Schei

Schei #1

Che rotura de cojoni, pensò Francesco, tutti in vacanza, o in casa a godersi il fresco, mentre a lui toccava sbattersi girando per i mercati e la campagna. Di malanimo aveva imboccato la strada poco battuta dell’argine, che correva sopra i campi di granturco e le vigne cariche di grappoli di glera e merlot, abbandonando la piazza del paese, svuotata dal solleone e dalle ferie. Nel Fiorino arroventato, privo di aria condizionata, ardeva la calura del mezzogiorno, resa ancora più soffocante dall’umidità della terra. Indossava una maglietta ormai fradicia, pantaloni corti appiccicosi e sandali; pensare che suo padre gli aveva sempre raccomandato: ‟Pulito e in ordine, la prima impressione è quella che conta”.

Oltrepassò edifici in rovina, che ormai non presidiavano più i terreni coltivati, finché non vide sulla sinistra una casa colonica abitata. Per annunciare il suo arrivo, accese l’altoparlante imbullonato sul tettuccio.

‟Arrotino… arrotino… ombrellaio. Donne! È arrivato l’arrotino! Forbici, coltelli. Arrotino… ombrellaio…”

Da bambino era orgoglioso del suo papà. Faceva un mestiere che risaliva almeno al bisnonno friulano, e al nonno Antonio che in una foto in salotto posava davanti alla sua bicicletta, con la mola saldata alla canna del telaio e gli attrezzi nella cassetta di legno davanti al manubrio. Accanto c’era anche una sua foto a dieci anni con il papà: sorridevano vicino all’Ape verde usata dal padre prima di comperare il Fiorino. All’epoca era proprio mona. L’arrotino gli sembrava un lavoro avventuroso, sempre all’aria aperta, libero da maestri e professori. Fiero di raccogliere le forbici che le donne gli consegnavano, infilandole in un lungo filo di ferro (‟Piano e bene” gli insegnava il papà, ‟fa’ attenzione che siano in ordine”), accompagnava il padre durante le vacanze scolastiche. Frequentava svogliatamente la scuola così, dopo la terza media, aveva cominciato a lavorare, ma non come arrotino, non c’era abbastanza lavoro per entrambi.

Scese la rampa di terra battuta, accolto da un bastardino rossiccio che gli abbaiò con insolenza, tenendo la coda dritta come uno stendardo di guerra. L’avrebbe volentieri preso a calci, ma si accontentò di sbattere la portiera per spaventarlo, senza risultato. Francesco, ormai abituato a quel genere di benvenuto, aspettò che dopo la soldataglia arrivasse la castellana, perché più che i re erano le castellane a trattare con il nemico: i venditori, i testimoni di Geova, i singani, gli extra-comunitari, in generale gli sconosciuti che penetravano nella prima cinta di mura.

La casa colonica era divisa in tre parti, segnalate da differenti coperture del tetto: vecchi coppi macchiati da muffe scure, tegole piane rossastre e tegole color testa di moro che scintillavano al sole. La facciata, di tre tonalità di rosa differenti, era macchiata da larghe chiazze di umidità che erompevano in bolle, sollevando e sfarinando l’intonaco bianco sottostante. Dovevano viverci la famiglia dei genitori, i veci, e quelle dei figli sposati: accanto al fico, vicino a una montagnola di sabbia, erano sparpagliati un camion di plastica giallo e blu, secchiello palette e formine, una palla floscia. Galline intente a becchettare l’erba zampettavano oltre il cortile, in un prato che dava sulle vigne e i campi. Dentro un brutto capannone, una Dacia Duster e una Seat Ibiza nuove erano parcheggiate accanto a un trattore dalle alte ruote sporche di terra.

La contadina, schermandosi gli occhi con la mano, uscì da dietro la tenda chiara che riparava dalla calura il portone d’entrata. Il bastardino le girò attorno scodinzolando, con rapide incursioni verso Francesco per abbaiargli contro. La donna indossava un vestito sbilenco, di cotone a fiori gialli stampati, e trascinava delle ciabatte in pelle sbiadite; ingrossata dall’età, aveva guadagnato dal lavoro sui campi il volto e il collo invecchiati di rughe, e mani ruvide e pesanti.

‟Lachi… muci!” La donna zittì il cagnetto.

‟Buondì, signora” si presentò Francesco. (‟Buongiorno, buonasera e un bel sorriso” gli ricordava ogni volta il padre prima di fermarsi nelle case.) ‟Forbici o coltelli da affilare? Fasso el fio anca a falci, zappe, pale…”

Se rangia me fiol.” Allora non serve niente, pensò Francesco. Il solito ritornello.

Ben! E se rangia anca coe onbree?” Senza aspettare risposta continuò: ‟Con sinque euri ve giusto e onbree coe steche storte”.

Al marcà, dai cinesi, tee tira drio e onbree. E quando e ze rote e finisse nee scoasse.”

Francesco si chiese che casso ci faceva ancora lì, a sudare e ad arrostirsi al sole.

‟Non vorrà tegnerse tuti i schei sotto il materasso…” disse.

No ghe ze pi schei. I ga magnai tuti e tasse.”

‟Ma avete una bella casa e un toco de tera…”

‟Eeeh… ghe vol schei per la casa. E con la terra si fanno tanti sacrifici, ma non si prende gnente.”

Risparmiare, sacrificarsi, lamentarsi degli schei era il piagnisteo che Francesco ascoltava a casa da suo padre e sua madre, nei mercati, dalla gente che incontrava per la campagna.

Gavè anca do macchine nuove…”

‟Le hanno comperate i figli per andare a lavorare. Se no se ’avora no se magna” disse la donna. ‟Lachi! Muci!” Sgridò il bastardino rossiccio che gironzolava attorno a Francesco abbaiando. ‟Ormai nessuno vuole fare più il contadino. Povera Italia.” Le ombre ai loro piedi erano due piccole pozze scure.

‟Allora non ha proprio bisogno di gnente?”

La donna scosse la testa. ‟Se rangia me fiol.”

Ripartì. Dalla rampa vide nello specchietto retrovisore la contadina che lo guardava allontanarsi, i pugni ai fianchi, baluardo contro il nemico. Il cagnetto rincorse l’intruso fino in strada, abbaiando rancoroso.

Si era licenziato spesso. Non sopportava lavorare al tornio otto ore al giorno, chiuso in officina, oppure farsi bestemmiare dietro perché posava le piastrelle di qualche terrazzo con la testa per aria. I fratelli di Francesco si erano già sistemati: Antonio, sposato, lavorava come geometra, facendo un bel po’ di schei, tra nero e fatture; Sergio, impiegato del Comune, continuava a portargli i bandi dei concorsi a casa, e il padre lì a ficcarglieli sotto il naso, come a dire che era ora che trovasse un lavoro stabile. Francesco era bravo a stare al bar con gli amici, e nessuno doveva togliergli gli allenamenti a calcetto del martedì e giovedì sera, e la partita ogni due domeniche. Se n’era fatta una ragione anche Simona, la sua ragazza da due anni, che insisteva a sposarsi. ‟Nel bene e nel male, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non ci separi.” Ma chi credeva ancora a ’ste stronsae?

Il lavoro di arrotino ambulante gliel’aveva rifilato il padre, spinto dalla preoccupazione per il suo incerto futuro di trentunenne, ma la rogna era stata seguirlo nei suoi giri per tutto un anno, prima che andasse in pensione. Gli spiegava ogni volta come fare bene il lavoro e come trattare con la gente; gli parlava dei valori che suo padre Antonio gli aveva insegnato: lavoro, sacrificio, economia, onestà. Aveva in testa ancora la sua voce che sentenziava: ‟Tre cose sono impagabili: salute, arte, onestà”. Una solfa da non poterne più.

Accostò all’ombra di una robinia e, rivolto ai campi di granturco rinsecchito, si fermò a pissar. Guardò il pene flaccido che teneva tra due dita. Quella sera aveva appuntamento con Simona, gli bastava una doccia per tornare in forma. Sorrise immaginando le acrobazie che avrebbero fatto a letto.

Una Porsche Carrera nera decappottabile strombazzò dopo averlo superato. Va in mona, disse ad alta voce, ma ormai era scomparsa dietro una curva. Fece in tempo a vedere dei lunghi capelli biondi sventolare sopra il sedile del guidatore. Anche se avesse sgobbato ventiquattr’ore al giorno non sarebbe mai riuscito a viaggiare in Porsche, pensò; la strada è in discesa solo se sei ricco di famiglia o hai gli agganci giusti. Tanto valeva tornarsene a casa invece di lavorare a vuoto, ma non aveva voglia di sorbirsi le prediche del padre, quando era evidente che con quel lavoro da sfigai si guadagnavano do franchi. Aprendo una coltelleria in città avrebbe avuto un futuro anche lui, ma non c’erano schei, si era dovuto accontentare dell’eredità paterna.

Decise di continuare fino alla statale dove si sarebbe fermato a mangiare all’Osteria alla Croce, sotto la pergola con il glicine. La cucina casalinga e la padrona, ’na gnoca, l’avrebbero risarcito del fastidio della mattinata.

Dopo una serie di curve, si imbatté all’improvviso in una rampa che scendeva sulla destra. Svoltò per abitudine, anche se subito si maledì per non aver continuato dritto. La strada entrava in una proprietà cinta da un muro di sassi a vista, con spuntoni di ferro battuto in cima. Il cancello era aperto: si ripromise che quella sarebbe stata l’ultima casa che visitava, non accese neppure l’altoparlante. Tanto, pensò, sulla fiancata del Fiorino c’era scritto in bella mostra Non solo arrotino.

Il ghiaino bianco del cortile esaltava l’intonaco rosato della facciata e un noce antico creava una morbida ombra davanti alla casa colonica restaurata. Parcheggiò vicino all’ulivo, accanto al pozzo; dalla carrucola pendeva una catena che terminava in un secchio di stagno immerso nell’acqua con delle bottiglie di vino. Al solo vedere l’acqua e il vino freschi si sentì ritemprato. Già si immaginava uno sdraio per rilassarsi all’ombra dell’olivo, quando dal nulla uscì un enorme alano nero. Ansimando per il caldo, con la lunga lingua rosata fremente, si fermò a qualche metro di distanza.

La ragazza che uscì dall’ombra di un passaggio a volta fece girare la testa al cane che rimase paziente ad aspettarla. Il pareo a colori vivaci lasciava scoperte le lunghe gambe abbronzate. Un gran toco de figa, pensò Francesco. I capelli neri, ricci, creavano una nuvola vaporosa attorno all’ovale pulito del viso, che racchiudeva piccole labbra carnose e occhi scuri dalle lunghe ciglia.

‟Ciao” disse la ragazza, accarezzando con la punta delle dita la schiena del cane.

‟Sono l’arrotino” disse Francesco con un sorriso. ‟Avete forbici o coltelli da affilare? Aggiusto anche ombrelli.”

‟È un mestiere che sta scomparendo” disse la ragazza. ‟Quand’ero bambina passava un arrotino con un’Ape…”

‟Forse era mio padre, aveva un’Ape verde.” Ora Francesco era contento di avere un padre arrotino.

‟Come fai a lavorare con questo caldo infernale?” La ragazza si avviò verso il portone di casa. ‟Ti porto qualcosa di fresco da bere.” Ritornò con una bibita gialla frizzante, che Francesco trangugiò lasciandosi andare a un sospiro di sollievo. Poi gli chiese perché non dimenticava il lavoro e veniva a rilassarsi con loro in piscina.

‟Ti ringrazio, ma devo lavorare” disse Francesco. ‟Ho ancora un bel po’ di strada da fare oggi.”

‟Con questa afa?” L’alano si era accucciato ai piedi della ragazza, con gli occhi semichiusi sembrava cercasse di seguire la discussione. ‟Adesso saranno tutti a pranzo. Fai un break e poi riparti.”

‟Grazie, ma non posso proprio.” Francesco sorrise. ‟E poi non mi porto il costume quando lavoro.”

‟Sempre a farsi pregare questi uomini…”

Lo prese per mano e, seguiti dall’alano, attraversarono il passaggio che immetteva in un ampio prato dove scintillava una piscina dall’azzurro intenso, circondata da poltrone a sdraio in legno con cuscini bianchi. Due magnolie creavano un angolo d’ombra accanto a una macchia viola di lavanda sopra un’olla smaltata. Addossato al muro, un pergolato di travi massicce riparava dal sole un tavolo in legno grezzo.

Che casso…, si stupì Francesco. C’erano due persone nude distese sugli sdrai.

La ragazza gliele presentò. L’uomo dalla pelle color cuoio e dalle gambe forti era Giorgio, suo padre. L’altra era la sua compagna, Zoe, ’na gran gnoca – giovane, capelli ramati e pelle color latte – che lo salutò coprendosi il pube con il prendisole. La ragazza, solo ora si presentò, si chiamava Greta. Pure Vrag – così aveva chiamato Greta l’alano – gli pareva nudo, con i testicoli penzolanti e il pene racchiuso nell’astuccio di pelle nera. Dov’era era finito? In un campo nudisti? Con i compagni di calcetto, sotto la doccia, scherzava sulla fiera dei osei, e ne aveva viste de fighe, lo sapevano bene gli amici del bar: prima di mettersi con Simona era sempre in testa nella gara a chi collezionava più tanga e brasiliane. Questo però…

‟Visto che non c’era da preoccuparsi per il costume” disse Greta, lasciando cadere il pareo su uno sdraio. Lo sguardo di Francesco corse ai seni di Greta, dai grossi capezzoli scuri, precipitando sul ventre piatto, con due fossette ai lati, per atterrare sul ciuffo di peli neri del pube, e risalire veloce a incrociare di nuovo lo sguardo della ragazza.

‟Facciamo una nuotata?” propose Greta.

‟Sicuro!” disse Francesco. Appoggiò su uno sdraio la maglietta sudata e i pantaloncini, appallottolando le mutande in una tasca. Dopo il confronto soddisfacente tra il suo pene e quello di Giorgio, adesso era preoccupato di non eccitarsi troppo per non far brutta figura. L’acqua era meravigliosa, tiepida ma rinfrescante, ottima per tranquillizzare lo spirito e il fisico. Si spinse fino al fondo della vasca e quando risalì arrivò accanto al corpo da sirena di Greta.

‟Che paradiso” disse Francesco con sospiro. Era comodo avere la piscina nel giardino di casa invece di spintonarsi nelle piscine comunali sempre affollate di bambini.

Greta gli sorrise e si mise a nuotare a dorso, l’acqua l’accarezzava con le sue dita liquide. Con due bracciate Francesco la seguì, poi tornò indietro. Sentiva i muscoli riattivarsi per l’esercizio, avidi di movimento dopo essersi rattrappiti alla guida.

Giorgio si tuffò. Nuotava con eleganza e precisione; Francesco lo invitò a una specie di gara: tre vasche andata e ritorno senza fermarsi. Al termine, Giorgio era senza fiato, a differenza di Francesco.

‟Troppo ufficio” disse Giorgio. ‟Anche se faccio pilates due volte la settimana.”

Roba da femene, pensò Francesco. ‟Anch’io sono sempre in macchina” disse. ‟Ma mi alleno a calcetto e alla domenica… partita!”

‟Beato te che hai tempo” disse Giorgio. Poi si rivolse a Zoe, in piedi a bordo piscina: ‟Vieni è tiepida”.

‟Muoviti pigrona!” disse Greta.

Zoe era riluttante, non voleva bagnarsi i capelli. Greta e il padre la canzonarono finché Giorgio uscì dalla piscina per afferrarla e gettarla in acqua, coinvolgendo anche Greta che incitò Francesco ad aiutarli. Rincorsero Zoe che scappava lanciando dei gridolini. A uno scarto improvviso di Zoe, Francesco si trovò addosso a Greta con il petto e le cosce bagnate. Greta rise. Finalmente immobilizzarono Zoe e, Giorgio per le spalle, Greta e Francesco per i piedi, la trasportarono a bordo piscina gettandola in acqua, sordi alle sue proteste. Francesco notò i genitali di Zoe, così diversi da quelli di Simona, la sua ragazza: il ciuffo di peli color carota era regolato accuratamente e le labbra erano fini, da adolescente.

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Copertina originale di Pier Giuseppe Giunta

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Maurizio Donazzon
Sono nato a Treviso, nel 1961, e dal 2009 tengo corsi di Scrittura creativa presso l’Arci di Treviso, dove lavoro. Ho tenuto un Laboratorio sull’intervista da cui è tratto il volume Storie di vita migrante, Terra Ferma Edizioni, 2015, con dieci interviste di migranti.
Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line Alcuni miei racconti sono stati pubblicati in antologie di concorsi letterari, altri sono presenti nelle riviste on-line WebSite Horror, Il Paradiso degli Orchi, Lahar Magazine, Sguardindiretti, Spazinclusi, Verde. Autore aggiunto presso Spazinclusi.
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