1. Il barbone
L’orologio segnava le nove di sera e maledissi me stesso per essermi attardato, pensavo fosse prima. Mi stupii: da qualche giorno arrivavo alla stessa ora, spaccando il minuto. Nella sala erano presenti poche persone e ne fui contento. Scelsi uno dei miei sedili preferiti e mi ci sdraiai, un po’ in disparte per avere un minimo di intimità e per evitare di infastidire chi aspettava il treno. Se qualcuno si fosse lamentato mi avrebbero obbligato ad andarmene.
Per evocare il sonno mi voltai verso la grande finestra che dava sui binari, a guardare chi entrava e chi usciva dai vagoni stringendo valigie più o meno grandi. Il diretto per Parigi era appena arrivato e spiai dal vetro i viaggiatori scendere e camminare in fila, parzialmente nascosti dal vapore.
Fuori pioveva e faceva freddo, sperai passasse Peppe. Chissà quali altri posti frequentava, a volte spariva per giorni, ma con lui la notte era meno fredda. Spesso arrivava con qualcosa da bere e portava sempre vino buono. Con la sigaretta in bocca era un artista, capace di disegnare intere figure: gli altri si sforzavano per fare anelli, lui era capace di creare una farfalla, un ombrello o un aspirapolvere. Giuro che una volta gli ho visto creare davanti ai miei occhi una piccola locomotiva, con tanto di sbuffi di fumo.
Un bambino pianse da qualche parte. Borbottai qualcosa, stringendomi nel cappotto. Tra qualche ora mi avrebbero cacciato ed era meglio dormire un po’. Mi sistemai meglio sulla panca e chiusi gli occhi, abbandonandomi al sadico inconscio che mi ricordava quale fosse la mia vita quando avevo ancora un tetto sulla testa e un letto in cui dormire.
2. L’abbandonato
Ero nella sala d’attesa, come tutti i mercoledì. Preparavo la valigia come se dovessi partire e sceglievo abiti adatti per intraprendere un lungo viaggio. Arrivavo nel tardo pomeriggio, quando la stazione non era troppo affollata ma c’era ancora gente. Mi sedevo un po’ in disparte a osservare i viaggiatori. A volte me ne andavo senza concludere nulla, ma spesso bastava avere pazienza. Erano sempre i dettagli ad attirarmi. Un bracciale colorato, un orecchino, più raramente uno sguardo. Quel giorno mi avevano incuriosito dei capelli rossi vaporosi e un cappello appariscente. Spiai e notai la lunga gonna chiara, che lasciava scoperte le caviglie. Controllai che l’orologio fosse nascosto nel taschino della camicia: avevo intenzione di attaccar bottone chiedendo l’ora.
Un bambino piangeva nel momento in cui entrò nella sala una donna incinta. Era giovane e aveva i capelli legati in piccole treccine, come andava di moda tra i forestieri. Non me ne curai più di tanto. Iniziò a parlare ad alta voce proprio mentre mi stavo avvicinando alla rossa che avevo puntato. Tutti si voltarono verso di lei, compresa la mia potenziale preda. Mi allontanai, sedendomi distante: aveva rovinato i miei piani. Parlava con una sorta di strana cantilena, raccontava di lei e di altre donne. Provai a distrarmi ma quel suono era ipnotico, una forza invisibile mi obbligava ad ascoltare. Non capivo bene tutte le parole, avevo l’impressione che alcune fossero di lingue diverse e la mia mente si riempiva di immagini. Di mie immagini, della mia vita. Del motivo per cui avevo bisogno di abbordare quelle donne di passaggio, rassicurato dal fatto che in poche ore se ne sarebbero andate e non le avrei viste mai più. Improvvisamente per la prima volta sentivo l’esigenza di far conoscere la mia storia, quella vera, senza le bugie che raccontavo per impressionare le belle signore in procinto di partire. Sapevo che quando la donna incinta avesse smesso di parlare, sarebbe toccato a me.
3. Il ladro
Le mani sudate giocavano tra loro, visto che avevano poco altro da fare. Controllavo il grande orologio sopra la porta d’ingresso ogni cinque minuti e lo ritrovavo sempre fermo alle nove. Mi ero seduto vicino a un senzatetto addormentato, sperando che la puzza e la cattiva compagnia dissuadessero gli altri nella sala d’attesa ad avvicinarsi.
Tra le gambe stringevo la valigia. Mi costringevo a pensarci il meno possibile per evitare di guardarla in continuazione e attirare occhi indiscreti, ma mantenevo il contatto con la gamba, dovevo toccarla sempre per assicurarmi che ci fosse ancora. Era piena di soldi e pensavo veramente che me la sarei spassata a Napoli con tutta quella grana. L’importante era cambiare aria.
La notevole quantità di bigliettoni mi rendeva parecchio felice, ma ero soprattutto fiero di come me li ero procurati. Ci sono tanti motivi per cui la gente prova a fregare il prossimo: indigenza, disperazione, ingordigia, fame. Io lo facevo per dimostrare a me stesso che ero migliore degli altri. Studiavo e mi allenavo duramente per avere mente e fisico preparati a ogni evenienza. Ero dipendente dall’eccitazione e dalla vertigine provocate dal rischio. Cercavo le situazioni più pericolose per sentire l’adrenalina che ampliava i miei sensi e il cuore pomparmi sangue nelle vene rendendomi più forte, rapido e intelligente. È come per gli sportivi o gli attori, provavo sensazioni simili alle loro. Anche il più esperto teatrante prima di entrare in scena avverte la stessa emozione di quando colgo un’opportunità. Con la differenza che chi andava a vedere il grande clown Pagliacci rideva e si sarebbe ricordato di lui per qualche giorno. Chi incontrava me non mi avrebbe dimenticato per tutta la vita, nonostante la mia faccia anonima e le mille identità.
Controllai i volti annoiati nella sala d’attesa: inconsciamente volevo assicurarmi che “il pollo” appena truffato non fosse tra loro. In realtà era impossibile: in quel momento era dall’altra parte della città a scoprire la fregatura. Nessuna delle chiavi apriva la porta dell’appartamento che gli avevo venduto.
Un moccioso iniziò a frignare, facendo rimbombare i suoi singhiozzi nella sala d’attesa. Una ragazza incinta entrò nella stazione e si mise a raccontare la sua storia e quella di altre donne. Era sola e aveva un’espressione cupa. Tutti si voltarono verso di lei e resistetti alla tentazione di farmi qualche portafogli, per una volta pensavo fosse meglio starsene tranquilli. Quando la donna finì di blaterare, si alzò un uomo ben vestito e continuò. Raccontò della sua patetica vita e dell’abbandono così sofferto che da quel giorno cercava solo donne in procinto di partire. Poveraccio, mi chiesi quanto poteva essere folle per raccontare i propri affari a perfetti sconosciuti.
Qualche parola iniziò a colpirmi e prestai sempre più attenzione a ciò che diceva. Più che un racconto sembrava una cantilena. Non capivo bene tutte le parole, avevo l’impressione che alcune fossero di lingue diverse ma la mia mente si riempiva di immagini. Di mie immagini, della mia vita. Del motivo per cui avevo deciso che nessuno dovesse darmi una fregatura. Sentii l’esigenza di raccontare la mia storia. Sapevo che avrebbe significato confessare ma ero consapevole di non poterne fare a meno. Spinsi con le gambe la valigia sotto al sedile, l’avrei recuperata in un secondo momento, speravo che la vicinanza col barbone la rendesse sicura. Per la prima volta nella mia vita ero obbligato a fare qualcosa contro la mia volontà: dopo l’abbandonato sarebbe stato il mio turno.
4. La conquistatrice
La sala era densa di odori pungenti e di un’umanità variegata. Temevo che il mio profumo non arrivasse alle narici più lontane. Non era certo il posto adatto a una signora ma ne avevo frequentati di peggiori. Con l’unghia laccata scrostavo via la vernice del sedile, rovinata dal tempo e dall’incuria. Cercavo di tenere gli occhi sul pavimento, evitando di guardare le persone che aspettavano la partenza del loro treno. Fissai l’orologio fermo e pensai che lì dentro ci stava bene, era come se il tempo scorresse in maniera diversa. D’altronde non mi interessavo affatto degli orari dei treni, non dovevo viaggiare. Sceglievo posti simili per provare nuovi accessori, in quel caso un cappello che a mio parere valorizzava i miei capelli ricci. Se nessuno si fosse avvicinato per conoscermi, significava che non provocava l’effetto che volevo e lo avrei riportato al negozio con una scusa. Mi era stato chiaro da subito che i clienti pagano soprattutto per una favola e i dettagli sono fondamentali. Percepiscono il valore economico di un amplesso non dalla bravura di chi glielo procura, ma da quanto l’amante riesca a fingersi qualcos’altro. Molti tra i miei clienti più frequenti si vergognavano di andare a puttane e avevano bisogno di pensare che io fossi una nobildonna. Io li assecondavo, avevo capito che i soldi sul comodino li lasciavano lo stesso, anzi spesso per ottime recite trovavo laute mance. A volte pensavo di cambiar vita ma odiavo l’idea di sposare un fesso qualsiasi solo per farmi mantenere, come avevano fatto mia madre e le mie compagne di scuola. Quando le incontravo abbassavano lo sguardo fingendo di non conoscermi, si vergognavano di quanto fossi differente da loro: io avevo più di varietà e la libertà di dire no a chi non era di mio gradimento. Guadagnavo bene, ma era un circolo vizioso: più trovavo clienti facoltosi più bisognava spendere per curare il corpo e acquistare abiti. Temevo il giorno in cui sarei stata troppo vecchia per lavorare ed ero rassegnata a vivere senza provare almeno una volta una passione vera.
Avevo notato un signore ben vestito che continuava a fissarmi e aspettavo il momento in cui si sarebbe fatto avanti: l’acquisto che indossavo sembrava efficace. Sentii il pianto di un bambino. Subito dopo entrò una figura che mi incuriosì tanto da dimenticarmi della conquista. Una donna incinta per me rappresentava sempre un’emozione contrastante. Facevo un lavoro ad alto rischio e tremavo all’idea di poter essere ingravidata per sbaglio da un mio cliente. Ma mi costringeva a fare i conti con la vita a cui avevo rinunciato per la mia libertà
Iniziò a raccontare la sua storia e quella di altre donne, in qualche modo mi sentii coinvolta da quella presenza invadente. Notai che era sola. Quando finì si alzò il tipo che mi stava guardando, raccontò della sua vita e mi commossi. Capii di aver trovato la persona giusta per me; cercava sempre donne diverse e io con ogni uomo cambiavo identità. Avrei guarito tutte le sue ferite e ci saremmo amati profondamente. Avrei nascosto il mio passato e saremmo stati felici. Attesi ad avvicinarmi perché un altro dopo di lui iniziò a confessare i propri segreti. Sembrava che tutti fossero impazziti. Controllavo con lo sguardo il mio futuro amante per non perderlo di vista, ma ascoltavo il matto che stava parlando. Doveva avere qualche rotella fuori posto perché rivelò di essere un ladro. Qualcuno iniziò a strattonarlo, un paio di ragazzotti lo presero a pugni, un vecchio corse a chiamare i carabinieri, ma lui continuava. Lentamente il racconto diventò una sorta di cantilena. Non capivo bene tutte le parole, avevo l’impressione che alcune fossero di lingue diverse ma la mia mente si riempiva di immagini. Di mie immagini, della mia vita. Del motivo per cui pensavo che la prostituzione fosse un modo per emanciparsi dagli uomini. Sentii l’esigenza di raccontare la mia storia. Stavo male, perché sapevo che anche se avessi perso il mio grande amore, dopo il malvivente sarebbe stato il mio turno.
5. Lo spazzino
Alla stazione c’era proprio un’aria strana, o forse non avevo alcuna voglia di lavorare e mi soffermavo su dettagli che di solito ignoravo. Nella sala d’attesa c’era confusione e con mio grande sconforto altrettanta sporcizia. Michele dormiva sdraiato sui sedili più appartati, mi stava simpatico e capivo che non avesse altro posto dove andare, ma attorno a lui lasciava sempre un alone di immondizia. L’orologio era rotto da tre giorni e ancora nessuno che l’avesse riparato.
Un bambino iniziò a piangere e sperai che smettesse subito. Mi spostai verso l’entrata per far spazio a una ragazza incinta con i capelli legati in treccine. La giovane iniziò a parlare e lo trovai un fatto strano, mi appoggiai alla scopa e ascoltai senza troppa attenzione le sue parole. Quando finì, un secondo tipo si alzò e prese il suo posto e poi un altro ancora. Sembravano tutti ammattiti, ognuno parlava dei fatti suoi. Mentre qualcuno picchiava quello che stava confessando di essere un delinquente, riconobbi dal profumo costoso una puttana con cui ero stato una volta, ma finse di non sapere chi fossi: pensai non stesse lì per lavoro, di solito tendeva ad essere molto gentile con i suoi vecchi clienti. Mi stupii quando anche lei si alzò e ammise davanti a tutti di fare la prostituta. Il ladro era scappato via e mentre parlava la vedevo piangere, ma senza interrompersi mai.
Ad un certo punto il racconto divenne una sorta di cantilena. Non capivo bene tutte le parole, avevo l’impressione che alcune fossero di lingue diverse ma la mia mente si riempiva di immagini. Di mie immagini, della mia vita. Ero sicuro che quando la prostituta avesse smesso, sarebbe stato il mio turno. Ma il bambino pianse di nuovo, spezzando quell’incantesimo. Non credo che le mie vicissitudini personali fossero così interessanti da sentire. Qualcuno aveva inseguito il malintenzionato e anche l’abbandonato e la puttana se ne erano andati, mano nella mano. La donna incinta, con quell’espressione triste che mi spaventava un po’, aveva deciso che era ora di prendere il treno. C’era un ultima fastidiosa faccenda da sbrigare. Battei il manico della scopa sulla schiena di Michele. Borbottò qualcosa, ma sapeva da solo che doveva sloggiare e aspettai che riprendesse conoscenza. L’unica persona a cui rivolgeva la parola era un certo Peppe, ma lo vedeva solo lui. Stava per andarsene quando lo chiamai. “Qualcuno ha lasciato quella valigia – gliela indicai nascosta sotto i sedili – prendila, magari trovi qualche indumento che ti sta”.
Immagine di Doctor Tale and Mister Shot
Bravo Marco!
Lascia con la voglia di ascoltare i discorsi di tutti i protagonisti.
Grazie Mattia!
In effetti ho giocato molto sul non detto per cercare di essere un po’ evocativo. Spero di esserci riuscito 🙂