Ero in viaggio da due ore buone quando mi dovetti arrendere alla fila di auto impazienti. Dal cellulare nessun segnale in arrivo. Feci per chiamare Marina ma riattaccai subito, mi ricordai che aveva portato Nicholas a vedere le grotte e il lago sotterraneo. Era difficile contenere la sua emozione il giorno del mio ritorno e l’unico modo per distrarlo era dargli un’emozione più grande; era sempre stato così: quando sapeva che tornavo, mio figlio si sovreccitava.
Mi soffermai sui tettini delle auto incolonnate, lasciandomi ipnotizzare dall’aria tremolante per il calore della lamiera rovente. Ci si potrebbe cuocere un uovo, pensai, e mi si aprì una voragine. Un’occhiata fugace al cruscotto rivelò che era quasi l’una e, mentre spostavo l’auto più avanti di qualche centimetro, valutai se fermarmi a mangiare. Non conoscevo molti posti in zona dove pranzare: in genere cercavo di arrivare a casa loro prima possibile. Casa loro. Se Marina mi avesse sentito dire una cosa del genere avrei potuto dire addio al fine settimana di pace e serenità che si profilava. Ingranai la marcia e partii, approfittando della libertà regalata dal semaforo verde che regolava il traffico a senso alternato. Mi sarei fermato a mangiare: imboccai la deviazione imposta dai lavori con un senso di curiosa attesa mista a brontolii di stomaco.
La strada si arrampicava sinuosa tra le colline. Mi stavo aggirando tra gli Appennini già da qualche chilometro ma di posti dove fermarsi nemmeno l’ombra. Non ero sicuro di sapere esattamente dove mi trovassi e come tornare alla strada principale, ma non me ne preoccupai: da quando le nuove tecnologie avevano invaso la vita di tutti perdersi era diventato un raro lusso. In lontananza apparve un piccolo agglomerato di case in pietra che sembrava anticipare l’arrivo di un paese. Poco dopo arrivai in quella che sembrava essere la piazzetta principale del paese e parcheggiai. Alla fame si era aggiunta la sete, e se avessi almeno potuto soddisfare uno solo dei due bisogni sarei ripartito più tranquillo. Superai il ponticello che separava i parcheggi dalla parte abitata e mi addentrai nei vicoli in salita. Dopo qualche metro, infilando le mani in tasca, mi accorsi di aver lasciato il telefono in auto. Resistetti alla tentazione di recuperarlo e sperai che Marina non scegliesse proprio quel momento per sentire a che punto fossi. Per regolarmi sull’ora alzai gli occhi verso il campanile della chiesa di fronte: non mi diede informazioni utili, era fermo alle 7 e 10. Alla fine della via, in prossimità della chiesa, si apriva un’altra piazzetta: ogni edificio che vi si affacciava aveva le imposte e le porte chiuse. Non c’era nulla che facesse pensare a un paese abitato, tranne la presenza di alcuni vasi di fiori dai colori accesi e ben curati che delimitavano lo spazio antistante un edificio. Mi avvicinai e vidi che le persiane delle porte finestre erano solo accostate. Ai lati degli scuri erano incise alcune parole, quasi del tutto cancellate dal tempo e dalle intemperie: “Trattoria da Egle”. Forse ero stato fortunato. Provai a curiosare accostando quanto più possibile la fronte alle imposte: l’interno era scuro e il contrasto con la luce del sole dell’esterno rendeva ancor più difficile scorgere indizi utili. Intravedevo sagome di tavoli e sedie raggruppati in un angolo e non c’erano tracce di camerieri o altro personale. Rimasi molto male per quel miraggio di cibo, tramontato ancora prima di essersi formato nella mia mente, e mi voltai per andarmene. Appena ebbi mosso qualche passo per riprendere a salire lungo la via principale, una voce maschile attirò la mia attenzione.
«Che fa? Sbircia tutti i cavoli miei e non mi dà nemmeno l’occasione di ricambiare?»
L’omaccione che emerse da quella porta mi spiazzò. La prima cosa che pensai fu dove fosse Egle. Scossi la testa, come per scacciare quel pensiero superfluo, e mi avvicinai all’uomo. Era lì fermo sulla porta, con una mano a conca sulla fronte per proteggersi dal sole, e l’altra ripiegata ad anfora sul fianco. I capelli lunghi e bianchi, come la barba e i baffi, gli ricadevano sulle spalle. Era vestito da cameriere, solo che la tipica fascia in vita era rossa e non nera.
«Mi scusi se ho curiosato. Sono in cerca di un posto per mangiare ma qui sembra tutto abbandonato…»
Sorrise e mi fece cenno di entrare. Beneficiai immediatamente del fresco che regnava nella vecchia trattoria. Odorava di taverna. Appena gli occhi si abituarono alla penombra mi accorsi che l’interno era più curato di quanto avessi scorto: i tavoli e le sedie erano effettivamente accatastati, ma il bancone era in ordine, provvisto di una gran quantità di bottiglie e bicchieri di ogni forma e colore. Su tutte le superfici non c’era un velo di polvere. L’uomo girò due sedie e mi sedetti. Tornò dopo pochi minuti con due bicchieri di vino rosso.
«Se bevessi adesso, con lo stomaco vuoto, non credo riuscirei ad allontanarmi sulle mie gambe» gli dissi.
Mi lanciò uno sguardo di disapprovazione che non lasciava spazio a ulteriori obiezioni: senza aggiungere altro, a piccoli sorsi, vuotai il bicchiere.
«Piacere, Egle» disse allungando una mano sopra il tavolo.
Vide la sorpresa sul mio volto, mentre mi presentavo come Corrado, e si giustificò:
«Qui vanno di moda nomi strani. Mia madre e mia nonna pensavano fosse un nome da maschio e me lo appiccicarono.» Fece una pausa per vuotare di nuovo il suo bicchiere e aggiunse «Avevo amici a cui è andata peggio.»
Passato il sollievo dato dal fresco ricominciò prepotente il brontolio di stomaco, che sembrò arrivare fino all’uomo. Si alzò e lo seguii con lo sguardo fino a vederlo aprire un frigorifero stracolmo di qualsiasi meraviglia insaccata e casearia: potevo scorgere svariati salami, lonze di diverse lunghezze e circonferenze e forme di formaggi con vari gradi di rotondità. Mi chiesi cosa ci facesse con tutto quel ben di Dio e quanto tempo ci avrebbe messo a smaltirlo. Di certo, ero disposto a dargli una mano.
Egle tornò con un ricco vassoio, un campionario degno di ciò che avevo visto in frigo. Apparecchiò sbrigativamente e si sedette accanto a me. Avrei voluto fargli molte domande ma ero talmente affamato e alticcio che mi tuffai sul cibo come se non mangiassi da settimane.
«Quanta foga! Nemmeno posso prenderlo come un complimento alla mia cucina…»
«Mi scusi, quel bicchiere di vino era ottimo, ma mi ha dato il colpo finale» risposi imbarazzato.
«Com’è capitato nella mia trattoria?»
«Sto andando dalla mia famiglia, per trascorrere il weekend. Sono un pendolare, durante la settimana lavoro a Roma. C’era traffico, si era fatta l’ora di pranzo…»
«Un pendolare? Quindi fa il padre part-time?»
«Non l’ho mai vista sotto questa luce, ma Nicholas con tutta probabilità sarebbe daccordo con lei» concordai sospirando.
«E da quando in qua c’è traffico da queste parti? Non passa mai nessuno…»
«C’erano i lavori in corso sulla statale e facevano passare solo…»
«I lavori! Quei maledetti lavori!» esclamò Egle alzando la voce. Le guance gli diventarono rosse dalla rabbia e quasi gli andò di traverso l’ultimo goccio del nuovo bicchiere di vino che si era versato. «La nostra rovina!»
«Perché dice così?»
«Ragazzo, quei lavori non porteranno niente di buono.»
«Ma mentre ero in fila mi sembra di aver letto che serviranno a costruire una nuova superstrada che collegherà direttamente…»
«Ecco appunto, direttamente. Lo sai che significa questo?»
«Significa che la gente per venire in queste zone ci impiegherà la metà del tempo e quindi magari il turismo…»
«No! Significa che tutti i paesi come questo, come Calagno, Belmonzone, Saripanto e tutti quelli che non avranno un’uscita diretta dalla superstrada, ne resteranno esclusi. Tagliati fuori. Quindi quelli che come te fanno i pendolari o hanno le seconde case, o anche solo che amano fare i viaggiatori della domenica, qui non ci passeranno più e andranno dritti alla meta. Chi ci arriverà mai in cima a questa collina? Chi glielo fa fare a quelli di imbarcarsi in mille curve quando potranno tagliare sotto le montagne, eh, me lo spieghi? Si fermeranno al primo paesello che vedranno con una chiesetta carina e un bar in piazza e diranno di aver visto la Provincia di Frezze»
Non sapevo cosa dire. Avrei voluto ribattere che anche loro non stavano facendo molto per attirare turisti, a giudicare dal tempo che ci avevo messo per trovare un posto aperto in cui fermarmi a mangiare.
«Lo so cosa stai pensando. Pure tu per incrociare anima viva ce ne hai messo di tempo, vero?»
«Beh, sì.» ammisi.
Egle si afflosciò sulla sedia come una pianta che non viene innaffiata da settimane. Prese il tovagliolo e si pulì la bocca. Senza aggiungere altro si alzò e sparì dietro una porta in fondo alla sala. Mi pentii di aver confermato la sua supposizione. Probabilmente si era offeso, ero stato un po’ troppo sincero e arrogante. Ma del resto, come negarlo? Ne approfittai per vuotare anche il mio bicchiere e guardarmi un po’ intorno, nella speranza che Egle tornasse a breve con un umore migliore. Le pareti della trattoria erano punteggiate di fotografie, attestati e locandine. Da dove ero seduto riuscivo a intravedere alcuni poster con nomi di paesi e titoli e date di vecchie sagre estive e autunnali: un inno alla salsiccia di Prescia, alla lenticchia di Beroli e alla patata di Calagno; vedevo almeno quattro attestati che annunciavano Egle come uno dei migliori cuochi della Provincia se non della Regione; dalle foto appese potevo riconoscerlo nella sua trattoria in compagnia di qualche vecchio politico degli anni ’80 e alcuni attori in voga in TV più o meno nello stesso periodo. Un vero muro dei ricordi. Oltre la porta in cui era sparito Egle sentivo rumori di pentole ed era l’unico suono che riuscivo a distinguere. Non si sentiva nient’altro, né di naturale né di artificiale. Ne approfittai per riposare gli occhi, mi aspettava un altro bel pezzo di strada alla fine del pranzo.
«Già ti è preso l’abbiocco?»
Mi ridestai di colpo.
«Tranquillo, sarai stato qui da solo sì e no un quarto d’ora. Il tempo che ci vuole per cuocere queste.»
Mi agitò sotto al naso una padellata di fettuccine al sugo.
«È cinghiale» precisò sorridendo orgoglioso.
«Ma che meraviglia, non potevo capitare in un posto migliore!»
«Hai visto?» mi chiese mentre si metteva a sedere, facendo vagare lo sguardo sui muri del locale «Qui una volta pranzavano e cenavano personalità di ogni tipo. Questo paese era vivo.»
«E l’hanno ucciso i lavoro per la superstrada?» farfugliai mentre ingoiavo una forchettata di fettuccine.
Lui mi guardò di sbieco. La mia curiosità era troppo forte per riuscire a tacere, anche se probabilmente, ospite in casa d’altri, sarebbe stata la scelta migliore.
«No, era già moribondo. E sai che cosa lo ha ferito gravemente? Quella.»
Mi indicò una grande foto raffigurante un edificio imponente, basso e largo, con quella che sembrava una ciminiera a spiccare verso l’alto. Non riuscivo a capire cosa fosse e cosa intendesse Egle. Dovette leggerlo nel mio sguardo perché riprese a parlare.
«Quella era la nostra gioia, il nostro orgoglio. Tutti i paesi dei dintorni mandavano lì i loro ragazzi, a lavorare, dieci ore al giorno. Ce la invidiavano dalle province vicine, ce la invidiavano addirittura le regioni vicine. Era lei che scandiva il tempo, qui al paese, tutto ci ruotava attorno.»
«Ma cos’è?»
«Cos’era. Valla a vedere da vicino, tanto qui abbiamo finito, non ti aspettare un secondo» puntualizzò lui sparecchiando.
Ebbi tempo di studiarmela per bene mentre lui trafficava nel retro della trattoria, ma continuavo a non capire cosa fosse. Sembrava una fabbrica, ma nulla nel suo aspetto faceva intendere quale merce producesse né quale fosse il nome della ditta.
«Beh, ci sei arrivato?»
Davanti al mio diniego proseguì con le spiegazioni.
«Si vede che non sei di qui. Quella è la cartiera.»
Ricollegai una serie di informazioni apprese nell’infanzia, quando frequentavo zone vicine con i miei genitori, sommandole a qualche articolo di giornale che iniziò a comporre un quadro, ancora sfocato, nella mia mente.
Egle tornò dalla cucina con due caffè.
«Nei profili dei paesi la cosa che si distingue per prima è il campanile e la seconda è la facciata della chiesa. I paesi vicini facevano a gara per chi avesse la facciata più imponente e sfarzosa. Ecco, noi avevamo la cartiera. E tutto quello che ci interessava, distinguendola da lontano, era se avesse o no il fumo che usciva dalla torre»
«E poi cos’è successo?»
«Piano ragazzo, si vede che vieni dalla città, ti porti dietro la fretta» si alzò a prendere dal frigo in sala una bottiglia di amaro e due bicchierini ghiacciati. «La cartiera era il nostro orgoglio: da lì usciva la carta che sarebbe diventata la pagina di un libro, la pagina di un quaderno su cui un bambino avrebbe tracciato le sue prime lettere. Uscivano i fogli degli album da disegno, su cui adulti e ragazzi avrebbero espresso se stessi, su cui l’arte avrebbe potuto imprimersi a ogni livello. Dalla cartiera usciva la base per la cultura, quella materia prima che avrebbe accompagnato ogni bambino a scuola, ogni ragazzo all’università, ogni adulto nel mondo della conoscenza. Da lì uscivano fogli bianchi e colorati, di differente peso e grammatura, io li ho visti…»
«Ci ha mai lavorato?»
«Mio nonno e mio padre. Loro ci lavoravano e io da bambino ci passavo interi pomeriggi, a sgattaiolare tra un corridoio e l’altro, impegnato a trafugare brandelli di fogli avanzati dai tagli, su cui scarabocchiare storie inventate…»
«Le piaceva scrivere?»
«Sì, una volta sì» confermò lui con rimpianto «Poi sono finito qui dentro.»
«Come mai non è andato anche lei a lavorare lì?»
«Ci provai una volta ma non mi presero. Quell’anno erano a posto, poi partii militare e quando tornai mia nonna era morta. Venni ad aiutare mia madre, rimasta sola qui in trattoria, e non me ne andai più»
«Se era il vostro orgoglio perché dice che è stata la cartiera a dare il primo colpo a questo paese?»
«Gliene ha dato ben più di uno. Qui tutto girava intorno a lei, come ti ho detto. Era il centro dell’economia di queste zone, non c’era famiglia che non avesse almeno un parente a lavorare lì»
Egle si fermò, premendosi le dita all’attaccatura del naso.
«Quello che ci rovinò fu qualcosa di banale, fa parte della storia di mille piccoli paesi sparsi per l’Italia e forse per il mondo. Fu il terremoto.»
«Quello del ’92?» iniziavo a mettere a fuoco con più precisione i ritagli di giornale di quel periodo.
«Sì, proprio quello. La storia è semplice: il tetto crollò, distruggendo alcuni macchinari, e da quel momento nessun foglio di carta è più uscito da quella bestia lì» disse Egle indicando il poster.
«Ma com’è possibile?»
«Te lo spiego come ce lo spiegarono loro: i danni erano stati troppo grandi perché vi facesse fronte il proprietario con le sue sole forze. E gli aiuti delle istituzioni non arrivarono mai. Il dottor Massimo provò ad aspettare qualche tempo, bussando a tutte le porte che riusciva a raggiungere, ma raccolse molte promesse e pochi fatti. E l’epoca d’oro di queste zone finì.»
«Quello fu l’unico danno che fece il terremoto?»
«Sì, da questo punto di vista fummo fortunati. Caddero solo quelle poche case già in rovina ai margini del paese, nessuna vittima. Si aprirono crepe profonde nella cripta della chiesa, vennero frotte di tecnici dei Beni culturali a fare sopralluoghi e interventi che sistemarono tutto, ma nulla più. Oggi la cartiera è ancora lì, uguale al giorno del terremoto, buona solo a essere rimpianta da lontano»
«E che ne fu di tutti i dipendenti?»
Egle sospirò, versandosi un altro bicchierino di amaro.
«Alcuni trovarono lavoro presso qualche bottega o qualche fabbrica verso Losazzolo, molti altri partirono per la Germania in cerca di lavoro e non li ho più rivisti»
Egle non aggiunse altro per diversi minuti e non ebbi il coraggio di fare domande né di iniziare a congedarmi.
«Capisci perché sono arrabbiato?»
«Sì, lo capisco. Quello che è successo qui è assurdo. Ma per la strada, non si può fermare il progresso»
«Non dobbiamo fermare il progresso, dobbiamo far vivere le cose a partire dalla memoria» disse Egle sorridendo «E adesso tu, ragazzo, devi rimetterti in cammino.»
Capii che non voleva aggiungere altro e feci per pagare il pranzo ma non ne volle sapere. Ero stato suo ospite, mi disse, e potevo tornare da lui ogni volta che volevo. Mi diede le indicazioni per riprendere la strada principale e ci salutammo. Lo strinsi in un abbraccio come fosse un familiare. Scesi verso l’auto e passai di nuovo davanti al campanile: erano ancora le 7 e 10.
«Papà ce l’hai fatta finalmente! Ti stavamo dando per disperso!!» urlò Nicholas correndomi incontro e aggrappandosi alle mie gambe.
«Ma non starai crescendo troppo? La settimana scorsa mica la superavi la cintura!» gli dissi arruffandogli i capelli con la mano. «Com’erano le grotte?»
«Bellissime papà, erano piene di cosi che spuntavano da terra e dal soffitto, dentro si poteva anche fare un percorso con le tute, il caschetto e la torcia, però io non l’ho fatto, lo voglio fare con te!»
Era raggiante, come ogni volta che ci ritrovavamo. Marina era rimasta sulla soglia della veranda a gustarsi la scena da lontano, le piaceva lasciare quei momenti solo per noi due.
«Guarda papà, ti ho fatto un disegno, così le puoi vedere pure tu le grotte»
Guardai il foglio a quadretti su cui si distinguevano due figure, una più piccola e una altissima, che si tenevano per mano. Mi sedetti sul divano e lui fece lo stesso. Sorrisi tenendo il disegno tra le mani.
«È meraviglioso, Nicholas. Sei diventato bravissimo. Senti un po’, ma tu lo sai da dove vengono questi?»
«I fogli? Dal quaderno di scuola…»
«E ancora prima?»
Nicholas rimase qualche secondo a pensare, poi alzò le spalle in segno di resa.
«Ti piacerebbe scoprirlo?»
Sul viso di Nicholas si allargò un sorriso, qualsiasi cosa gli proponevo era per lui una gioia e una festa. Mi chiesi quanto ancora sarebbe durata questa aura di divinità che mi portavo dietro e quando sarebbe arrivata la rabbia per le mie assenze. Decisi che me ne sarei preoccupato più avanti, avevo tempo per spiegargli le mie scelte e avrei avuto Marina dalla mia parte. O almeno speravo. Ora c’era qualcosa di più importante, avevo una storia da raccontargli e non l’avrei fatta aspettare.
Il racconto è liberamente ispirato a fatti e luoghi solo sfiorati.
A mezze verità valide per tanti posti e troppe persone.
Copertina originale di Doctor Tale & Mister Shot