«Hai mai desiderato morire? Il tuo cuore è un palloncino gonfio di cose andate storte e hai paura che esploda se ancora una piccola cosa dovesse aggiungersi a quelle. Allora vorresti solo una fine veloce e indolore. Senza le lacrime di nessuno, solo un po’ di pace per la tua anima inquieta.»
Si limitò ad abbracciarmi e a dirmi di non preoccuparmi: è una cosa che capita a tutti. Tutti, da adolescenti o da adulti, lo abbiamo pensato. Solo che pochi hanno il coraggio di ammetterlo.
C’eravamo conosciuti al “Museo”.
Avevo trovato nella posta un invito per una performance artistica che si sarebbe svolta a Gavirate.
Il giorno designato era un sabato pomeriggio di sole accecante e da una settimana non lavavo i capelli; con le unghie ero in arretrato di due.
Non sarei potuta uscire in quello stato.
Mi obbligai a fare una doccia. Shampoo, balsamo e, con l’asciugamano avvolto in testa, passai l’acetone sulle unghie e misi lo smalto nuovo.
Arrivai a destinazione e lasciai l’auto in cima a una stradina. Presi la borsetta, controllai il rossetto nello specchietto, chiusi la portiera col telecomando automatico e mi incamminai.
Varcai un grande cancello con l’apertura centrale e mi trovai in un prato dove i tavoli disposti a L erano imbanditi con panini, patatine, pizzette, bibite e delle bottiglie di vino bianco e di vino rosso con l’etichetta scritta a mano. Sulla destra c’era quello che chiamavano Museo Teo: una vecchia abitazione a due piani, con otto scalini all’ingresso.
Era buio all’interno; filtrava solo una strisciolina di luce dalla porta; su un tavolo c’erano delle torce elettriche: ognuna aveva un cartellino “Prendimi e guardati attorno”.
Alle pareti erano appesi dei quadri raffiguranti figure sbiadite. Su dei ripiani erano adagiati album da sfogliare con illustrazioni nitide sulla prima pagina che mano a mano scomparivano. Feci luce, andai nell’altra stanza. Il pavimento di legno scricchiolava. Un vecchio giradischi illuminato suonava ininterrottamente La vie en rose e un armadio sulla destra aveva un’anta spalancata.
Ne illuminai l’interno: conteneva vecchie scarpe di bambini, cappottini dal taglio antico, cappellini.
Diressi la luce della lampada verso la parete. C’erano dei quadri anni sessanta, raffiguranti una madre con i capelli perfetti e dei bambini con le calze al ginocchio.
Andai oltre l’armadio.
C’era un tappeto con una strana macchia, sotto il letto matrimoniale.
Qualcosa che usciva dal letto. Una confusa matassa marrone. Mi chinai e, prima che sollevassi il copriletto bianco fatto all’uncinetto, una mano sbucò da sotto il letto.
Una signora che era con me nella stanza gridò.
La mano m’invitò a raggiungerla. Andai verso l’ignoto: cosa avrebbe potuto accadermi?
Il cuore mi rimbalzò nello stomaco e, quello stesso cuore, mi esortò a lasciarmi guidare.
Non accadde nulla sotto il letto. C’era solo una ragazza che interpretava una parte. Immobile. Non so da quante ore. Con un vestito leggero a fiori e delle scarpe di vernice col cinturino.
Era l’addetto al buffet, a uno dei due tavoli.
«Piaciuta la mostra?» mi chiese.
«Piuttosto suggestiva. Abbastanza inquietante.»
«Ho sentito un urlo mentre eri dentro.»
«Sono stata catturata dal cadavere sotto al letto e una signora ha gridato.»
«Sei stata coraggiosa!»
«Ero un po’ combattuta in realtà. Spaventata, ma allo stesso tempo curiosa.»
«E la curiosità ha avuto la meglio.»
«Già…»
«Vuoi qualcosa?»
«Un bicchiere di vino rosso, grazie.»
«Da mangiare?»
«Prenderò delle chips.»
«Chips. Le hai chiamate chips, tutti le chiamano semplicemente patatine.»
«A me piace chiamare le cose col loro nome.»
«Io mi chiamo Walter e tu?»
«Gabriela, piacere.»
«Mi affascinano le ragazze che si esprimono in modo appropriato. Vorrei conoscerti meglio.»
«Magari accadrà.»
«Magari facciamolo accadere, ti lascio il mio cellulare. Se vuoi, chiamami.»
Apprezzai l’intraprendenza, non capitavano spesso ragazzi decisi.
Lo richiamai il giorno dopo. Andammo a bere una cioccolata in una caffetteria. Mi spostò la sedia, mi fece ridere e pagò il conto. Era anche lui un artista e mi raccontò di come aveva iniziato a dipingere. All’età di dodici anni aveva perso la madre e da allora incanalava la sua rabbia per quella morte nella pittura. Tracciare linee dai colori forti lo aiutava a ricongiungersi a lei.
Walter era magro, ma muscoloso. Con le spalle larghe e un bel sorriso sempre inciso sul volto.
Quando uscivamo con i suoi amici al bar, veniva spesso deriso, perché era sempre buono con tutti, mai un’incazzatura. Era tranquillo, gentile, sempre disponibile.
Tornavo a casa dal lavoro stanca, con i nervi a pezzi, facevo una doccia, bevevo un bicchiere di vino, poi arrivava lui. Stava da me un paio d’ore e tornava a casa sua. Altre volte ci vedevamo dopo cena. Altre ancora ci sentivamo al telefono.
Lui c’era sempre. A riallineare i miei sbalzi d’umore, le mie sporadiche crisi di tristezza, che di tanto in tanto riaffioravano.
«Ho paura lo sai?»
«Di cosa?»
«Che mi crollino i nervi. Non ce la faccio più. C’è sempre qualche casino da risolvere. Al lavoro stanno saltando delle teste e la mia rubrica potrebbe chiudere.»
«Non chiuderebbe mai la tua rubrica. Non gli converrebbe farlo.»
«La rubrica di cucina ha più followers della mia.»
«Ma è solo una moda passeggera.»
«Appunto. Una moda! Analizza il termine: quando a scuola ti facevano studiare la moda, la mediana e la media qual era quella che andava per la maggiore?»
«Non taglieranno mai “l’amica dei cuori solitari”. La gente che soffre per amore esiste da sempre e per sempre esisterà. E tu sei lì, a rispondere ai messaggi che ti scrivono sul web, alle loro e-mail. Tu esisti per loro. Sei la loro àncora di salvezza.»
Lui aveva questo modo pacato di risollevarmi. E io, a lui, dicevo tutto. Svelavo i miei pensieri più oscuri.
«Ti aiuto a lavarti i capelli, vuoi?» mi disse un pomeriggio.
La mia rubrica era saltata. L’intera azienda era saltata. Ed erano due mesi in arretrato, con gli stipendi.
Io non uscivo più di casa. A malapena mangiavo, ma solo perché passava lui, a cucinare per me.
Mi fece sedere di fronte al lavandino e iniziò a versarmi l’acqua sulla testa da una vecchia brocca. Sentivo i brividi punteggiarmi la cute e un leggero senso di benessere alle tensioni del collo.
Mi massaggiò dolcemente con i polpastrelli, fino a che non vide apparire la schiuma. Poi li risciacquò. Mise la crema. Li sciacquò di nuovo e mi mise l’asciugamano in testa. Mi voltai verso di lui.
«Ehi…stai piangendo» mi disse.
«Non ce la faccio più.»
«Sì che ce la fai.»
«Mi è accaduta di nuovo quella cosa.»
«Succede a tutti, te l’ho già detto. Devi stare tranquilla.»
«Sai che una volta, a vent’anni, sono arrivata fino in stazione? Una mattina, uscii di casa e finsi di andare al lavoro.»
«E cosa volevi fare?»
«Immaginavo di sdraiarmi sulle rotaie e farmi tirare sotto da un treno. Ma poi ho pensato a mia madre.»
«Cos’era successo?»
«Ero stata mollata da un ragazzo. Mi sentivo inutile.»
«Non sei inutile e se tu lo avessi fatto, io non ti avrei mai conosciuta.»
Lo disse con un tono armonioso, senza gridarmi addosso.
«Mi vergogno ad ammetterlo, ma ieri sera… ho pensato un’altra cosa brutta.»
Sono sempre stata dell’idea che racchiudiamo in tutti noi delle scatole nere. Dei luoghi profondi, celati in fondo alla gola o allo stomaco, in cui nascondiamo quello che non possiamo raccontare agli altri. Perché se lo facessimo, la bella immagine che abbiamo deflagrerebbe.
A volte sentivo che lo stomaco stava per scoppiare. Mettevo da parte la vergogna e aprivo le mie scatole nere, dinanzi a lui.
«Volevo uccidermi. Sono talmente piena. Il lavoro che non ho, i soldi che mancano e che sono costretta a chiedere ai miei, le liti familiari. Penso che se mi prendessi un flacone di pastiglie, morirei. Di mal di pancia, dolori assurdi, ma la farei finita. Non so. L’ho pensato un sacco di volte, ma poi non l’ho mai fatto. Sono pazza?»
«Ma poi non lo hai fatto, no? Tutti siamo travolti, a volte, dall’angoscia. Qualcuno si fa un po’ sommergere, ma poi emerge.» Sorrise.
«Tu no, tu non mostri mai rabbia, frustrazione.»
«A che servirebbe?»
«A niente. Per questo t’invidio.»
«Il tuo mostrarti così limpida con me, mi onora.»
«Sei l’unico di cui mi fido. L’unico col cuore così grande, da farci entrare tutta me e i miei casini.» Risi.
«Sei spontanea, sei libera. È questo che mi piace di te.»
«Mi sa che voi artisti siete abituati ai pazzi.»
Scoppiammo a ridere entrambi. Mi baciò e andammo in camera mia a fare l’amore. Avevo ancora i capelli bagnati, come piaceva a lui.
Trascorsero altri tre mesi. Il sole riempiva il cielo il giorno in cui venni contattata. La rivista on line Modern Beauty mi chiese se ero disponibile a collaborare con loro da casa. Avrei avuto un mio user e una mia password per accedere al loro sito. Mi sarei occupata della rubrica “Ragazze d’Oggi” consigliando alle adolescenti tra i dodici e i diciassette anni il modo in cui superare le pene d’amore. Avrei ripreso a lavorare con un incarico che avevo già svolto per anni.
Decisi di fare una sorpresa a Walter. Non andavo mai a casa sua. Anche lui abitava da solo e preferivo non interferire con i suoi progetti artistici. Restai vestita com’ero, non mi truccai, raccolsi i capelli in uno chignon che legai con l’elastico, infilai un paio di scarpe da tennis, presi la borsa con la patente e salii in auto.
Dallo stereo partì Scream (Funk my Life up) di Paolo Nutini e, guardandomi nello specchietto retrovisore, mi accorsi che sul mio viso era impresso un sorriso che mancava da molto tempo. Feci la curva e arrivai fino in fondo alla via, dove abitava Walter. Parcheggiai e scesi dall’auto.
Bussai alla sua porta. Nessuno rispose. Bussai di nuovo. Niente.
Guardai dalla finestra. C’erano tutte le luci accese e si sentiva una musica in sottofondo.
Spinsi in giù la maniglia, la porta era aperta. Attraversai la sala: «Walter sono io! Gabriela! Ho bussato…»
La casa era invasa da tele. Tele ovunque. Tele con strane strisce. Tele col mio volto. Tele col mio nome.
«Walter? Walter dove sei?»
Arrivai davanti alla porta della sua camera. L’aprii.
Eccolo. Era lì.
Appeso a una corda.
Se n’era andato in punta di piedi. Senza far rumore.
Mi aveva accompagnato nelle mie crisi interiori e, quando avevo raggiunto una stabilità, mi aveva lasciata. Sola.
Uscii dalla stanza. Misi a fuoco le tele. Una mi raffigurava alla mostra; in un’altra avevo l’asciugamano in testa; in una ero intenta a scrivere al pc; nell’ultima ero di spalle e indossavo ali di piume. La staccai dal muro. Le lacrime caddero tutte insieme. La portai con me.
*****
Foto di Federica Pamio
Lila Ria (Ilaria Pamio) è nata a Busto Arsizio (Va) nel 1980 e lavora per una compagnia aerea.
Suoi testi poetici sono apparsi su Versante Ripido, Bibbia d’Asfalto, L’Irrequieto, Mosse di Seppia; alcuni racconti sono stati ospitati su Prospektiva, Youthless Fanzine#31, Foga, Risme, Cadillac, Inchiostro.
Ha scritto un romanzo, ancora inedito, che s’intitola “Tunnel”.
Nell’anno 2020/2021 frequenterà la “Bottega di Narrazione” di Giulio Mozzi.