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Il secondo Battesimo di Piergiorgio Cruna

A vederlo camminare sul marciapiede con quella smorfia trasognante a ogni piè sospinto e l’occhio pettegolo rivolto a semafori e passanti, nessuno avrebbe scommesso sul desiderio di morte di Piergiorgio Cruna. Stringeva una bambola di porcellana sotto il braccio e teneva spiegazzata una lettera all’interno della tasca del loden perché amava portare i suoi errori con sé. Alle spalle, l’ospedale gettava ombre sull’asfalto decretando la fine della giornata.
Di solito gli occhi secchi di un defunto strappano via qualcosa a chi li incrocia. A Piergiorgio avevano levato obblighi e ceppi.
A dispetto della sua età anagrafica, oggi viveva il primo giorno di svezzamento.
Come fare? A chi dirlo?
Per amici aveva sconosciuti attirati più dal suono delle banconote che dalla sua voce. Tormentava con le dita l’angolo della busta e calava il cappellino sopra la faccia della bambola, senza riuscire a coprirla.
Si risolse nell’andare a trovare la cameriera del bistrot dal sorriso melanconico. Di lei adorava l’orrido neo all’angolo della bocca. Ammirava la sfrontatezza con cui lo mostrava, la mancanza di vergogna nel constatare come i clienti si soffermassero a fissarlo mentre lei prendeva le ordinazioni. Avrebbe voluto farsi baciare bocca e cazzo dalle sue labbra, strusciarsi, far quasi le fusa su quel tumore nero e dirle: «Tu puoi capirmi.»
“Tu puoi darmi la forza.” Leggeva il labiale dal riflesso della vetrata del bistrot senza conoscerne il seguito ma si fece animo ed entrò comunque.
La fine dell’orario delle visite al reparto coincideva con una fragrante sfornata di dolci all’Aux deux amis: i mignon alla frutta, i marron glacè e i letti di pasta sfoglia c’erano anche oggi che il materasso era stato disfatto e il corpo relegato alle macchine. L’odore di buono si mischiava alle risate degli avventori.
Entrò durante un brindisi: «Perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzooo…» intonavano le voci a festa, le tonalità più alte dei calici a cerchio come in una tavola rotonda. Piergiorgio approfittò della confusione per sistemarsi al solito tavolino ad angolo. Si sedette sulla sedia lasciando libera l’altra. Poggiò la bambola per terra.
«Nessuno lo può, nessuno lo può, nessuno lo può negar!»
Con il piede teneva il tempo della canzoncina: Ta-ta-tatata-ta-tata-tatatatata-ta… teneva il tempo e con la punta del mocassino punzecchiava la bambola, la suola insozzava il vestitino vintage eseguito all’uncinetto.
Sentiva lo spiffero dalla porta battergli complice sulla nuca; lo scarico del bagno, le strusciate del cameriere, i riflessi delle plafoniere a parete sull’ampio specchio, dietro al bancone tappezzato di scritte al bianchetto con i menu del giorno, apparivano come cose nuove, dai giusti colori. Accarezzò la parete giallo crema e gli venne voglia di mangiare quella tonalità burrosa. Voleva lavarsi le mani per esfoliare la patina d’ospedale ma non osò alzarsi. Sollevò il braccio per la comanda e lo ritirò giù in maniera repentina.
Lei dov’era?
Il locale relativamente piccolo e l’area paragonabile a una P rovesciata non avrebbero nascosto nessuno neanche volendo. Senza un ingegnoso gioco di specchi alcune zone sarebbero potute risultare claustrofobiche.
Il cameriere lo notò comunque: «Buonasera, cosa le porto?»
«La signorina oggi ha la giornata libera?» disse Piergiorgio.
«La signorina? Intende Luana? Attacca alle 20.»
Piergiorgio posò lo sguardo sull’orologio pacchiano del locale. Segnava le 18:42. «Mi porti un caffè ristretto.» Ne avrebbe ordinati altri tre nel tempo che lo separava dall’incontro, giusto per mantenere il tavolo.
Cercò d’imbastire un discorso, una pièce drammatica capace di avvamparle il cuore ma riuscì a formulare solo due parole per quanto nette e altisonanti: “Sono solo.” Allora cercò spunti dall’ambiente circostante per trarre ispirazione. Al di là della vetrata un mendicante rinsecchito con il cappotto liso e i capelli lunghi sorrideva a un neonato dentro una carrozzina mentre la madre si allontanava compita. Omaggiava i passanti con sorrisi e inchini sia che il contenitore delle offerte tintinnasse di centesimi sia che restasse in silenzio. Un coleottero dal dorso rosso a pallini neri percuoteva la vetrata nella speranza che il vetro fosse solo aria un po’ più spessa. Eseguiva una danza sul posto nel tentativo di fuggire verso l’immensità oltre il locale, armato unicamente della sua mole da pulce. Tuttavia si stancò e cadde.
Piergiorgio si alzò dalla sedia e lo trovò a marciare in direzione del tavolo in festa. L’insetto passò in mezzo a una dozzina di piedi imbizzarriti senza essere schiacciato. Dove altri c’avrebbero visto solo istinto, Piergiorgio ci vide coraggio. Andò al bancone placcato in oro e prese un bicchiere di plastica per raccogliere il coleottero. Lo poggiò sul tavolino con la sua casetta bianca, aprì una bustina di zucchero e la riversò nel bicchiere. Il barman aveva assistito alla scena e riconobbe in lui lo strano accompagnatore della signora anziana.
«Ho salvato questo insetto e ora darò un senso alla tua vita.» bisbigliò al coleottero immerso nello zucchero immaginando lei. Si sentì ridicolo.
Possono vent’anni di confronti con la stessa donna togliere intraprendenza verso il gentil sesso?
«Sì, certo.» udì la risposta del cameriere da un altro tavolo. Vagò con lo sguardo sulla rastrelliera e contò le bottiglie di liquori. Le lancette dell’orologio avanzavano lentamente.
Ai laureandi festosi si sostituirono tre coppiette e una famiglia con figli al seguito. Cominciò a piovere; La tettoia del locale assorbiva gocce passando da un rosso accesso a un color borgogna; il cielo, scaricando lacrime, alleggeriva le nuvole dal loro fardello. Il mendicante, incurante del fuggi fuggi generale, se ne restava lì al riparo sotto un davanzale, a elargire sorrisi al temporale.
«Va’ a lavarti le mani.» l’imperativo giungeva dalla madre al figlio più piccolo, Piergiorgio lo sapeva bene ma non poté fare a meno di buttare un occhio alla bambola: era dove l’aveva lasciata, composta e a schiena dritta.
“Mai un accenno di scoliosi in famiglia, te invece te ne stai sempre gobbo. Schiena dritta Piergiorgio!”
Distratto dal ricordo aveva smesso di sorvegliare l’entrata e lei era arrivata. Imprecava. L’acquazzone le aveva teso un agguato a 200 metri dal bistrot, bagnandole piedi e ballerine. Per asciugarsi si fece passare una tovaglia pulita del cuoco e indossò la divisa in magazzino, lasciando il nervosismo assieme ai vestiti fradici.
«Luana c’è tuo padre che ti sta aspettando da due ore.» disse il cameriere.
«Mio padre?»
«Sì. Sta là come uno stoccafisso a tracannare caffè.» le indicò Piergiorgio.
«Smettila di trattare male il signor Cruna, è uno dei nostri clienti più affezionati.»
«Mai visto.»
«Viene sempre intorno a quest’ora, almeno tre volte a settimana. Ehi! Oggi è da solo? La madre non è venuta con lui?»
«Ah boh! Vallo a chiedere a lui e… stronzetta, te l’ho tenuto in caldo per bene quindi stasera ci dividiamo le sue mance.»
«Ok sanguisuga.» sbuffò Luana arricciando il naso.
Piergiorgio se la trovò davanti come se l’avessero teletrasportata. Balbettò qualche frase sconnessa prima che lei lo togliesse d’impaccio dalla sua glossolalia: «Buonasera signor Cruna, tutto bene? È mancato diversi giorni, si era stancato di noi?» disse Luana.
Era Luana, perché la voce era la sua ma lui non l’aveva riconosciuta. Si era tagliata i capelli, aveva un trucco pesante a involgarirle il viso e c’era una garza medica delle dimensioni di una figurina Panini a ricoprire il neo.
Luana si accorse del suo interesse per la garza: «Oh questa?» disse indicandosela. Poggiò i menu sul tavolo per farlo. «Sono stata dal dermatologo a levarmi il neo. C’era il rischio potesse diventare maligno.» La sua bocca era un disegno di gabbiani all’acquarello.
«A me piaceva.» farfugliò lui.
«Le piaceva?»
«Sì! Cioè no. Intendo dire che vederla così è strano.»
«Non si preoccupi, il cerottone andrà via presto.»
Non sapeva cosa dire. Fece finta di scrollarsi la forfora dalle spalle per dissimulare la delusione.
«Sua madre oggi non è venuta con lei?» chiese Luana.
Ci mise alcuni istanti per incasellare madre nella mente: «È mia nonna.»
Lei alzò le sopracciglia: «Sua nonna? Incredibile sembra così giovanile!»
«Lo so. Lei si vantava sempre.»
«Della sua età?»
«Di tutto.»
Luana umettò il labbro superiore con la lingua e svelò l’apparecchio: «Oddio Signor Cruna! Ma è una bambola di porcellana?»
Fu sull’intonazione gioiosa della cameriera, affine alle sue emozioni quanto un pugno nello stomaco, che Piergiorgio si pentì di aver varcato la soglia dell’Aux deux amis.
«Sì» disse infine, «è una bambola antica Steiner figura A in fine porcellana bisquit, priva di difetti. Corpo originale francese, snodabile, in composizione. Occhi fissi blu in vetro, parrucca di capelli biondi veri e vestito originale in lana e seta.» lo ripeté meccanicamente con l’angoscia nell’anima come se stesse leggendo il De Profundis. Si grattava la barba durante l’annunciazione.
«È bellissima! Che guanciotte! Mia madre le adorava. Le teneva sempre sul divano e nessuno ci si poteva sedere. Io volevo giocarci, ero piccola, non capivo. Quanto vale?»
«Circa 4000 euro.» Piergiorgio adesso si grattava anche il collo.
«Andiamo… mi sta prendendo in giro.»
Fece segno di no con la testa.
«Sono 5 mesi del mio stipendio! Santo cielo ma perché sta buttata lì a terra?» Lei si chinò, la raccolse e la sistemò sulla sedia di fronte. «Non si deve vergognare, sa? È un oggetto d’antiquariato, deve metterla in mostra e poi, rimanga fra noi, il pavimento non è dei più puliti…»
Il locale era sparito, le persone erano sparite. Piergiorgio era inchiodato alla sedia con la bambola a fissarlo. Si sentiva messo a nudo da quell’occhiata. Era una lotta improba. Lei le palpebre non le avrebbe sbattute mai.
“Promettilo, prometti che ti prenderai cura di Suellen, Piergiorgio promettilo.”
«Ho forse scelta?» urlò.
Pure il cuoco fece capolino dalle cucine. C’erano tredici persone a squadrare un uomo avanti con gli anni, dal viso gonfio, arrossato e sudato, con ampie borse sotto gli occhi e una barba ramata da frate indovino, che stritolava un bicchiere di plastica mentre fissava una bambola di porcellana di nome Suellen. I bambini sghignazzarono e vennero redarguiti dai genitori.
Dalla strada arrivò a curiosare anche il mendicante.
«Ora la lascio, se ha bisogno chiami. Mi scusi.» disse Luana e con tre falcate sprofondò dentro le cucine.
Il mendicante entrò nel bistrot. L’olezzo del suo vivere per strada e l’aureola di sudore che gli impregnavano ascelle e colletto mal si combinavano con le sfornate di dolci. Ignorò le sbirciate malevoli dei bambini e la commiserazione degli adulti e puntò dritto sull’omone in difficoltà.
«Si sente male?» chiese il mendicante. Scosse lievemente il braccio teso di Piergiorgio e notò che dai resti di un bicchiere fuoriuscivano granelli di zucchero e un insetto. Il coleottero mosse lievemente le antenne e passò dal polsino pulito e inamidato di Cruna al polso impiastrato di nero dell’uomo di strada.
«Mi scusi, le devo chiedere di andarsene.» disse il cameriere allargando il braccio verso l’uscita.
Il mendicante avrebbe voluto dire che l’uomo seduto lì forse stava per svenire. Voleva intervenire per metterlo supino con le gambe rialzate perché lui era stato un infermiere e certe cose le sapeva. Invece non fece nulla perché il pregiudizio sul suo presente, agli occhi degli astanti, era più forte della sua professionalità passata.
Si volse per riguadagnare la via dei senzatetto quando sentì un nome: «Gigì.» La voce era maschile e impastata: «Gigì che fai? Arrivi e già te ne vai? Siediti. Cameriere mi porti una bottiglia d’acqua frizzante e un menu per favore.» disse Piergiorgio.
Il cameriere allungò il collo in direzione del padrone e attese. Il proprietario del locale era un uomo famoso per degustare cibi e clienti. In quei 6 mesi di visite si era fatto un’idea chiara del signor Cruna: figlio devoto. Oggi, per la prima volta, si presentava da solo e ne ebbe compassione. Assentì al dipendente e tornò a far di conto.
«Glieli porto subito.» disse il cameriere. Il mendicante rimase in piedi a osservare il mosaico delle maioliche sotto gli stivali consunti.
«Siediti, per favore.» ripeté Piergiorgio.
«La sedia è occupata.» azzardò con un sorriso il mendicante indicando Suellen.
«Mettila in terra e no, non importa se si sporca.»
Rassicurato dal tono mansueto di lui, il mendicante prese il posto della bambola. Protese il braccio lungo il tavolino e favorì la stretta di mano dicendo: «Io però mi chiamo Giovanni, non Gigì.»
Il coleottero, indisturbato, aveva raggiunto l’avambraccio e proseguiva nella scalata.
«Gigì?» tossì. «Chissà poi perché Gigì. Piacere, io sono Piergiorgio. Stasera sei mio ospite. Ordina senza remore.»
Giovanni, sulle prime fu restio ad accettare l’invito ma, su insistenza dell’amico appena conosciuto, alla fine cedette. Ordinò varie portate accompagnate dai sorrisi di lui. Se il bistrot fosse stato un laboratorio clinico anziché dolciario si sarebbe sostenuto che il cibo aveva un effetto narcotizzante sulle percezioni di Giovanni. Il suo mondo era limitato a un piatto di ceramica contenente a più riprese: baguette dolci e salate, mignon, crepes, affettati e cioccolato. Si accorse solo una volta di essere toccato quando il suo benefattore gli avvicinò un bicchiere alla fronte dicendo: «Scusa, devo recuperare il coleottero.»
Nei quarantacinque minuti intercorsi tra posate vorticanti, tovaglioli insozzati, bicchieri riempiti e rutti malcelati, Piergiorgio si interrogò su quella persona vestita di cenci. La sua faccia, e probabilmente il suo corpo, erano stati privati del grasso da molto tempo, lasciando il naso e gli zigomi talmente adunchi da impigliarsi nelle difficoltà della vita. La sporcizia gli aveva imbellettato palpebre e gote più del trucco che aveva visto in precedenza su Luana. Dimostrava tra i cinquanta e i settant’anni. Cinquanta guardando i capelli lunghi e ostinatamente neri, settanta il resto. I denti superstiti, sparpagliati sulle gengive, masticavano per due. Se il corpo è il tempio dell’anima, a Giovanni del suo tempio non importava un granché.

Pagò il conto e pretese la sua compagnia per il resto della serata; Giovanni non gli fece terminare l’invito.
Il temporale offrì una tregua. Le vie della città avevano ripreso a pullulare di vita dopo l’acquazzone. L’alone iridescente dei lampioni richiamava i neon dei locali notturni a civettare, e le bancarelle di rione, zeppe di libri usati, boule de neige e conchiglie importate da coste ignote, a irretire viaggiatori.
«Sei un turista?» chiese Giovanni. «Posso farti da guida se vuoi, conosco benissimo le chiese del quartiere francese e la fontana di Sant’Apollonia anche se, adesso che mi ci fai pensare, le chiese saranno tutte chiuse a quest’ora.» Tirò su il bavero rattoppato del cappotto per proteggersi dallo sbalzo di temperatura.
«Sono nato qui, però sono curioso di sentire cos’hai da dirmi sulla fontana.» rispose Piergiorgio.
Aveva aggiunto il bicchiere con il coleottero alla sua collezione.
«Sei un bel tipo sai?» disse Giovanni esaminando quel decoupage su due gambe. «Raramente mi capita di passare inosservato ma, accanto a te, mi sembra di essere tornato un anonimo pendolare.»
«Fino a ieri sarei risultato io un’ombra tra la folla.»
«Allora viva il cambiamento! E l’insetto? Da dove spunta fuori?»
«È un portafortuna.»
«La fortuna gira per entrambi stasera, grazie a te mio benefattore.» Giovanni batté la mano sulla spalla di lui. «E la bambola? Per chi è la bambola? Per la tua Cosette?»
«Ci sei mai stato qui?» la barba rossiccia puntava la placca in legno di sughero con la scritta: Taverna del Vin Santo.
«Non di recente.»
«Vieni, entriamo.»
«E la fontana?»
«Mica scappa. Su! Ho voglia di bere.»
Alla taverna Piergiorgio spese il triplo di quanto versato in precedenza alla cassa del bistrot. Le varie gradazioni alcoliche delle degustazioni di vigneti dell’Alto Reno, delle Lande e del Rodano in una cantina appartata dai soffitti bassi rischiarata da lampade a olio dei primi del ‘900 snellirono il suo portafogli e sciolsero la lingua a Giovanni. Raccontò aneddoti sull’ex moglie e descrisse la fine del suo matrimonio per colpa di una malattia genetica del figlio. «Ma lo senti quanto è sbruffone il locandiere Pier? Parla della rarità dei suoi vini e intanto con le mani nelle tasche si massaggia le palle.» lo scimmiottò: «“Una botte d’annata eccelsa”, “un vitigno rarissimo”.»
Entrambi alticci si arrischiarono a far bere Suellen, ella rifiutò il sorso etilico manifestando la sua sobrietà con labbra serrate; in compenso, il fiocco lilla del vestitino venne imbevuto d’alcol.
«Ssssst, zitto, ecco che torna il professorone.» biascicò Giovanni con le dita davanti alla bocca.
«Signori, vi prego di moderarvi.» il locandiere si rivolse a Piergiorgio, «La prego, convinca il suo compare a fare il bravo.»
«Raro? Cosa ne vuoi sapere tu di rarità? La mia creatura ha un sangue più diluito di questo piscio che tu chiami vino!» sbraitò Giovanni.
Una coppia di turisti, impaurita dall’alterco uscì dalla taverna.
«Ve ne dovete andare o chiamo la polizia.» minacciò il locandiere.
«E chi ci vuole rimanere in questo buco? Vieni Pier, andiamo via.»
Si affrettarono a risalire le scale strette della cantina: Giovanni aggrappato alla cintura di Piergiorgio con quest’ultimo impegnato a trascinarlo per le stradine notturne del rione. La bambola cinta tra l’addome inesistente dell’amico e le terga ampie del padrone. Il bicchiere con l’insetto dimenticato divenne il soprammobile di una botte di Borgogna.

Al temporale, rimasto latente e per nulla sopito, poco importava della sorte dei due uomini. Il suo fine ultimo era il fragore, l’orgasmo scaturito dalla vampa bianca del fulmine. Avvampava l’insurrezione del cielo tra cumulonembi e atmosfere, e sguinzagliava raffiche d’aria come fossero fruste.
«La senti Pier?» disse Giovanni. «Non è il vento che ti sveglia a suon di schiaffi; è la Vita, questa puttana che ti infila un paletto nel culo e ti dice “adesso corri” quando tu te ne vorresti solo stare rannicchiato in un angolo a capirci qualcosa.» Si passarono la staffetta e ora c’era il mendicante a fare d’apripista. Trasse da un’alcova del suo essere l’impertinenza della gioventù e cominciò a saltare tra le pozzanghere alimentate dalla pioggia. Il diluvio riempiva i sottovasi dei balconi e annaffiava la chioma del mendicante rinvigorendola a ogni scrosciata. Piergiorgio stentava a seguirlo, svampito e palesemente stanco vedeva dileguarsi, salto dopo salto, quel saltimbanco della seconda età, apolide sociale con la voglia ancora di ballare. Riuscì a raggiungerlo perché si era fermato al passaggio a livello su strada. Tremava per il freddo accanto al richiamo acustico di pericolo, con le sbarre che si abbassavano lentamente. Suellen, protetta all’interno del Loden.
«Te le ricordi le spacconate tra amici? A chi attraversava per ultimo le rotaie per impressionare una compagnuccia di scuola?» Giovanni intese i brividi dell’altro per un sì. «Facciamo a chi attraversa per ultimo. Ci stai?» le gocce di pioggia a ingioiellare i volti.
Piergiorgio lo seguì sull’immaginaria linea di partenza dentellata. Alle loro spalle la sbarra aveva compiuto il suo percorso e oscillava nel forcipe in metallo atto a fermare la sua corsa. Giovanni ticchettava il collo come un rapace in attesa da un lato dell’arrivo del treno, dall’altro dello scatto del compagno. La luce dei fari della motrice divorava oscurità nella sua ridondante corsa, trasmetteva vibrazioni lungo il lastricato di binari anticipando l’impatto imminente.
Giovanni era genuflesso sotto la sbarra mentre vedeva con la coda dell’occhio la bambola in volo superare il traguardo. L’aveva lanciata Piergiorgio quando aveva sentito arrivare il treno. «Prenditi cura di lei.» sussurrò. Chino con la testa guardava la cerniera di legni e metallo, un tessuto cicatriziale che ricuciva, strato dopo strato, l’autopsia della città.
“Voglio essere sepolta vicino a mamma tua, nel mausoleo di famiglia.”
Giovanni gli si lanciò addosso. L’impatto gli fece perdere l’equilibrio, urtò il fianco sull’asta e caracollò indietro con i piedi all’aria mentre il fischio del treno cercava inutilmente di spostarlo dai binari. Sbatté il gomito sull’asfalto e una scarica elettrica si irradiò dall’ulna fino ai polpastrelli. Si era morso la lingua.
Era supino sulla strada con le gambe poggiate alla sbarra e il treno sfrecciava veloce, accompagnato da un vento artificiale generato dallo spostamento dei vagoni; Giovanni sdraiato accanto a lui imprecava: «Sei pazzo? Stavi per morire!»
Piergiorgio apriva e chiudeva la mano, strizzando gocce di pioggia: «Ho perso il mio portafortuna. L’ho perso.»
«Tu sei pazzo!Io me ne vado.»
«Aspetta Gigì…» steso di lato protendeva la mano, «mi sono mancate le forze, ho bevuto troppo, non lasciarmi qui da solo.»
Per Giovanni erano solo menzogne ma l’aiutò comunque a rialzarsi: «Siamo in via Giordano. Devo ancora raccontarti la storia della fontana di Sant’Apollonia, tirati su.»
«Via Giordano?» Piergiorgio recuperò Suellen e la infoderò nel Loden.
«A breve si chiamerà fiume Giordano se non la smette di piovere.» constatò Giovanni.

Arrivarono alla piazza del municipio quando l’orologio della farmacia segnava le 2:34. Il monumento in marmo con la rappresentazione del carretto trasformato in barricata durante la rivolta. Aveva i fori dei proiettili e le froge dei cavalli ricolme d’acqua. Le baionette che, un secolo prima, puntavano sull’invasore, ora miravano Piergiorgio mentre si avvicinava alla fontana. Procedeva incerto sui bolognini resi sdrucciolevoli dalla pioggia. Sperò di ascoltare la storia della fontana riparato sotto un portico invece Giovanni lo condusse a ridosso del vascone, obbligandolo a sedere sul bordo. Sant’Apollonia li sovrastava, con l’ampia veste esotica, abbracciando la penna d’oca zampillante acqua invisibile nel temporale. I negozi disposti a semicerchio nella piazza, con le loro serrande abbassate, erano testimoni omertosi.
«Ti ascolto.» disse Piergiorgio.
«Invece sarai tu a dover parlare. Cos’era quella follia là al treno?» Giovanni stroncò sul nascere ogni giustificazione da parte del suo compagno: «Tu volevi morire.» Non era una domanda. «Perché mi chiami Gigì? Cristo Santo la vuoi smettere di accarezzarla?» Afferrò il polpaccio della bambola e con uno strattone la sfilò via dal soprabito di lui.
«Fermo! Cosa fai? Ridammela Giovanni.»
«Perché mi hai offerto la cena?» Poggiò Suellen sul bordo della fontana.
«Attento, può cadere…»
«CAZZO RISPONDI! O la bambola te la faccio diventare un mosaico a forza di saltarci sopra.»
«Volevo mi aiutassi.» la voce di Piergiorgio ridivenne calma.
«Aiutarti a fare cosa?»
«Non è come pensi tu. Volevo mi aiutassi a firmare.»
Giovanni lo guardava con un misto di curiosità e collera: «Continua.»
La pioggia cessò di battere sui loro corpi e rimase solo l’acqua della fontana a zampillare nella notte.
«Gigì era il pesce rosso di famiglia. Io lo sapevo che nonna portava a casa un nuovo Gigì quando il vecchio moriva ma li trovava sempre uguali, con il loro rosso anonimo e la nuotata fiacca, così, per me, c’era un solo Gigì. Era il mio confidente. Con nonna ci parlavo ma non era la stessa cosa. A lui potevo dire quanto il peggiorare della sua salute mi rendesse schifato anziché preoccupato. Pulirla dopo i suoi bisogni o ascoltare l’affanno nel suo respiro erano per me rintocchi sordi in una stanza vuota. Mi accorsi di quanto Gigì fosse circoscritto in una stretta prigione di vetro solo alla sua morte a cui assistetti impotente. Piansi in maniera esagerata. Il mio comportamento fu considerato eccessivo anche per nonna che prese a sbraitarmi contro. Nella foga ebbe uno dei suoi attacchi, di forti rantoli arrochiti, ma io volevo liberare Gigì dalla gabbia: con una mano sfogliavo TuttoCittà per trovare la foce del fiume e con l’altra riempivo la vasca da bagno per creare una bara temporanea. Rientrai in salone con nonna ancora accasciata a terra. Gli spasmi erano cessati. Chiamai l’ambulanza.»
«L’hai lasciata morire?» interruppe Giovanni.
Piergiorgio cacciò dentro una mano nella fontana con tutto l’orologio. La fece riemergere in verticale con le punte delle dita a squarciare la superficie dell’acqua come la punta di un iceberg: «No.» disse. «Ho chiamato l’ambulanza e sono stato accanto a lei nelle ultime settimane. All’ospedale la conoscevano e sapevano tutti cosa fare, eccetto io. Allora, non so perché, decisi di portarle Suellen e di metterla accanto a lei sul comodino, dove i pasti caldi forniti in un primo momento dall’ospedale restavano intonsi e freddi. Nonna era vigile il più delle volte ma non c’era mai veramente. Colpa delle medicine, dicevano i medici. Però ieri, rientrando nella sua stanza, ho notato il biasimo e il sostegno, che sempre l’avevano contraddistinta, irradiare nuovamente dalla sua figura. Ha detto molte cose, troppe affinché io riuscissi a coglierle – da una parte per colpa dell’ictus dall’altra per la velocità d’eloquio. Ma alcune sono riuscito a carpirle: riguardavano la sua sepoltura e Suellen. “È stata la bambola preferita di tua madre. Promettilo, prometti che ti prenderai cura di Suellen, Piergiorgio promettilo.” ha ordinato nonna prima di ripiombare nel vaniloquio. Il giorno dopo è entrata in coma.» Si sentiva la lingua secca e bevve un sorso dalla fontana.
Giovanni era dietro di lui: «E tu hai cercato di ammazzarti perché tua nonna sta morendo? Sei l’unico infelice al mondo?» Mise le mani a conca davanti alla bocca e strillò alla piazza: «Udite gente! Abbiamo il martire che ha passato le pene dell’inferno!» Spinse Piergiorgio facendolo cadere nel vascone; torreggiava su di lui con tutto il suo peso: «Almeno mi ascoltavi alla taverna? Hai visto come sono ridotto, e mi vieni a parlare del corso naturale della vita?» Serrò il palmo sulla sua nuca e gli sussurrò all’orecchio: «Ma non temere, ho deciso di aiutarti» Si rizzò di scatto «Eccoti il mio aiuto!» Calò la testa di Piergiorgio sott’acqua facendola cozzare contro il fondo della fontana. Lui annaspava nel liquido reso torbido dalla notte agitando gambe e braccia in movimenti sclerotizzati. L’agitazione creava marosi che soffocavano la riserva d’aria nei suoi polmoni a ogni nuova ondata di panico.
Giovanni lo sollevava il tanto che bastava per farlo respirare e poi lo rigettava a fondo.
Nell’ultima immersione forzata Piergiorgio aprì gli occhi. Il silenzio in cui era coinvolto attutiva i rumori del mondo. Pur di non sentire il vuoto estraniante, gorgogliava bolle dal naso privandosi d’aria preziosa. La mano che lo tratteneva giù era sparita ma lui sarebbe collassato, inabissato dal peso delle sue paure, se non avesse visto il tuffo di Suellen. Era sgraziato. Lacerò il pelo dell’acqua increspandolo. Cerchi concentrici si espandevano dal corpo di porcellana al suo. L’immagine della bambola si raddoppiava e si sovrapponeva sfocata nel suo arco visivo.
Facevano entrambi il morto a galla. Dal lato sbagliato.
Emerse dall’acqua boccheggiando. Inalava aria dando per la prima volta il giusto valore al respiro. Il fiato accelerato era impercettibile nella piazza rispetto ai passi di Giovanni. Se ne stava andando: «L’ho gettata via Pier. Dammi retta, lasciala.» Si voltò a guardarlo: era accovacciato al basamento di Sant’Apollonia come cartapesta, «lasciala lì.»
Piergiorgio credeva di rispondere a Giovanni ma dialogò col vento: «Dovevi aiutarmi, dovevi aiutarmi.»

Suellen venne ritrovata all’alba da un fattorino che consegnava i giornali alle edicole. Quando la portò a un rigattiere dei portici, Piergiorgio era rincasato. Non alzò le serrande né accese la luce. Posò il loden ed estrasse la lettera. Si diresse in bagno e usò il phon per asciugarla. Appena fu soddisfatto del risultato ottenuto, uscì. Ripercorse i viottoli battuti con Giovanni con la luce del sole a riscaldarli. Trovò un giovane tarchiato intento a parlare con un fornitore davanti alla taverna del legno di sughero e attese. Il sole scaldava anche le sue vesti e rimuoveva l’odore di pioggia.
«Tu devi essere il figlio.» disse Piergiorgio approcciando il giovane.
«Sei un amico di mio padre?»
«Volevo scusarmi per ieri sera.»
«Non mi ha detto nulla di ieri sera, comunque se vuoi parlare con lui ripassa stasera.»
«Grazie.»
Il fornitore intanto scaricava le casse di vino.
«Posso darti una mano?» chiese Piergiorgio.
«A fare che?»
«A portare giù le casse.»
Il giovane considerò la proposta e assentì.
Il giovane si chiamava Simone, suo padre Menandro. A lavoro ultimato osservò incuriosito lo strano uomo che si era offerto di aiutarlo sobbarcandosi il peso maggiore della merce. Aprì una cassa e tirò fuori una bottiglia: «Prendi questa, al massimo la vieni a bere stasera con mio padre.»
«Allora conservala, inutile portarsela appresso.» Sorrise Piergiorgio di rimando al sorriso di Simone: «Posso dare un’occhiata qui attorno?»
«Certo. Perché?»
«Ieri sera ho perso una cosa e vorrei cercarla.»
Simone scrollò le spalle: «Io ho già spazzato e non ho trovato niente. Però fai pure.»
Il coleottero non aveva fatto molta strada. Dalla botte di Borgogna si era arrampicato su un infisso in legno in cerca di visuale. Era immobile come i fusti d’acquavite attorno a lui.
«Vieni, ti porto fuori. Forse tu puoi aiutarmi.» disse Piergiorgio adagiandoselo nella conca della mano.

Attraversarono la piazza della resistenza con la fontana di Sant’Apollonia, girarono per il vicolo Scandicci dove i calzolai erano intenti a ringiovanire suole e passarono sotto il cavalcavia dei cherubini invaso dall’edera e dai copertoni usati per arrivare al parco Esseni. A quell’ora del mattino le panchine erano libere, circondate dal verde. In lontananza un gruppo di ragazzi che aveva bigiato la scuola giocava a palla riempiendo il prato di ansimi e risa. Scelse la panchina attaccata al vecchio castagno che, con la circonferenza del suo tronco, ampliava il suo schienale da misero a maestoso. Si sedette e dischiuse la mano con dentro il suo ospite. Il rosso e i pois neri del coleottero apparivano nitidi sul palmo illuminato dai raggi solari.
Piergiorgio spiegò la lettera sulle ginocchia:

Hospice “Villa dei Miracoli”

PROPOSTA di PRESA IN CARICO presso UO di CURE PALLIATIVE

PREMESSO CHE

a) le attuali disposizioni, statali e regionali impegnano le aziende sanitarie alla realizzazione di una rete di assistenza per pazienti terminali, al fine di evitare la loro ospedalizzazione quando per una molteplicità di condizioni cliniche o sociali, il domicilio diventa inadeguato;

E la sfogliò fino all’ultima riga:

…………… lì…………..                                                                                                                                      FIRMA_________________________

Prese la penna dal taschino e ci depose sopra l’insetto. Questi percorse l’intera superficie in plastica con le sue zampette fino al puntale, da lì attraversò la linea nera di stampa accanto alla firma e travalicò il foglio. Come un escursionista passò dal legno inerte della panchina alla corteccia viva del castagno. La scalò incurante della pendenza e della gravità e raggiunse un ramo dalle foglie soffici.
Piergiorgio, seduto sulla panchina, stringeva ancora la penna in mano.

Copertina di William Bersani

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