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Selene

La gente, tutta o quasi tutta la gente non stava bene nel cervello. Era un dato certo. Quindi lo disse ad alta voce, senza rifletterci troppo su.
– La gente non sta bene nel cervello.
– Eh, sempre un sacco di brutti fatti. Ma ha sentito quella che ha massacrato la mamma e l’ha infilata in un sacco e poi s’è ammazzata con la lametta del padre e poi il padre s’è ammazzato quando ha visto tutta quella roba e tutto il sangue per terra e il padre è venuto fuori che picchiava tutte e due? La figlia diciassett’anni. La gente non sta bene, c’ha ragione.
– Eh beh.
Sull’eh beh, Selene fece rientrare un po’ le labbra e rimase a guardare nello specchio la donna forse quarantenne che le metteva le mani in testa. In effetti era stata lei a chiedere che le fossero messe le mani in testa, e stava anche pagando per questo. Ma non troppo, no, non troppo. C’era di peggio.
– Ma roba da matti, signora. Roba veramente veramente dico da matti.
– Eh.
Selene cominciava a essere irritata. Era stato posto come assunto incontrastabile che la gente non stava bene nel cervello e andava da sé che la cosa si estendesse a tutta la gente che non stava bene nel cervello, e tutto era pacifico e sotto il sole. Non c’era bisogno di continuare. O comunque, lei non ne aveva voglia. Quindi rimase ostinatamente in silenzio per tutto il resto della seduta. La voce della parrucchiera continuò ad arrivarle da dietro la testa per qualche minuto, ma iniziò presto a smorzarsi dato che ogni tentativo di agganciarla falliva. Si spense in dissolvenza, come se la donna non fosse una donna ma un oggetto a batterie.
Selene ringraziò, pagò e uscì in strada. Si era piaciuta, e anche la giornata era bella e soleggiata. Questo la spinse a continuare un altro po’ sulla strada, anche se la fermata del bus era in direzione opposta e ne stava passando uno utile in quel momento preciso.
Fece qualche centinaio di metri col suo passo regolare, che non le muoveva troppo il corpo, e un pezzetto di sorriso che spuntava all’angolo della bocca. Forse fu proprio quello a far sì che davanti alla libreria venisse approcciata da un nuovo pericolo.
– Ciao bella signora, ciao.
Il ragazzo era scurissimo, puro distillato d’Africa. In foto le sarebbe stato simpatico o indifferente. Ma quella mano tesa e piena di libri di cucina congolese era troppo tesa e troppo piena di libri e di intenzioni e di prospettive di contatto.
– No, grazie, non mi interessa. – Il cuore le batté un po’ più forte.
– Dai, piccolo aiuto per l’Africa, sono belli, belli, buoni piatti da fare a casa. C’è anche un libro di poesia africana, tutto bellissimo.
Selene lo aggirò. Sentì che il ragazzo continuava a parlarle con insistenza, ma le spalle erano state date. Quando le spalle erano date, non c’era insistenza che tenesse.
Attraversò la strada e cambiò direzione, tornando verso la fermata. Non voleva che le parlasse di nuovo – o che chiunque altro le parlasse, quindi accelerò il passo. Lo avrebbe raccontato a Paolo in un modo simpatico che l’avrebbe fatto ridere. Sì, Paolo avrebbe riso. No, forse Paolo l’avrebbe criticata. Forse per lui era stata razzista. O maleducata. Non lo sapeva. Comunque gliel’avrebbe raccontato: dato che il modo di raccontarlo che aveva pensato era divertente, il racconto doveva essere fatto.
Soppesò la possibilità di tornare a piedi come aveva fatto all’andata, ma la cestinò. Si era stancata.

 

– Quindi lui c’ha provato, ma io ho svicolato! Tiè!
Paolo fece uno sbuffo. Selene lo considerò una risata. Era andata bene, questa volta. Forse era il giorno giusto per affrontare altri discorsi, discorsi di importanza capitale. Si produsse in una breve apnea e studiò il quasi trentenne che aveva davanti, separato da lei da un piatto di spaghetti. (Trentenne? Aveva trent’anni?)
Paolo era alto come tre quarti della libreria del soggiorno, che voleva dire alto. La libreria non stava più in soggiorno da qualche tempo, quindi sarebbe stato difficile verificarlo. Era un po’ ingrassato, almeno? Mangiava? Ma forse quella era una domanda proibita. Va beh, pensò, non importa. Poi la faccio lo stesso.
In ogni caso, la barba era troppo lunga. Scelse rapidamente nel mazzo del Frasario da Barba Troppo Lunga la carta Sembri Un Imam e se la mise da parte per giocarla in un momento adeguato, dopo pranzo e prima che lui potesse scappare.
Però in fondo lo trovava bene. Certo, chissà che mangiava fuori. (Ma aveva trent’anni? Comunque lo sguardo di Selene isolava i tratti e le fossette e scavava nella barba con una vanga di dimensioni paragonabili all’amore materno, cercava il brillio negli occhi davanti al suo primo giocattolo – gliene aveva comprati troppi, da piccolo? No, non credeva –, pettinava i capelli a Caschetto della Prima Comunione – momento fissato fotograficamente nella sua memoria e indissolubilmente legato a un senso inaspettato di scioglimento interno che forse era Dio e forse era il calorifero della parrocchia – e trovava in quella figura estranea, aliena – sì, un alieno: ma aveva trent’anni? Quasi – il bambino di sette-otto-dieci anni che Paolo era rimasto per lei, ne isolava la figura come fosse la piccola statua di un putto dentro un blocco di marmo, una statua la cui unica parte colorata erano i capelli, castani-quasi biondi, che negli anni si erano scuriti. Quello era un buco?)
– Comunque c’hai il buco in testa.
Paolo si toccò l’attaccatura dei capelli con un’espressione di fastidio, ma non disse niente e si immerse di nuovo nell’aglio e olio degli spaghetti quasi finiti. Selene lo ammirava come una fotografia. La calvizie era naturale. Anche suo padre ce l’aveva. Prima Paolo si offendeva e andava a guardarsi allo specchio. Ma era naturale. Andava detto.
– Ma tu hai già mangiato? – Le arrivò dall’esterno attraverso la cortina nebbiosa delle sue considerazioni.
– Io ho mangiato una cosa. Mangio presto. Te dici sempre che arrivi per l’una poi arrivi alle due. Comunque non fa niente. Però ho pensato una cosa della casa. Magari si può fare che tu torni qui per un po’, si sposta la credenza e si rimette il letto come prima e poi vediamo di venderla e di fare a metà così si comprano due case che a te dove ti piacerebbe? Ti trovi bene là dove stai te? Ci sono case carine là, monolocali villini appartamentini tipo un attico, magari si trova la casa carina e noi non è che stiamo a guardare le spese. Dove ti piacerebbe? Dove ti piacerebbe?
Paolo ingoiò gli spaghetti.
– Mamma, sto benissimo in affitto con Simone. Grazie, non ti preoccupare per me.
Ma la preoccupazione era una spirale di sistemazioni e risistemazioni in potenza che a quelle parole si scatenava dentro di lei e le stritolava il cervello, come faceva lui a dire così?
– Tu dici non ti preoccupare, ma i genitori si preoccupano per i figli e gli danno il meglio. È questo che fanno. Poi magari i figli non lo accettano ma tutto si sistema. È così.
Era questo che facevano. Paolo respirò rumorosamente.
– Mi dispiace ma devo scappare.
In pochi secondi si era alzato, dissipando l’immagine del putto biondo con una certa brutalità, e aveva recuperato il suo assetto da mondo esterno. Doveva trovare un laccio, una molletta, qualcosa.
Selene prese un post-it blu (ne aveva comprati a dozzine, di tutti i colori, e li teneva pronti per ogni evenienza) e cominciò a scriverci sopra mentre Paolo vagava dal bagno al salotto. Lo seguì e glielo attaccò sulla schiena.
– Dai, che è?
– Ci ho scritto gli annunci di lavoro che ho visto oggi. Te li vai a cercare, tanto su internet ci stai sempre. Ti piacerebbe aprirti un’edicola?
Paolo sospirò. Annaspò, cercando di raggiungere il post-it. Selene era riuscita a piazzarlo in un punto strategico, dove le braccia arrivavano con difficoltà. Ma purtroppo Paolo aveva le braccia lunghe, e anche se non riusciva a staccarlo bene, lo sfiorò e la colla cedette. Avrebbe dovuto usare dello scotch di carta, forse. Prese mentalmente nota.
– Ci vediamo. Grazie per il pranzo.
Paolo aprì la porta e si fiondò fuori, deciso, diretto verso le scale.
– Ti piacerebbe aprirti un’edicola?
Paolo esitò sulla soglia, fingendo di riflettere.
– No, grazie. A presto, mamma.
Paolo sorrise con un misto di sarcasmo e tenerezza. Selene, sebbene non con piena coscienza, odiò quella tenerezza. Le fece un freddo nelle ossa.
– Sembri un imam, – sibilò mentre la porta si chiudeva delicatamente.

 

Niente era mai a posto. L’ispezione quotidiana aveva rivelato numerosi dettagli che erano cambiati durante la notte. Per esempio, quella credenza lì era esattamente nello stesso posto, ma ora si era messa in condizione di non starci più bene. Poi il tavolino nell’angolo era troppo tetro, lugubre, metteva ansia.
Selene sospirò, cercando di non cedere alla gravità della situazione. Bisognava rifare tutto. Spostare le sedie di qua… il magnetino della vacanza in Norvegia di Paolo doveva viaggiare fino all’altro lato del frigo… era dai piccoli dettagli che si sarebbe ristabilito tutto. Certo, lei aveva anche altri progetti, più a largo raggio. Buttare giù la parete divisoria e creare una stanza più ariosa, più ampia e rigonfia di senso di libertà. Espandere la casa e farla più grande… ah, ma lì subentrava l’altro problema.
Percorse raso muro il corridoio fino alla cucina. Comunque era una bella casa, un dignitoso quarto piano che d’estate rimaneva fresco e ventilato. Tastò ogni spigolo e ogni spanna del muro con la carta da parati azzurra. Le piaceva quell’azzurro. Se ne sentiva amata, anche se forse non l’avrebbe detto così. L’importante erano le cose pratiche. Se le cose pratiche andavano bene…
A volte avrebbe anche voluto strapparla tutta, la carta da parati, urlando il nome di qualcuno a caso. Voleva buttare giù tutto, mischiare tutti i piatti che ricrescevano da servizi diversi ogni volta che ne rompeva uno, fracassare la credenza che ora la fissava con i suoi occhi di vetro, dare calci alla parete fino a sfondarla, fare a brandelli le tendine a righe e poi lasciare tutto alla polvere e al tempo, e andarsene boh, non lo sapeva.
Tutto perché niente era mai a posto.
Comunque l’importante erano le cose pratiche. Le cose pratiche facevano rientrare le emozioni nei ranghi, che sennò quelle fluttuavano e oscillavano fuori da lei ed era un casino e la prendeva un senso di–
Si appoggiò al muro e si tastò il setto nasale. Era tutto a posto. Cioè, almeno nel setto nasale. Si era sentita mancare un attimo. Succede.
E poi, poi c’era l’altro problema.
Poteva sentirli.
Loro si muovevano di pomeriggio, spostavano mobili, sedie e chissà che altro. Preparavano le armi.
Una battaglia silenziosa.
Selene impose alle ciabatte di non fare rumore, e al suo respiro di essere impercettibile e assolutamente non rilevabile. Rimase bloccata per circa mezzo minuto, finché il rumore di oggetti spostati non cessò. Poi, lentamente, si smosse e tornò alla camera da letto, dove aveva lasciato lo schermo del televisore acceso a blaterare roba di cervi, salmoni e Canada.
Lì arrivata, sognò un igloo in mezzo al nulla e alla neve, decorato a fiorellini.

 

– Certo, se lo tratti così è ovvio che non funziona.
– Ma non fa niente.
Paolo veniva a sprazzi da un mondo diverso dal suo, a insegnarle in un modo che la irritava. Ora Selene cercava di muovere gli eventi su un piccolo schermo che avrebbe dovuto rispondere al tocco dei suoi polpastrelli, ma che tutto faceva tranne quello. E quindi lei era già arrabbiata per questo. Ci mancava solo Paolo che faceva il didatta.
– Ti dico che non fa niente. Non fa. Vedi? Non fa.
Tuc tuc tuc. Il dito viaggiava sul tablet, ma le schermate non si armonizzavano con i suoi movimenti. E Paolo la guardava come se fosse irrecuperabile.
– A me non è che serve tanto. Su Facebook non ci vado. Dopo quelli mi spiano. Le email non le faccio. Volevo solo vedermi un po’ di cose.
– Tipo?
– Mah non lo so, notizie, cose della casa, poi mi piaceva cambiare lo sfondo.
– Che ci vuoi mettere? – fece pazientemente Paolo.
– No, non fa niente. Va bene quello dei pesci.
– Vanno bene i pesci, ok. Lasciamo i pesci.
– Mi fanno pensare ai viaggi, le vacanze, il mare.
– Perché non lo fai, un viaggio?
– Lo so che tu esulti quando non ci sono, ma non ti darò questa soddisfazione.
– Lo dicevo per–
– Tanto in televisione vedo tutto il Canada, i ruscelletti, i salmoni… senti, ma non lo vorresti fare l’edicolante?
Paolo si lasciò cadere sulla poltrona accanto a quella di Selene. Quella poltrona era vecchia. Probabilmente stava arrivando il momento di buttarla. O di spostarla. Spostare una poltrona la faceva sembrare più nuova e le allungava la vita di almeno ventiquattr’ore.
– Senti mamma–
– Comunque certo che so’ tremendi questi, eh.
Una parte di Selene aveva vagamente afferrato che Paolo stava iniziando una frase, ma il resto di lei si era riunito velocemente in consiglio di amministrazione e aveva deciso che c’era troppo altro di urgente da dire. Quindi ora lo diceva.
– Chi sono, questi? – chiese Paolo.
– I vicini. Questi qua.
Selene indicò il muro alla sua destra, abbassando la voce come se confessasse segreti industriali.
– Spostano cose di continuo. Ti pare che uno deve sempre spostare cose?
Paolo roteò gli occhi.
– E poi stanno qua. Sarebbe tanto bello buttare giù quel muro ed espandersi di là, con un salottino… magari poi ridividiamo tutto e ci vieni a vivere con Laura.
– Mamma–
– Ma niente, non cedono.
– Non li saluti nemmeno. Non ci hai nemmeno mai parlato.
– E chi c’ha bisogno di parlarci?
– …
– Certe cose si capiscono.
Si capivano. Ora poi voleva restare un po’ da sola e vedersi le cose su internet. Forse adesso aveva capito come fare. Niente di particolare, no. Vedersi le sue cose. Questo voleva.

 

Martedì.
Selene guardò il calendario. Paolo non sarebbe venuto oggi. La cucina si fece più lunga, troppo lunga per mettere quel tavolino così. Ma come le era venuto in mente di farlo? Forse quella era la posizione del lunedì.
Comunque, le cose pratiche. Passeggiò un po’ disegnando spirali, passando in rassegna quello che doveva fare. Forse conveniva passare la scopa, o forse ancora no, c’erano altre urgenze. La casa le parlava del suo calore, un calore che poteva arredare e a cui poteva appendere quadri. Cercò di ascoltarla per capire le sue esigenze, ma il bisbiglio era troppo confuso e veniva da tutte le parti. E poi Selene aveva il naso chiuso da una narice, e quando era così non sentiva bene. Inspirò rapidamente.
Aveva già da tempo stabilito che niente era a posto, ma quel martedì il senso di non a posto si era acuito. Non riusciva a isolare il perché, né a capire se il colpevole fosse la solita credenza o qualcosa di più sottile, come appunto la polvere (forse conveniva passare la scopa) o un soprammobile che riduceva troppo lo spazio di una mensola.
Forse era un senso generale di qualcosa che non può più andare avanti così e deve in qualche modo cambiare. Pensò all’igloo.
Le venne in mente che la sera prima aveva visto un villino carinissimo in una zona veramente accettabile a un prezzo abbastanza alto da non farla preoccupare di un imbroglio, ma comunque abbastanza buono. Non troppo caro, no, non troppo.
Selene iniziò a riflettere, ma doveva per forza fare una cosa pratica e non fermarsi troppo, quindi riflettendo prese la scopa e iniziò a spazzare.
Si fermò di botto.
C’era un rumore e non era di mobili spostati, né lo produceva lei in qualche modo. Di solito in quei casi la causa era stupida. Qualcosa che si era attaccato alle paglie della scopa. Roba del genere. E poi la porta era ben chiusa.
Eppure c’era quel rumore, come uno scriccholio, ma con un che di strano e indiscutibilmente non a posto.
Selene si mosse un po’ per il corridoio, dopo aver lasciato la scopa in cucina. Investigò su quello scricchiolio, ma non riusciva proprio a delimitarlo. Forse veniva da fuori.
Forse un ladro.
Pensò al numero di Paolo, soppesandone le cifre per vedere se le ricordava a memoria e nel giusto ordine. Ma quell’esame durò poco. Per qualche motivo, la paura di un ladro non le sembrava per niente presente e reale. Non poteva esserci un ladro, e anche se fosse, non avrebbe avuto il coraggio di entrare là dentro. La casa la proteggeva con barriere invisibili che nessuno poteva violare. Era così, non sapeva come ma questa sicurezza stava ferma a mezz’aria come quei fatti che servono per andare avanti, e Selene poteva vederla e distinguerne tutti i connotati. Le cose pratiche.
Allora i vicini. I vicini, dietro il muro, ne stavano pensando un’altra. Uno scricchiolio con lo scopo di terrorizzarla e convincerla a lasciare la guerra. Mai. Se pensavano di farle paura così–
Selene capì.
E in quel momento la sicurezza, la protezione e tutto il resto si ruppero e caddero in pezzi su tutti gli ottanta metri quadri dell’appartamento.
La casa scricchiolava.
Selene ebbe di nuovo quel mancamento. Tornò in cucina e si sedette, ma non riuscì a rilassarsi: da lì lo scricchiolio si sentiva anche di più.
Ma mentre stava seduta, circondata dalla carta da parati azzurra che occhieggiava dappertutto e oppressa da ogni singolo oggetto nella casa, arrivò a un’altra consapevolezza.
La casa, oltre a scricchiolare, si muoveva. Ma non verso di lei come le era sembrato: viceversa si stava lentamente, impercettibilmente espandendo.
E le stava parlando. E lei minuto dopo minuto ne sapeva decifrare il linguaggio e le intenzioni, sempre di più, anche se non poteva risponderle. Ma non ce n’era bisogno.
Selene si abbandonò sulla sedia. Non c’era motivo di preoccuparsi, anche se niente era a posto e tutto si era rotto. Ora non doveva più pensarci lei. Ogni cosa si sarebbe risolta da sola.

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Fabio Mancini inventa storie da quando era piccolo, anche se a un certo punto nella vita il suo cuore ha preso un’altra strada (comunque in salita). Nella sua vita adulta ha partorito tre romanzi che non ha letto quasi nessuno, dato che nel momento in cui aveva finito di scrivere non era più lo stesso essere umano di cui aveva scritto. A quel punto ha iniziato a scrivere racconti, sperando nell’autoconclusività per salvarsi dal panta rei. Comunque scrive anche testi di canzoni. Quelli tendono a durare di più.

Alcuni tra gli elementi che lo hanno plasmato: Italo Calvino, Stefano Benni, D. F. Wallace, Charles Bukowski, Haruki Murakami, Carl Barks e il fumetto Disney d’autore, Schulz, Hugo Pratt e infinita musica.

Ama sentire l’ebbrezza della schizofrenia mentre scrive note biografiche in terza persona.

2 pensieri su “Selene

  1. Come parte del collettivo, mi ha fatto molto piacere leggere e ospitare questo racconto. Credo sia ricco di spunti interessanti non solo nella trama ma anche nel linguaggio usato e nel lavoro sui personaggi. Fabio ha sfidato molte “regole” dello scrivere, secondo me, usando diverse ripetizioni in modo voluto per delineare la personalità di Selene e di suo figlio. Gran parte delle sfide mi sembra le abbia vinte, donandoci un punto di vista diverso e azzardato che mi piace!

  2. Ciao Fabio.
    Nel leggerti e commentarti ho sicuramente apprezzato la parte dei dialoghi che definisco “da strada”. Riesci a uscire dalla finzione narrativa e rendere i discorsi reali, da tutti i giorni.
    Anche la dinamica madre/figlio ha innescato in me delle risonanze su uno spaccato della vita familiare.

    Alla prossima!

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