Rientra a casa all’imbrunire con ore di straordinari alle spalle e l’accoglie l’eco di un letargo. Aria viziata, in cucina le posate della colazione da lavare, tapparelle abbassate a simulare una notte eterna e la tazza del water con la tavoletta ancora alzata. Enzo stringe il pugno e sente il freddo rassicurante delle chiavi ancorarlo alla sua condizione di proprietario eppure, mentre lo sguardo spazia tra le stanze, si sente un estraneo. È lei che dovrebbe sentirsi così. Lo pensa ma non ci crede come non crede alla possibilità di un suo sorriso di benvenuto quando apre la porta della camera da letto.
Accende la luce.
Lei emette un mugolio. Distesa, non si alza, non si muove. Enzo resta a guardarla con le mani nelle tasche del cappotto, tasta il pacchetto di sigarette, lo estrae e lo lancia sul letto assieme all’accendino; atterranno sul morbido di quella chiazza di petrolio profumato che sono i capelli di Marzia. Spera si svegli. Attende qualche attimo, poi esce e accosta la porta.
Attraversa il corridoio figurandosi al lavoro; raccoglie i panni da terra, dal divano e li ficca in lavatrice, si spoglia e, nudo come la sua Marzia, lava le stoviglie nel lavandino. Le suppellettili della cucina gli urtano i gomiti mentre strofina via lo sporco, la maniglia della cassettiera gli solletica i testicoli e lo scroto. Smette ai primi brividi di freddo. Torna in bagno, si infila l’accappatoio, se lo sfila scuotendo la testa, entra nella doccia. Il getto dell’acqua calda lo rilassa, Enzo lo lascia scorrere fregandosene del tempo.
Quando finisce indossa vestiti puliti; lei sta ancora dormendo incassata nel materasso, esente da colpe. Enzo si china sui capelli di Marzia e tira fuori una sigaretta dal pacchetto. L’argento vivo può ossidarsi e diventare fossile? Da quella prospettiva spera che lei si volti di scatto e lo agguanti, che lotti per lei, per loro. Scorge un capezzolo sbucare dal lenzuolo, gonfio e intirizzito. Scorge anche il flacone sul comodino con il tappo svitato. Cos’è stavolta? Iperico? Sonniferi? Distoglie lo sguardo e accende i termosifoni poco prima che il picchiettare della pioggia bussi alle serrande. Enzo rammenta i lampi, gli stessi del loro primo incontro.
Si erano ritrovati in un ristorante cinese per festeggiare Bruno. L’odore di cibo fritto, il fumo e il vociare continuo impregnavano i vestiti e le orecchie. L’atmosfera era tesa e più che condividere un compleanno, Enzo partecipava all’armistizio della sua comitiva, pronta ad arrendersi al peso delle responsabilità della vita adulta.
Notò Marzia sull’uscio con la notte a farle da sfondo. Il nuovo volto della comitiva era uscita a fumare… l’aveva superato l’enorme acquario all’ingresso? Enzo le confidò mesi dopo che non si ricordava di lei neanche durante il rituale della divisione degli involtini primavera o dei piluccamenti dai piatti altrui conditi di funghi e bamboo.
«Ti aspettavo fuori» fu la sua risposta da sguardo sagace.
«Non saresti stata meglio al calduccio del ristorante?»
«Le strade sono la mia tana» disse inginocchiandosi. Sviava con il sesso orale.
Quella sera, sullo zerbino pacchiano a ideogrammi dorati, Marzia aveva la spregiudicatezza della sconosciuta e dopo un ciao e qualche convenevole additò con la sigaretta accesa la porta incustodita del magazzino del ristorante. Sgattaiolarono dentro con la scusa della pioggia e della noia della festa. Enzo rimase a portata di via di fuga, pronto a negare tutto qualora fosse sopraggiunto un cuoco o un cameriere, Marzia invece si addentrava nel buio del magazzino con il cadenzare sicuro dei tacchi. Ne riemerse con un sorriso e due bottiglie di grappa alle prugne.
L’acqua cadeva, sbatteva e veniva assorbita dal marciapiede e loro potevano benissimo essere due sentinelle, intente a contare di quante lacrime disponesse il cielo. Poi arrivarono i lampi. E, come istantanee di fotografie, conferivano luce al magazzino e immortalavano la Marzia donna, con i jeans neri coperti da un pullover con il bavero d’organza che stentava a nasconderle le forme. A ogni lampo Enzo scopriva un colore: il marrone dello stivaletto, il cremisi delle labbra, il bianco di un capello sporadico sopravvissuto alla tinta, persino il vento gelido, che si insinuava a ondate, assumeva una tinta dolciastra quando le accarezzava il pullover con un che di primordiale.
«Di nuovo ciao» disse lei.
«Ciao di nuovo» ridacchiò Enzo.
«Sai, potrei parlarti di Bruno o potrei raccontarti una storia» lo fissò in attesa.
«Non saprei.. fai tu.»
E lei cominciò a raccontare di quando si era messa in testa che avrebbe imparato l’inglese dai sottotitoli di YouTube però odiava i trend dei gattini o delle lezioni fai da te e aveva deciso di puntare sull’ironia, sulla satira.
«Perché se rido le cose poi me le ricordo meglio.»
Mentre raccontava, l’autunno si sforzava di riportarli al presente con i suoi umori stagionali ma, quando i lampi diminuivano e il rumore della pioggia era un rimbrotto lontano, restava solo l’alcol d’importazione nelle bottiglie di vetro, l’odore rarefatto delle cucine e del sudore coperto dai vestiti. Restavano loro, al buio, con l’abbozzo di un “noi” che prendeva forma.
Enzo l’avrebbe compreso solo anni dopo: lì, sul momento, era stato assorbito dal vociare di lei e restò spiazzato dal cambio repentino di Marzia. «Lo hai mai visto un delfino arrapato?»
Enzo annuì, non aveva idea di cosa stesse parlando, voleva solo che continuasse a farlo.
«L’ho visto a Zoomarine. Doveva essere un bello stress per loro. Tutto quel pubblico seduto sugli spalti in attesa delle piroette, dei salti nei cerchi, dei balletti ritmati dagli istruttori. Vederli rilassati sul fondo piscina, a quanto pare, era noioso. Nello stesso periodo scleravo sulla mia tesi in medicina e mi ritrovai a cercare – neanche fossi nata coi raggi X – l’apparato digerente dei delfini. Forse proprio perché ero presa da cosa si svolgeva sotto il pelo dell’acqua che mi accorsi dell’erezione. C’era un delfino a cazzo duro e uno no. Erano entrambi maschi perché li avevano presentati con nomi da maschi dagli altoparlanti. E ora delfino eccitato – non mi ricordo i nomi – nuotava in direzione di delfino due.» Marzia buttò la cicca per terra e bevve a collo il liquore alle prugne «Con l’acqua domini perché ci voli dentro. Era lì il vero spettacolo. Uno stupro omosessuale. Li guardavo attraverso i vetri della piscina e mi sentivo stranamente complice nella mia neutralità. Delfino eccitato ghermiva dall’alto delfino due e, neanche fosse lui il chirurgo, centrava lo sfiatatoio dell’altro con il pene. PAF! Tappato proprio mentre vedevo uscire fuori piccole bollicine d’aria.» Aveva smesso di piovere ed era rimasto solo il suono della voce di Marzia. «C’erano scolaresche e magari timorate di Dio quella mattina allo Zoomarine, testimoni inconsapevoli di una sessione di sesso estremo.» Digitò sullo schermo del cellulare una pagina di Wikipedia senza far leggere bene neanche il titolo. «Gli scopava la testa. Ti viene quasi da giustificarli: “un buco è un buco”, da compatirli: “sono animali”. Che tipo di animali sono i delfini?»
«Stronzi?» ipotizzò Enzo.
Lei rise e si alzò dalla cassa di legno, pulendosi i pantaloni dalla polvere: «Capace, e sai perché?»
«No.»
«C’è crudeltà nell’intelligenza.» Concluse così come se Enzo, al posto di una bottiglia di alcol semipiena, stringesse in mano un biglietto che gli dava diritto a un solo spettacolo.
Rientrarono al ristorante distanziati di minuti, lui con il suo pollo in agrodolce oramai freddo, lei in attesa del dolce. E oltre ai nomi dei delfini non conoscevano i loro.
L’anonimato, almeno da parte di Marzia, perdurò durante tutto il secondo incontro. Bruno aveva messaggiato Enzo con una richiesta di aiuto smozzicata:
“Oh un casino! Bagno intasato passi?”
“Ciao Bruno.”
“Ok. Dammi un’ora.”
“Prenditela comoda”
Arrivò apposta in anticipo. Enzo voleva coglierlo in fallo. Non c’era niente d’intasato oltre la loro amicizia e quel messaggio era solo una scusa per vedersi. Suonò il campanello tre volte. Bruno gli aprì con il volto scocciato e il cellulare in mano: «Ciao. Ti stavo scrivendo un messaggio.»
«Ma ciao a te, faccia da funerale! Direi che ormai fai prima a dirmelo.»
«Spiritoso. Ok, ti stavo scrivendo “non venire più”.»
«E basta?»
Bruno scrollò le spalle: «C’avrei aggiunto un grazie.»
Enzo stava per chiedergli spiegazioni quando sentì una voce femminile provenire dal corridoio. «Oh… la tua nuova fiamma, vecchio mio?»
«Chi sei, il Grande Gatsby? No. È solo una passata a riprendersi alcune cose senza avvisarmi.»
«Cioè ti sei messo a convivere e manco mi dici niente?»
Bruno prese a sghignazzare e si fece di colpo serio. «Sei matto? Giusto perché sapevo che dovevi venire tu, sennò neanche rispondevo al citofono. È più complicato di così. Lei è complicata.»
«È sempre tutto complicato con te.»
«In realtà io sono quello che semplifica.»
Enzo abbassò lo sguardo sulle pantofole di Bruno «Allora alla prossima.»
«Ma che cazzo dici!? Ti pare che ti faccio andare via così? Ti offro almeno qualcosa.»
«Visto che è sabato, dovresti pagarmi gli straordinari.»
«Ci stavo pensando! Dai che lo so che ti diverti a fare ‘sti lavoretti.»
Venne fuori che era la lavatrice ad avere seri problemi e che la voce femminile apparteneva a Marzia.
Ad annunciarla arrivarono di nuovo i colori. Enzo si era sdraiato a terra poggiando portafogli e cellulare da parte. Sbucò per primo il giallo del calzino seguito dal rosa dell’altro piede nudo, che saliva alla caviglia, al polpaccio, alla coscia e non si sarebbe mai fermato se Enzo non avesse distolto lo sguardo gettandolo nell’oblò della lavatrice.
Marzia lo salutò e si offrì di preparargli un caffè. Era stupenda, stupenda la voce, la presenza, stupendo il modo in cui avrebbe svitato la moka e ammonticchiato il caffè dentro. Ed Enzo, con le braccia insozzate dallo spurgo, tra l’odore di fogna, desiderò essere dentro di lei, sentire nuovamente il calore della grappa alle prugne infuocargli il viso, il suo nome sussurrato all’orecchio.
«Mi chiamo Enzo» disse a voce un po’ troppo alta.
«Uh bene! Piacere» era la schiena di lei a parlare.
«Ci siamo già conosciuti» rumore dai fornelli della cucina. Il ciabattare di Bruno verso la terrazza. «La storia dei delfini.»
«Ah sì… sei tu. Conciato così non ti avevo riconosciuto. È una tuta da operaio quella?»
Ed Enzo parlò di suo padre e dei quarantuno anni passati in fabbrica. Di quanto gli avesse insegnato su brugole, impianti e tubature. Parlava di getto come se le pause fossero un peccato. Restava immerso nella lavatrice dandole le spalle e la sua voce rimbombava nel cestello come quella di un orco dentro una caverna.
Lei lo lasciò finire prima di adagiare la tazzina sul bidet. «È pulito.»
Bruno era impegnato al telefono in terrazza e lanciò un saluto distratto con la mano, Marzia si era vestita, lo aveva salutato chiedendogli se gli piaceva Schubert, Enzo capì Schulz e rispose che adorava le sue vignette. Lei rise, lo accompagnò alla porta e la lasciò accostata. Enzo discese le scale di corsa dal quinto al piano terra, salutò il portiere, uscì in strada e si sentì chiamare dall’alto da Bruno. Non capì nulla. Si tastò le tasche e sorrise. Ripercorse di corsa le scale e arrivò con il fiatone davanti all’interno 12C con la porta ancora accostata. Sperava gli avessero nascosto portafogli e cellulare per organizzare una caccia al tesoro assieme a lei. Aveva già deciso che Bruno era un’ombra sul loro cammino. Si scambiarono i numeri sull’uscio.
La memorizzò LEI perché si era scordato per la seconda volta di chiederle il nome.
Al terzo incontro diventò Marzia. Al quarto scovarono gli interessi comuni in una battaglia navale, dal quinto il sesso e il precario equilibrio tra voglia di scoprirsi e necessità di difendersi.
La storia salì di grado e le loro conversazioni continuavano dentro e fuori dalle lenzuola seguendo una linea comune ininterrotta. Marzia confidò che gracidava con le rane perché le ricordavano lo stagno della nonna in campagna, Enzo alzò la posta asserendo che lui parlava con le pensiline degli autobus nei giorni freddi e piovosi.
Spesso sudati perché Marzia incitava alla corsa e alla passione «Marzia dove la trovi tanta energia?»
«Marzia, Marzia, Marzia, facciamo sesso e ancora non mi hai trovato un nomignolo affettuoso»
«Uhmmm» Enzo si passò la mano sul mento con fare meditabondo. Schioccò le dita «Argento vivo.»
«Argento vivo? Davvero?»
«È perfetto.»
«Noo. È maschile.»
«Non fare l’offesa. Mica è colpa mia se si dice così» la trasse a sé e le posate finirono per terra «sei argento e splendi più dell’oro.»
Mangiavano anche a letto e al decimo appuntamento Marzia ammise che gli faceva schifo, poi prese a leccargli il torace e scese giù.
Dopo il decimo, smisero di contarli o così credette lui.
Si ritrovarono in macchina per un rituale ormai collaudato. Accostarono in un parcheggio. Era sera e le luci delle case si accendevano lungo tutta la via. Entrambi con le mani occupate da pacchetti regalo infiocchettati e l’aria calda della macchina intenta a spannare i vetri. Non che Enzo volesse vedere fuori, nel suo piccolo mondo c’erano cinque sedili, Marzia e il suo pacchetto.
«Prima io» disse lei senza aspettare una risposta e strappò via la carta come se ne andasse della sua vita. Il peluche del delfino aveva l’occhio fisso e una paresi del rostro degni delle bestie imbalsamate. Era l’unico a ridere. Lei lo guardava e sbatteva le palpebre senza capire.
Lo sguardo ebete del pesce rosso.
Enzo strinse il cambio. Ebbe paura. Paura che il tremito delle dita contratte sul peluche potesse propagarsi e infrangere la loro storia, si stava immaginando l’avvicendarsi delle azioni dei prossimi secondi con il peso di secoli a gravargli sul petto: lei, tremante con il viso intento a spegnere le lacrime sul nascere, avrebbe lasciato cadere il delfino per portarsi una mano agli occhi e scacciare via la tristezza, scusandosi con lui, inalando l’aria con forza e diventando paonazza.
Non andò così. Marzia si riprese il regalo di Enzo e lo scartò come se dovesse intervenire su un suo paziente. Lo scatto metallico mostrò la lama del coltellino con la quale lei forò il dorso del delfino creandogli un orifizio. L’ovatta al suo interno sgorgò fuori ed Enzo pensò allo sperma fuoriuscito da delfino due nella piscina di Zoomarine. Si vedeva là, al parco acquatico ad annegare con lui, soffocato da un cazzo senza dimensioni, forma o nome.
«Deve respirare» disse Marzia, giustificandosi. Enzo sbottonò il colletto della camicia e tirò giù il finestrino. L’odore della città si riversò nell’abitacolo.
«Allora, ti piace il regalo?» Aveva lasciato il coltellino svizzero con la lama rivolta verso di lui. Impigliati sulla punta i resti dell’intervento. Perché un coltellino? Avrebbe voluto chiederle, invece rispose sì.
La riaccompagnò a casa e fece lavare la macchina il giorno dopo. Mentre pagava alla cassa vide lo status Online di Marzia. Digitò un messaggio, poi lo cancellò. Scrisse invece a Bruno:
“Ciao Bruno, sono passato davanti una bancarella e mi è venuta in mente una cosa.”
“Una sciocchezza.”
Dovette attendere. Occupò il tempo andando a trovare clienti già soddisfatti, rifornendo il frigo, sincerandosi delle condizioni della madre.
Stava rosolando il soffritto con due uova in mano e, finalmente, il cellulare lo chiamò. Era Marzia.
“Ehi, tutto ok oggi?”
“Sì sì. Ho avuto parecchio da fare. Tu? Tutto bene?”
“Guarda ti sembrerò sfacciata ma non potrei venire a stare qualche giorno da te? Ci sono dei problemi a casa”
“Oh cacchio mi dispiace. Certo che puoi venire.”
“Sei un tesoro!!!”
Il soffritto passò da dorato a nerastro e il puzzo di bruciato appestò la cucina. Enzo non riusciva a smuovere la padella né a continuare il messaggio. Per quanti giorni? Che tipo di problemi? Perché il coltellino? In quell’istante ricevette la notifica di Bruno.
“Spara”
“Eh?”
“Spara la stronzata che ti è venuta in mente”
“Sì, giusto.”
“Non eri tu che da piccolo sei cresciuto nel Canton Ticino?”
“Sì perché? Vuoi comprarmi un orologio a cucù?”
Enzo si sedette. Marzia stava ancora scrivendo. Aprì la rubrica. Chiamò la responsabile marketing e si scusò per l’orario. Lei, al principio contrariata, ritrovò subito il sorriso. Enzo si stava proponendo per tutti gli straordinari del nuovo workshop nel periodo festivo.
Copertina di Gianmarco De Chiara