da quest’anno sarà il loro consulente governativo ufficiale per lo sviluppo architettonico, urbanistico e paesaggistico.” C’erano stati ancora applausi scroscianti. “Voglio brindare con voi a queste cinquanta candeline e alla nomina ricevuta,” aveva detto Teresa alzando il calice e voltandosi verso di me “perché nel cammino che dalla periferia di Genova ti ha portato fin qui rappresentano due traguardi raggiunti, che aprono la strada ad altrettanti traguardi da tagliare.”
Tutti avevano sollevato i bicchieri e si erano fermati ad aspettare che levassi il mio. Facevo fatica a rendermene conto, per un attimo mi ero disconnesso, come se qualcosa avesse fatto corto circuito. E il mio senso di disagio aumentava. Rispondendo alle aspettative, avevo sfoderato l’espressione adatta e avevo dato il via al tintinnio riportando la normalità, ma il suono mi era arrivato sfocato e le immagini delle persone intorno a me erano apparse stonate.
Appena chiusa la porta alle spalle dell’ultimo ospite non vedevo l’ora di godermi il resto della serata.
Sapevo che prima avrei dovuto ringraziare mia moglie un’ultima volta. Alla mia gratitudine aveva risposto con un sorriso soddisfatto, aveva realizzato anche questo desiderio e poco le importava se andavo a chiudermi nello studio. Non se la prende mai, è abituata alle mie fughe notturne, anche perché sono sempre state nei confini della nostra casa.
Una volta solo, mi sono versato un Suntory Yamazaki Single Malt Sherry Cask del 2013 e mi ci sono specchiato dentro. Quello non sono io.
Nel tentativo di riemergere dalla confusione pesco un Bellion amaro all’85% e mi lascio avvolgere dal morbido rivestimento della nuova Le Corbusier.
“Per essere comoda è comoda” penso ad alta voce “ma fa schìnfio”.
Alterno scotch e cioccolato, come mi ha insegnato mio padre. Chissà se lui è mai andato oltre un Chivas. Se fosse qui oggi mi poggerebbe una mano sulla spalla e mi direbbe “Cinquanta anni e non dimostrarli.” In fin dei conti, avrebbe ragione.
Abbandono il cubo di pelle e acciaio per guardare fuori. La finestra è chiusa e anche i vetri mi restituiscono un riflesso che non riconosco. La apro e mi appoggio al davanzale. Il cioccolato è finito prima dello scotch, che continuo a sorseggiare. La mia attenzione viene attratta più dalle persone che vedo passeggiare in strada che dal gioco di luci di Santa Maria Maggiore. Davanti al portone passa una coppia di anziani, vedo le loro teste grigie, da quassù posso solo immaginare le espressioni del viso. Camminano sotto braccio, lentamente, lei gesticola. Lui ruota la testa alternando occhiate alle vetrine con sguardi a quella che potrebbe essere sua moglie.
Sull’altro lato della strada passa un gruppetto di ragazzi, poco più che adolescenti. Mi arrivano risate e gridolini, anche la coppia di anziani si gira a guardarli. I ragazzi si fermano al semaforo rosso, uno di loro vorrebbe tentare la sorte e attraversare lo stesso ma l’unica femmina del gruppo lo trattiene per un braccio e lui obbedisce. Sorrido. Stanno andando verso la stazione Termini, mi chiedo fin dove cammineranno. Da quella parte non ci sono solo treni in partenza – o in arrivo – ma strade che portano ai locali di San Lorenzo, facoltà universitarie e la Biblioteca Nazionale. Mi viene voglia di scendere in strada. In effetti alla loro età avrei frequentato anch’io queste zone se mi fossi laureato a Roma, invece che a Genova. Ho respirato ben altra aria. Guardarli mi offusca ancora di più i pensieri, come quando si fissa un fuoco nel caminetto e le cose nelle immediate vicinanze appaiono sfocate. Gli volto le spalle.
Vado a riempirmi il bicchiere e a pescare un altro cioccolatino, per poi tornare ad appoggiarmi al davanzale. Da questa posizione ho una visuale a 360° dell’interno del mio studio. Arredamento di design, come impone il mio lavoro, e muri tappezzati da pezzi di carta più o meno importanti. Lì appeso ci sono anche io nel giorno della mia laurea, sullo sfondo del chiostro del Monastero di San Silvestro, con i miei genitori uno per lato. Sorridiamo, con le mani alzate in segno di vittoria e lo sguardo all’obiettivo, tranne quello di mio padre, rivolto verso di me. Andò avanti per mesi a raccontare a chiunque incontrasse che suo figlio era diventato un dottore, generando non pochi malintesi. Di quel giorno ricordo la sensazione di essermi tolto un peso enorme, un languore di sazietà che ebbe vita breve, fino all’ingresso in dottorato. Nella foto accanto ho la tesi in mano e abbraccio mio fratello. Il giorno prima, mentre ero nel pieno del panico da discussione, lui mi chiese:
“Frè ma perché hai scelto architettura? E’ una vita che dici che così le cose non vanno bene, che bisogna cambiare tutto a partire dalla testa della gente. Ma allora perché non ti sei dato alla politica?” Me l’aspettavo un’obiezione così prima o poi. “La farò la politica, Giuseppe, ma entrerò da un’altra porta. Il mondo non si cambia raccogliendo poveretti e dandogli quel tanto che gli basta per sopravvivere, come va tanto di moda fare qui. Quello che fa Andrea non basta.”
“E come vuoi fare tu?”
“Io voglio cambiare intere città, voglio rivoluzionare il modo di costruirle, anzi di immaginarle. La gente capirà che le città sono cosa loro, la politica è solo uno strumento. I palazzi, le abitazioni, rinasceranno per essere patrimonio della comunità. Bisogna cambiare le teste che contano, non quelle chine”. Mio fratello mi sorrise e mi lasciò da solo. Per un attimo era riuscito a distrarmi dalla cantilena meccanica che era diventato il discorso di laurea.
Il bicchiere si è vuotato ancora e non mi riflette nemmeno più. Corro ai ripari colmandolo di nuovo e chiudo la finestra, l’aria si sta facendo troppo fredda. Mi sdraio sulla chaise longue in pelle avorio e con due movimenti collaudati dei piedi mi tolgo le scarpe. Quanto tempo è che non sento Giuseppe? Oggi non mi ha nemmeno fatto gli auguri. L’ultima volta che l’ho visto era l’estate del 2013, al funerale di mio padre. Passeggiavo con lui tra le strade di Genova e mi stupivo di tutto.
“Quanto tempo era che non tornavi?” mi chiese lui.
“Dal funerale della mamma, credo. Saranno almeno dieci anni.”
“Pensavo fossi tornato per quello di Andrea, a maggio.”
“No, mi sono stancato di riempire la valigia coi vestiti a lutto.”
“E hai fatto male. Da quello che so le strade di Genova erano quasi tutte rosse, sembrava la Festa dell’Unità.”
Alzai le spalle e mi asciugai la fronte.
“Perché sei venuto oggi, allora?” mi chiese Giuseppe fermandosi in mezzo al vicolo.
“Mancava solo papà.” Risposi guardandolo negli occhi. “Questa sarà l’ultima volta per parecchi anni, spero”.
Chiudo gli occhi e quando li riapro ho la sensazione di essermi appisolato per qualche minuto. Guardo la pendola d’acciaio: sono le due. Mi tiro su e camminando scalzo raggiungo la scrivania. Da qualche anno ho scoperto che mi piace aprire i biglietti di auguri dopo mezzanotte, mi fa tirare per le lunghe il compleanno. Riempio e vuoto il bicchiere a tempo di record. Metto mano alla corrispondenza e mi colpisce vedere che questa volta non ci sono solo biglietti, ma anche due pacchi. Mi colpisce ancora di più che portandoli all’orecchio non emanino nessun tic tac. Apro prima le decine di buste, e mi destreggio tra formalità istituzionali svolazzanti e sinceri complimenti scritti di proprio pugno e nella propria lingua, opera degli amici che colleziono in varie parti del mondo. Rimangono solo i pacchetti. Il primo ha l’indirizzo del destinatario scritto a penna, e dalla rotondità delle parole è chiaramente da parte di una donna. Lo apro strappando la carta e appena emerge la copertina mi fermo a fissare il suo volto, la sagoma in bianco e nero si distingue chiaramente. “Sotto le ciglia chissà”. Chissà se gli sarebbe piaciuto come titolo, mi chiedo. Non ho bisogno di leggere il biglietto che lo accompagna per capire che è opera di Donatella, mia cugina. Lo apro lo stesso.
“So quanto ti bruciò aver perso il suo ultimo concerto. Ha ancora molto da dire, non è mai troppo tardi. Ti bacio, Dona”.
Mi appoggio di peso allo schienale della sedia, allungo le gambe e guardo il soffitto. Ha ragione lei, il motto del 1999 è stato “Ma come cazzo ho fatto a farmelo scappare, ce l’avevo sotto casa.” Lo ripetevo a tutti quelli che incontravo, aggiungendo un ferreo e incrollabile proposito per il nuovo anno: “Carpe diem. Basta pensare solo al lavoro, certe treni non passano più”.
Sbatto il libro sul tavolo. Che belle parole, grazie Donatella. Peccato che non mi pareva di avertele chieste. Che fine hai fatto tu, eh? Come sei diventata, quanti figli hai, che lavoro fai oggi, tu, cara cugina? Volevi fare l’insegnante per aiutare più ragazzi possibile, diventare il punto di riferimento delle famiglie. “Avere un ruolo attivo nell’educazione” come dicevi te. Ci hai mai provato almeno a fare un Concorso al Ministero? E adesso? Come tiri avanti? Le ultime notizie che mi ha riportato Teresa dicevano che anche il tuo secondo matrimonio era finito. Ma lei mi ha rassicurato: dal divorzio avresti ottenuto entrambe le case e almeno un’auto. Non ti manca niente?
Tiro il bicchiere contro il muro. Sbatto i pugni sul tavolo e da sotto la porta vedo la luce del corridoio accendersi.
“Tutto bene?” mi chiede Teresa senza nemmeno avvicinarsi allo studio.
“Sì tesoro, grazie, torna a dormire”. La rassicuro trattenendo la rabbia tra i denti.
La luce si spenge e ritorno nella mia dimensione. Prendo un altro bicchiere e ci svuoto dentro quello che resta dello scotch. Ci sono voluti anni per farlo invecchiare e io me lo sono scolato in pochi giorni.
Strappo la carta del secondo pacchetto, su questo c’è scritto chiaramente che è di mio fratello. Allora non si è dimenticato, penso, e basta questo pensiero a farmi calmare un po’. Ancora un libro, ma stavolta il protagonista sono io. Ha comprato il catalogo dei miei lavori, non ricordavo nemmeno che esistesse. Non ci posso credere. Inizio a sfogliarlo saltando da una pagina all’altra.
13 febbraio 1998: realizzazione della sede ufficiale del Partito Repubblicano a Washington. 20 luglio 2001: inaugurazione del Palazzo di Ghiaccio a Montreal, il più grande centro commerciale del XX° secolo. 11 giugno 2004: finiscono i lavori del Palazzo della Banca Nazionale del lavoro a Napoli. 1° gennaio 2008: taglio del nastro del nuovo Tempio del Pallone a Manchester. 7 ottobre 2012: inaugurazione del primo Parco abitativo autosufficiente a Osaka.
Chiudo il libro e allungo la mano per cercare il bicchiere. Resta solo il fondo coperto di scotch e rimango a fissarlo. Anche lui fissa me. Saremmo rimasti a rifletterci per chissà quanto tempo se non avesse vibrato il telefono. Roba di lavoro, la vedrò domattina.
Non bevo, rimando l’ultimo goccio a quando avrò letto il biglietto di Giuseppe. Temo che mi servirà.
“Frè ma che ci fai ancora là? Sono venticinque anni che aspetto il tuo primo vero lavoro. Sei pronto per il cantiere?”
Mi aspettavo una gran tirata e invece mi stupisce, è andato sul morbido. Ma nella busta c’è altro. Tiro fuori, nell’ordine: un depliant di un posto vicino Vicenza, che sembra una base militare, con tanto di foto di gente in protesta e cartelli che recitano “No dal Molin”; un biglietto del treno solo andata da Roma Termini a Vicenza, la cui validità terminerà tra una settimana; un ritaglio di giornale dal titolo “La forza della parola contraria. Intervista a Erri de Luca”. E un altro biglietto.
“Gli altri te li sei persi, capita di essere distratti, ma lui lo puoi ancora ascoltare. Frè ma perché hai scelto architettura?”
Spargo tutto sul ripiano della scrivania, appoggiò i gomiti e affondo la testa tra le mani. Non riesco a pensare con lucidità. Prendo i due libri con entrambe le mani e li volto. Nella quarta di copertina del catalogo vedo una mia foto in cui c’è un sorriso di tre quarti, in mezzo a un volto senza rughe. Indosso giacca e cravatta, le mani incrociate, esisto solo a mezzo busto. Sul retro dell’altro libro leggo: “Vorrei diventare l’uomo che l’artista non ha mai lasciato crescere”.
Almeno lui ha una scusa, penso, mentre io non ricordo più la mia.
Apro la porta dello studio, raggiungo a passo svelto la camera da letto e premo l’interruttore. Teresa si sveglia, abbagliata. “Giovanni stai bene?” mi chiede sedendosi di scatto sul letto.
Apro l’armadio e inizio a cercare. Trovo subito il contatto con il manico.
“Ma che succede?” Mi incalza lei alzandosi in piedi. “A che ti serve quella?”
L’ho trovata. Mi giro a guardare Teresa che ha gli occhi sgranati e sembra terrorizzata. La abbraccio per tranquillizzarla e appoggio la valigia per terra.
“Non succede niente. Domani si festeggia, Giuseppe ci ha regalato un viaggio da sogno.”
Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri.
Don Andrea Gallo
Foto originale di Alessia “Stamp” Damiani