Iniziò tutto con un lieve sentore casuale.
La mattina in cui lo notai per la prima volta fu come una sveglia. Allungai una mano per toccare Sofia e trovai il letto freddo e vuoto. Non me ne preoccupai, mi arrivava lieve un insieme di sbuffi e sibili attutiti, che assimilai a una teiera sul fuoco. Sofia era solita far colazione con tè caldo e biscotti, anche in estate. La mia inglesina, la chiamavo. Abbracciai il cuscino e mi girai dall’altra parte, deciso a ignorare cosa stesse accadendo al piano di sotto. Poco dopo la stessa combinazione di sbuffi e sibili mi svegliò di nuovo. Che almeno si tratti di tè verde, pensai preoccupato per i livelli di teina già pericolosamente alti prima dell’ora di pranzo. A ripensarci ora, quello potrebbe essere stato il primo segnale di declino.
Scesi le scale e non trovai nessuno. Dopo una rapida esplorazione constatai che la casa era vuota. Un’angoscia indefinita iniziò a serpeggiarmi dentro. In cucina la teiera era al suo posto, pulita e in ordine. Che Sofia avesse già sistemato tutto? Quanto tempo era passato da quando avevo sentito il secondo sbuffo fino a quel momento? Che mi fossi riaddormentato senza rendermene conto?
Dal telefono fisso formulai il numero di Sofia e, mentre lo sentivo squillare, quello sbuffo sibilante si insinuò ancora nelle mie orecchie. Lo ignorai.
«Sofia, ciao, senti… ma dove sei, che è tutto questo casino? Ah, ok, prendile anche per me, mi è rimasto solo mezzo pacchetto. Senti, ma… stamattina quanto tè hai bevuto? Sì che me ne frega, te lo ha detto pure il dottore di ridurre un po’… dai rispondimi, su… Ah, nemmeno una tazza. E che è successo? Non ti starai convertendo al caffè… E perché lo hai preso fuori, ché il bar lo fa meglio di te? Devi pure star lì due ore ad aspettare l’infusione, che si freddi…». Avevo già perso interesse per la conversazione dopo aver capito che non poteva essere stata lei l’autrice di quei rumori.
Qui commisi il primo vero grande errore: assecondare la mia vena investigativa, invece di dar retta a quella mia abilità con cui riuscivo a fare orecchie da mercante a tutto ciò che non volevo sentire. Se avessi saputo che non sarebbe stato solo un gioco innocente avrei disinnescato la miccia, come facevo ogni volta che Sofia mi faceva richieste indesiderate. Riagganciai senza badare al resto della conversazione e cominciai a cercare l’origine di quei suoni: esclusi subito la camera da letto matrimoniale, dal momento che quando ero lì li sentivo lontani, e per lo stesso motivo giudicai poco probabile che fosse in una delle altre stanze al piano di sopra. Era una villetta bilivello, non certo una reggia. Dopo aver esplorato il bagno di sotto, con un attento sguardo agli scarichi di doccia e sanitari, riapprodai in cucina. Con i suoi multiformi elettrodomestici mi sembrava il luogo d’origine più probabile: li passai in rassegna uno per uno, dal frullatore alla macchinetta del caffè elettrica, passando per il frigorifero, il microonde, il Bimby e il tostapane. Nessuno di questi emetteva suoni simili a ciò che cercavo. Ero perplesso. Mi dedicai a una rapida ricognizione dello studio, in cui gli unici responsabili potevano essere stampante e pc. Li scagionai in poco tempo: mentre ero intento a verificare se il rumore potesse provenire dalla procedura di pulizia delle testine – tanto per rendere l’idea di dove mi ero già spinto – lo sentii di nuovo. Una breve serie di sbuffi culminanti in un sibilo finale. Non veniva da quella stanza, non mi sembrava provenire da nessuna delle stanze in realtà. Sembrava provenire da qualcosa di più interno, veniva da dentro. Accostai l’orecchio alla parete, ripetendo il gesto in più punti della casa, senza risultati. Quando Sofia rientrò mi trovò così, in mutande e ciabatte, con l’orecchio attaccato alla parete divisoria tra salone e cucina.
«Che stai facendo?»
«Ehm… niente, prendevo un po’ di fresco, oggi faranno quaranta gradi…» provai a improvvisare. Cosa stavo facendo? Una risposta vera non ce l’avevo nemmeno per me stesso, figuriamoci tirarne fuori una valida per lei.
Trascorsi giorni a tentare fugaci incursioni nella speranza di sorprendere il sibilo e scovarne a tradimento l’origine. Scattavo sull’attenti appena lo udivo, avevo i sensi sempre allerta, sia per carpire il suono sia per non destare sospetti in Sofia. Mi bastava guardarla di traverso per capire che non era con me.
Il secondo segnale di declino fu darmi malato a lavoro così da avere tutto il tempo a disposizione per trovarlo. E capire. O forse quello fu il terzo, perdonate le mie imprecisioni, ma già è tanto che mi sia rimasta intatta la facoltà di contare. Palmo a palmo, esplorai la casa. Iniziai appena la porta si chiuse dietro Sofia e terminai, se così si può dire, appena lei rinfilò la chiave nella serratura. Nove ore di minuziosa ricerca, in cui avevo coperto l’intera metratura, e sull’origine del sibilo non avevo fatto alcun progresso. Anzi, si era aggiunto un nuovo sospetto: che la fonte cambiasse in base ai miei spostamenti. Che mi sfuggisse, che si stesse nascondendo da me. Iniziava a sembrarmi logico, tutte le prede si nascondono quando si accorgono di essere cacciate. E lei, la mia preda, ormai lo aveva capito, lei sapeva. Sarebbe stata una dura caccia, ma non era ancora tempo di arrendersi. Ingaggiai la sfida e i giorni di malattia si accumularono. A Sofia continuai a mentire, bugia dopo bugia cominciai ad assumere un colorito grigio-verde, malaticcio, accusai realmente tutti quei sintomi dietro cui mi ero rifugiato all’inizio: debolezza, mancamenti, brividi, persino qualche linea di febbre. Malgrado gli sforzi di Sofia, mangiavo poco e dormivo ancora meno. La notte dovevo essere vigile, la notte era determinante. Il sibilo avrebbe potuto abbassare la guardia e farsi scoprire, avrei potuto stanarlo.
Sofia iniziò a preoccuparsi. Il medico venne a visitarmi a domicilio ma non trovò motivi che spiegassero il mio stato. Io non seppi come collaborare, mi limitai a fissarlo e assecondarlo, con le orecchie tese ai rumori. Guardai a lungo il suo stetoscopio, immaginai di allungare un braccio e strapparglielo da quel suo collo esile e bianco, ma persi l’attimo in cui era a portata di mano e non ebbi la forza per attaccare. Andarono nella stanza accanto e sentii il mormorio del dottore che consigliava a Sofia di tenermi d’occhio un paio di giorni, restando a casa dal lavoro se necessario, per monitorare il mio stato di salute. Ormai il mio orecchio coglieva anche il minimo fruscio, quelle parole mi risuonarono forti dentro: lei sarebbe rimasta, io avrei perso la libertà.
Passammo due giorni sul divano, davanti alla tv e alla sua infinita offerta. Tenevamo il volume basso, su mia richiesta, guai a perdermi qualche sibilo. A intervalli di due o tre ore riuscivo a distinguerli tra i dialoghi idioti sparati da quell’apparecchio disturbante, e mi sentivo morire all’idea di non poter scattare verso la fonte per esplorarla e seguirla.
Quella sera Sofia mi vide sgranare gli occhi e rimanere con lo sguardo fisso verso il punto nel muro che sibilava.
«Pietro, che succede? Ti senti male?» venne a sedersi al mio fianco.
Mi girai a guardarla, restando in silenzio. Cercai di addolcire lo sguardo, volli darle una possibilità, e mi persi per un attimo nei suoi occhi acquosi così familiari. Le accarezzai una guancia, mi passai tra le dita una ciocca di capelli morbidi, e anche senza affondarci il naso – come ero solito fare – potevo sentirne il profumo. Aspettai che avesse tutta la tranquillità per dirmelo, che si aprisse, che mi dicesse che anche lei li sentiva, che non ero solo, che finora non mi aveva detto nulla per non preoccuparmi ma a questo punto non aveva più senso, perché quello che contava davvero era che fossimo insieme in quella ricerca, in quella lotta disperata alla fonte, alla causa, alle origini dell’invasione che aveva preso la nostra casa e non la lasciava più andare, che non ero solo, che su di lei potevo contare, perché anche se non me lo aveva ancora detto era al mio fianco, lo era sempre stata, perché mi credeva, lo aveva sempre fatto, che non ero solo, eravamo in due, in due contro tutto, contro questa invasione, ma anche contro tutte le altre, contro il mondo, le sue convinzioni, i suoi mali, i suoi orrori, le disgrazie, le anomalie, che non ero solo, lei era lì, qui, dove volevo che fosse, non mi avrebbe lasciato mai, mai e poi mai, quelle mura potevamo superarle, quei rumori insieme li potevamo sconfiggere, potevamo uscire, lasciarci tutto alle spalle, mi avrebbe aiutato, sostenuto, giorno dopo giorno, un passo alla volta, che non ero solo.
Lei mi fissò. «Allora, Pietro, stai bene?»
Eccolo. Era tornato, lo sentii, il sibilo era dietro le mie spalle. Chiusi il pugno e lo sbattei fortissimo contro il muro, con una violenza che riuscì ad aprire una crepa. Mi guardai intorno alla ricerca di un qualsiasi arnese adatto ad allargarla e vidi i ferri del camino. Scattai per prendere quello più appuntito e lo scagliai uno, due, dieci volte contro la crepa, da cui caddero pezzi di intonaco, di calcestruzzo, di mattoni, pezzi di quella tana che lo teneva al caldo, protetto. Salii in piedi sul divano, scavai con le dita per allargarla ancora. Il ferro non bastava più e io volevo tirarlo fuori con le mie stesse dita, il bastardo. Vedevo il muro colorarsi di rosso a ogni mio nuovo attacco e iniziavo a sentirmi felice: lo stavo ferendo, stavo vincendo io. Non mi fermai finché non fui riuscito a creare un buco tanto grande da infilarmici dentro. Nemmeno le urla di Sofia mi fecero desistere: aveva avuto il suo momento, l’aveva sprecato e ora era tardi. Ora dovevo entrare e vedere. Perché ero solo.
Fuori da lì mi ci trascinarono a forza, tre, forse quattro uomini. Mi ci sentivo bene, in pace, mi calzava a pennello. Se c’ero io, non poteva esserci la mia preda, e in quel momento questo bastava a farmi sentire sollevato. Nei giorni buoni penso di essere stato sfortunato, in quelli meno buoni penso che Sofia avrebbe ancora potuto cambiare le nostre sorti se avesse avuto la pazienza di ascoltare. In quelli cattivi cerco anche qua, in questi muri, l’origine del sibilo, ma non sono l’unico a cercare: qua basta uno sguardo e Lorenzo mi prende per mano, ci muoviamo insieme lungo il muro bianco e con le mani rimaste libere misuriamo palmo a palmo tutto il perimetro. Lui mi dà coraggio, dice che prima o poi l’origine la troviamo. E se lo dice lui io mi sento tranquillo.
Copertina originale di Doctor Tale and Mister Shot