Il rito della multinazionale di Antonio Francesco Perozzi illustrazione di Gianmarco De Chiara 2020

Il rito della multinazionale

Che Bisazza sia il centro del mondo lo credono più o meno tutti, da queste parti. E qualcosa ti spinge a crederlo davvero, quando scavalchi l’altopiano e dalla cima vedi la fabbrica squadrata della Coca-Cola imbucata tra le colline, che stride con le curve del paesaggio. È imponente e perfettamente geometrica. Sul pendio accanto, Bisazza se la gode.
In effetti dev’essere un orgoglio, per un paese così, avere una fabbrica della Coca-Cola: saranno duemila abitanti a dire troppo. Mio zio la nomina tutte le volte che lo vedo, mi dice che si lavora bene là, che la fabbrica è una famiglia, e cose così. M’incuriosisco sempre. Gli chiedo di raccontarmi qualcosa. A lui si fanno gli occhi lucidi mentre mi parla del suo primo giorno e di come la fabbrica sia stata una grande opportunità per portare in alto il nome di Bisazza.
Così l’anno in cui scoccò il centenario dall’apertura andai anch’io. Mio zio non stava nella pelle: vedermi là, io che a Bisazza non vado mai, doveva essere per lui qualcosa di simile a quello che provò il sindaco quando tagliò il nastro dell’inaugurazione. A me semplicemente intrigava quella strana coincidenza della storia, che impiantava la multinazionale per eccellenza in un paesino come Bisazza. Perciò un po’ mi incazzai quando, arrivati nel piazzale esterno, Bisazza era scomparsa dietro gli stendardi bianchi e rossi, e io non potevo più divertirmi a far scontrare le case-edera del paese con la geometria pura della fabbrica. In poco tempo quello che avevo intorno si equilibrò tra il bianco del piazzale, il verde delle colline e l’azzurro finto e compatto del cielo. Scendemmo dalla Peugeot scassata di mio zio ed entrammo in fabbrica, dopo che una ragazza frettolosa e coi tacchi alti ci rivestì di cappellini e portachiavi a tema.
Avevano allestito bene, quelli dell’azienda, per loro doveva proprio essere l’evento del secolo. Impiegammo quasi un quarto d’ora per raggiungere la sala conferenze, tutto trascorso in settori della fabbrica adattati a corridoi da pile infinite di bottiglie cellofanate. Coca-Cola Coca-Cola Coca-Cola, dal basso in alto, in tutta la lunghezza, con ordine esatto al millimetro di etichette e plastiche lucide. Poi bancarelle con merchandising simpatico e sbarbati in uniforme che consigliavano questo e quello tacendo i prezzi: la tazza della Coca-cola, i quadernini della Coca-cola, i flipper della Coca-cola, un poster con una donna dalle tette enormi censurate dalla scritta Coca-Cola. Mio zio spese tipo sessanta euro in gadgettini e giocattoli a tema.

Lavori qua da trent’anni, che ci devi fare?
Sono belli irrigidì le sopracciglia. Poi camminò fino alla sala conferenze con la busta dietro la schiena e senza mai superarmi.
Alla fine comprai anch’io qualcosa. Un sottobicchiere originale degli anni ’50 con sopra una pin-up in bikini. Un signore con polo rossa e marchio bianco m’aveva tenuto lì non so quanto tempo a spiegarmi che “Coca-Cola” è la parola più diffusa al mondo dopo “ok” e che questo è il successo, cioè fare in modo che la gente ti conosca dappertutto e sappia perfettamente cosa significa una parola anche dopo duecento anni. E allora il sottobicchiere. Io l’ho comprato quasi automaticamente, anche se penso ancora adesso che quella cosa delle parole fosse una stronzata.
Il corridoio artificiale nel capannone si esauriva a un certo punto in una catasta di sestine di bottiglie che formavano un arco gigante. Io, mio zio e altre centinaia di incappellinati Coca-Cola, muniti di portachiavi e badge regolari, ci fermammo là sotto per qualche secondo.
Prego un portinaio in giacca e cravatta diede il la al primo della fila ed entrammo. Agli occhi di tutti si aprì un soffitto di quindici metri che ospitava file di sedie ordinate come tombe e uno schermo al plasma grosso mezza parete. Da punti sparsi ma numerosi del gruppo si sollevarono degli “oh” prolungati: erano gli operai che si commuovevano tenendo per mano i figli o sottobraccio le mogli.
Mio zio mi strattonò per indicarmi giganteschi silos grigi in fondo a un lato dello stanzone, oltre le enormi pile di bottiglie che riempivano anche quella stanza.
La sala sciroppi! quasi saltellava. Mi spiegò che dentro i silos c’è l’ingrediente segreto della Coca-Cola, che arriva in fabbrica già sintetizzato e viene sempre da parti diverse del mondo, lontane, tipo la Malesia o l’Australia, non ricordo bene. Nessuno degli operai sa cosa c’è dentro, nemmeno mio zio. Tutti si fermarono a guardare i silos come se li vedessero per la prima volta, e si accucciarono sui figli di sei anni per indicargli il funzionamento.
Ci sedemmo a casaccio sulle sedie-tombe. Mio zio voleva per forza stare in prima fila, ma tutti i posti davanti erano contrassegnati con foglietti bianchi con scritto “Riservato”. Riuscimmo comunque ad accaparrarci due postazioni in terza fila, anche se mio zio passò la prima mezz’ora a ricordarmi che eh, davanti si vede meglio, vuoi mettere?
Vedevamo benissimo anche da lì. Lo schermo era circondato da pannelli rossi e bianchi con scritto Coca-Cola ogni centimetro, e in mezzo, sopra lo schermo, una frase con lo stesso font del logo, che diceva “Cento anni per la nostra casa”. Sotto lo schermo, poi, era stato sistemato un palco di piattine spoglie e in legno chiaro, e all’angolo più vicino a me un pulpito con due microfoni, anche quello di legno. Sopra, una bottiglia di Coca-Cola da 33 centilitri, una specie di Madonnina.
Dopo un po’, una carovana di smoking impomatati e fazzoletti nei taschini venne a riempire le prime due file, farfugliando numeri e appellativi strambi in inglese. Il più grasso, ovviamente, scelse la sedia davanti a me, a mostrarmi in tutta la sua gloria la pappagorgia nucale grondante di sudore e i capelli spaiati e unticci sul vertice. Dal retro sentii qualcuno pettegolare che tra le autorità c’era anche non so chi del Grande Fratello: quando glielo chiesi, mio zio m’indicò un ragazzo sui trent’anni in prima fila, coi pettorali e i bicipiti pompati e stritolati dalla giacca, il brillante inchiodato a un orecchio e una lingua nera sul collo che faceva intuire un tatuaggio. Ma neanche mio zio sapeva che c’entrasse lì uno del Grande Fratello. In ogni caso, tolsi il cappelletto della Coca-Cola. Mi sentivo un idiota.
Quasi un’ora dopo, finalmente, qualcuno spense le luci e lo schermo gigante al centro della scena si azionò in un bagliore di pixel bianchi e rossi. Partì un video pseudo-commovente in Dolby Digital e 4K, che riprendeva Bisazza dall’alto e spezzettava le visioni aeree con interviste-lampo dei dipendenti: Coca-Cola è famiglia, Coca-Cola è casa, ecc. Come colonna sonora Halo di Beyoncé. Chiudeva la serie un vecchino decrepito che per pronunciare “Coca-Cola” sputava saliva dalla dentiera. Mio zio si sforzò per tenere la voce bassa e dirmi che quello era un operaio storico della fabbrica. Poi tornò al suo posto sfregandosi le mani e aggiustandosi il badge capovolto sul petto.
Alla fine del video si riaccesero le luci e salì sul palco un uomo sui quaranta, coi capelli brizzolati e a spazzola, una cravatta rossa con una riga bianca sul nodo (molto presumibilmente la scritta “Coca-Cola”) e una giacca nera glitterata che tra le luci della fabbrica e quelle dello schermo dava il meglio di sé. Attraversò il palco. Le scarpe tacchettate sottolinearono la frugalità del pavimento. Si fermò al centro, con la cartella da conduttore tra le dita e il microfono ad archetto che gli segava in due la guancia.
Carissimi e carissime, spalancò un braccio con gesto teatrale e il pubblico si animò tra “oh” sussurrati, – siamo qui oggi per celebrare i cent’anni dall’apertura della fabbrica Coca-Cola di Bisazza.
(Applauso)
Cento anni: quanto tempo! Un secolo intero: se lo ricordano i vostri nonni e i vostri bisnonni. E in questi cento anni la nostra fabbrica si è evoluta, si è trasformata insieme a noi.
(Applauso ancora più forte)
Ci ha seguiti passo passo per tutta la vita. E la vita è fatta di vittorie e sconfitte, di gioie e dolori, ma può dirsi vita solo se affrontata con l’amore per il progresso e la conquista di risultati. Questa fabbrica è diventata una famiglia!
(Applauso enorme. Impedii a mio zio di far partire una standing ovation a pochi secondi dall’inizio dell’evento tirandolo giù per la maglietta)
E noi oggi, questa famiglia, la vogliamo celebrare. Il mio compito sarà quello di far parlare chi ne ha permesso la costruzione il presentatore lanciò un segno verso la prima fila di sedie, che rispose facendo accennare tutte le teste e le permetterà di sopravvivere nei secoli dei secoli.
Un altro applauso infinito. Il presentatore s’inchinò quasi a terra come un servo del sultano e la sua giacca brillò fin quasi a cecarmi. Con un sorriso lungo fino alle orecchie, si spostò di lato
Chiamo subito qui accanto a me Gustav Candelssonn, il nostro Universal Manager!
Cercavo di individuare Candelssonn dietro la nuca ribollente del magnate seduto davanti a me, e mi dovetti spostare fino ad appoggiarmi col gomito sulla coscia di mio zio. Lui la interpretò come una forma di euforia.
Eh, hai ragione, hai ragione – sbiascicava – Candelssonn è Candelssonn – e mi tirava la maglietta – guarda quanto è bello.
Un ragazzo poco più grande di me si alzò da una sedia e salì sul palco. Anche lui lasciò sentire chiaramente che il pavimento era composto da piattine caricate col muletto. Poi sfilò accanto al presentatore in tutta la professionalità dei suoi capelli sollevati col gel, il Rolex al polso, il fisico di chi ha il tempo di andare in palestra. Il presentatore fece un inchino di riverenza e si eclissò in seconda fila col suo sorriso brillante.
Amieci e amieche gonfiai le guance di botto per non ridere siamo quiei oggie riunite per zelebrare queste garande traguardo. Mie scuso da suubito per mio brutto italiano applauso zercherò di jessere più chiaro possiebile.
Uno scroscio di mani sulle mani lo sommerse. Mio zio annuiva convinto. Provai a guardarmi intorno, ma sembrava che solo a me facesse ridere il suo accento svedese o finlandese. Vidi il concorrente del Grande Fratello fare fatica a chiudere le braccia sui fianchi quando doveva applaudire.
Io voluevo solo duire che ciò che più è importante per noi è la costruezione di una famuiglia. Non cuontano le vuendite altissime, non cuonta, come si dice, il fatturuato stellare che anche quest’uanno abbiamo ottenuto battendo tiutti. Io, come Universal Manager, uso suempre queste tre paruole: tradizione, innovazione, famuiglia.
Il pubblico andò in visibilio. Vedevo la sagoma dell’Universal Manager in alternanza con quella di una nuca grassa e bagnata che avrei voluto scoppiare con l’ago. Mio zio ogni tanto diceva “Giusto, giusto” e annuiva soddisfatto fissando Candelssonn. Quello infilò un discorso di venti minuti sull’importanza della motivazione e del supporto reciproco, che a sua detta non c’entravano niente con la produzione incredibile della Coca-Cola ma servivano solo a far crescere la “famuiglia”. A un certo punto persi il filo e provai a contare quante volte dicesse famuiglia. Poi persi anche il conto. Mi nascosi dietro la nuca umettosa e sfilai dalla tasca il sottobicchiere degli anni ‘50 per giocherellarci. Quando lo rivoltai per l’ennesima volta mi accorsi di un minuscolo bollino sul retro che diceva “Made in China. ©2012”.
Un’ora prima non avrei mai pensato che la voce del presentatore, per qualche motivo, avrebbe finito per piacermi. E invece quando sentii la voce di Candelssonn estinguersi in un applauso fragoroso e quella del presentatore riemergere, rimisi a posto il sottobicchiere e tornai a guardare verso il palco. Candelssonn scendeva annuendo e accennando con le mani ai primafilisti, il presentatore tornava a sbracciare in un profilo di glitter degno dei momenti più kitsch della Mediaset.
E adesso, miei amici il presentatore strinse gli occhi quasi commosso chiamo accanto a me Alessandro Contarini, General Supervisor della nostra famiglia.
Avrei voluto sotterrarmi. Tutti quelli intorno a me, invece, avevano il culo leggero sulla sedia. Il concorrente del GF applaudiva come un tacchino grasso e teneva la testa e la bocca deformemente protese in avanti. Sembrava trattenesse l’aria con le labbra e volesse staccare il collo dal corpo, per spingere lo sguardo devitalizzato il più possibile verso la scena.
Salì sul palco un tizio pelato in giacca e cravatta con occhiali spessi un pollice e le spalle inarcate in avanti. In mano teneva un papier di carta stampata a caratteri minuscoli. Si muoveva come un automa: filò liscio davanti al braccio steso del presentatore, risuonando sul legno del palchetto con passetti brevi e strascinati. Si piazzò dietro i microfoni del pulpito e la Coca-Cola-Madonnina.
Salve sputò mordendosi la parola tra i denti e cancellando la “e”. Rassettò i fogli battendoli sul legno e partì.
Mezz’ora di numeri. Iniziò elencando quelli della produzione dell’ultimo mese. Tutto alla grande, tutto perfetto, e chi la batte la Coca-Cola, la Pepsi? Ma non scherziamo. Coca-Cola è la parola più diffusa al mondo dopo “Ok”. Passò poi a quelli del mese precedente. Tutto grandissimo. A quelli del mese prima, poi quello prima, poi quello prima. La produzione, le assunzioni, i pensionamenti, le ore di lavoro, le esportazioni, le importazioni, le percentuali, gli zeri, i più e i meno. E ad ogni numero applauso oceanico e pacche sulle spalle dei dirigenti fra loro. A un certo punto Contarini abbandonò ogni lingua storica: procedeva per cifre e basta, senza alcuna sintassi, e tra l’una e l’altra giusto il tempo per un applauso tenuto a seconda dell’entità del risultato, che lui rispettava con diligenza robotica e sempre a intervalli regolari di secondi.
Subito dopo il rendiconto delle Coca-Cola Zero da 250ml vendute tra l’ultimo trimestre del 2015 e il primo del 2016 in Bosnia Erzegovina dissi a mio zio di voler prendere una boccata d’aria. Rispose dopo due secondi e mezzo dicendomi “Ok, ma dovresti smettere di fumare”. Dissi “Va bene” anche se non avevo mai fumato in vita mia.
Con una decina di “Permesso” e “Scusi” sussurrati forte riuscii a conquistare il corridoietto laterale accanto alle sedie. Mentre passavo una signora con le tette calate bisbigliò “Ma dove va?” all’orecchio di quello che sembrava il marito. Proseguii senza badarci e rifeci al contrario la strada dell’andata. Mi confortò non poco vedere qualche vecchio appisolato maculare la folla qua e là, con la bocca spalancata e un sibilo cavernoso che usciva dalla gola. Uno lo svegliò quando si accorse che li stavo guardando. Il vecchio scosse le spalle, chiuse la bocca e applaudì senza motivo.
La maggior parte della gente però stava attenta o faceva finta di esserlo. Un signore sui quaranta teneva le mani ferme al figlio o nipote e un Nintendo DS sulle cosce. Ogni tanto biascicava qualcosa dentro l’orecchio del ragazzino, che attizzava il mento e cercava di guardare oltre le teste. Una signora sui sessanta con le rughe solo intorno alla bocca e gli zigomi innaturalmente lisci annuiva fino a snodarsi il collo e tenendo le perle tra due dita.
Seguii il rettangolo giallo in fondo allo stanzone. Dopo cinquanta file di sedie arrivai all’ingresso dell’andata. Senza pensarci due volte misi un piede in corridoio.
No il portinaio di prima mi fermò con una mano sul petto.
Volevo prendere un po’ d’aria.
Non si può.
Esco e rientro.
Qua non si può uscire.
E dove, allora? – mi guardai intorno per cercare un’altra uscita. Ma ogni lato dello stanzone era nero e senza porte, e dalla parte opposta alla mia i silos di sciroppi s’intuivano nell’ombra come immobili sfingi cilindriche.
Mi staccai dalla mano del portinaio e tornai indietro. Cinquanta file di sedie, ritroso: ora vedevo tutte nuche in penombra, e i signori sonnolenti erano le nuche senza collo. “Permesso”, “Scusate” un’altra decina di volte ed ero di nuovo al mio posto.
Puzzi di fumo mio zio teneva un dito sotto il naso e gli occhi fissi davanti a sé.
Io vidi Contarini staccare finalmente l’ultima cifra e riassettare i fogli per l’ultima volta. Risvegliato di soprassalto, il presentatore fece uno scatto e si scollò dallo schermo sullo sfondo. Diede una pacca sulla spalla a Contarini mentre gli passava davanti. Con una frazione di secondo recuperò il suo sorriso migliore e lettere di “Coca-Cola” roteanti sull’LCD gli fecero da scenografia definitiva.
Ed ora, amici miei, sentiremo parlare il sindaco di Bisazza applauso ogni volta che pensiamo alla nostra fabbrica dobbiamo ricordare il paese che la ospita. Bisazza si è trasformata grazie all’arrivo della Coca-Cola e da paesino insignificante è passato ad essere centro nevralgico della più grande multinazionale della storia. Ma lascio che a parlare sia il sindaco: diamo il benvenuto a Elio de Angelis!
Un applauso molto più debole dei precedenti accompagnò l’ascesa sul palco di un uomo tozzo e appenninico. Elio de Angelis trascinò verso il pubblico la sua giacca marrone, che per un secondo oscurò quella paillettata dello spettatore. Piazzò dietro i microfoni un muso cagnesco col naso separato dalla bocca solo da una sottilissima linea di baffi, coi capelli costretti dalla gelatina a un formato anni ’50 e a un ciuffo vagamente presleyano.
Bongiorno un verso montanaro gli uscì dalla bocca. Guardava il pubblico senza alzare la testa e tremolava un po’ dietro ai fogli. Si addrizzò la fascia tricolore. – So’ molto contento che oggi state tutti qua, perché è molt’importante. Da quannu a Bisa’ ce shta ‘a Coca-cola, si shta molto molto mejo. Se lavora. Se vendono le bottije. Ce vengono da tutto il mondo, qua.
Una pausa senza applauso rivelò che de Angelis l’applauso se l’aspettava proprio là. Si schiarì la voce e chiuse subito.
Perciò andiamo avanti così con il lavoro che a Bisa’ fa molto bene. E ricordate: bevete sempre Coca-Cola! Alzò il pollice su una mano contorta che sembrava un tartufo e la stese verso gli incravattati di prima fila. Sul “Coca-Cola” partì, quella volta sì, un applauso scarta-pelle. Gli incravattati si agitarono in movenze gallinesche per il battimano. Mi girai verso mio zio per distrarmi dal movimento sussultorio della nuca idratata del dirigente. Mio zio lo interpretò ancora come un momento di euforia. Applaudii un po’ anch’io per farlo contento.
Rapidissimo il sindaco! Io vi ringrazio per essere stati qui – si eresse per l’ultima volta il presentatore mentre già parecchie sedie lasciavano stridii sul pavimento e in sottofondo era ripartita Halo ringrazio i dipendenti che ci sono ogni giorno e i dirigenti che ci saranno sempre. Adesso si terrà un rinfresco, qui fuori, per celebrare i cento anni della nostra famiglia. Viva il progresso! Lunga vita a Bisazza! Lunga vita alla Coca-Cola! E fece il suo ultimo gesto teatrale quando la sala era quasi vuota e tutti già sentivano le tartine Philadelphia e salmone sotto i denti.
Uscimmo anche noi da una porta aperta improvvisamente nel buio, a ridosso della prima fila. La folla si sparpagliò subito verso stand disposti in maniera circolare lungo il perimetro del piazzaletto. In tempo record mio zio e mille altri avevano già il piatto di plastica rosso e bianco pieno di tramezzini e pizzette e una lattina per accompagnare. Passammo un’oretta così, in mezzo alla confusione, con il teatro di stand Coca-Cola che comprimeva gli schiamazzi e li spingeva tutti verso il centro del cerchio.
Alla fine ce ne andammo. Risalimmo sulla Peugeot.
Ti è piaciuto? mio zio chiuse la portiera mentre poggiava una busta piena di gingilli sul sedile posteriore. Aspettai un po’. Poi dissi di sì.
Poco fuori la fabbrica la confusione si era già dileguata. Rimaneva un cielo piatto sulle alture che sembrava attirarci come mosche. Dallo specchietto vedevo il palazzo bianco e rettangolare rimpicciolirsi sempre di più e alla prima salita mischiarsi col verde delle colline e le case di Bisazza poco lontane. Quando scavalcammo l’altopiano scomparve del tutto.

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

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Antonio Francesco Perozzi è nato nel 1994 e vive in provincia di Roma. È autore del romanzo Il suono della clorofilla e della silloge Essere e significare. Scrive di letteratura e cinema per Grado Zero e Culturificio, e suoi racconti e poesie sono apparsi in antologie e riviste.

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