La signora Storti anche questa notte ha dato di matto.
Dormivo e all’improvviso, pum-pum-pum, è iniziata la solfa. Non so cosa usi, forse un martello, ma va avanti per ore a picchiare per terra senza sosta.
“Non le farà male il braccio?” penso.
La risposta ce l’ho ed è semplice: quando è stanca, la sostituisce quel lazzarone di Vito, il figlio. Lui di notte può picchiare quanto vuole, tanto non lavora e al mattino si gira dall’altra parte, perciò pum-pum-pum.
La famiglia Storti abita sopra di noi al sesto piano.
Il padre è un alcolizzato in galera per furto, l’hanno pizzicato a scassare col piede di porco la serranda del laboratorio di articoli funerari per rubare il rame. Il maresciallo Gronchi, che ha il sesto senso per i delinquenti, già lo teneva d’occhio: sospettava che fosse stato lui a ripulire il cimitero un mese prima e gli è saltato addosso appena entrato nel magazzino.
Gesù, rubare ai morti!
Vito è un trentenne sfaticato, che non ha preso nemmeno il diploma di terza media e sua madre si è consumata il fegato di invidia perché il mio Luigino, invece, è sempre stato tanto studioso e giudizioso, mica come suo figlio.
Non ricordo neanche più quante volte Vito è stato sospeso a scuola per aver rotto qualcosa o picchiato un compagno. Un giorno ha deciso che sapeva abbastanza e poteva smettere di andarci; allora lo trovavo a bighellonare per le strade, o davanti al bar giù in piazza, la cicca in bocca, sempre in mezzo a quei perdigiorno con le facce da carcerati. Vito non si tiene stretto un lavoro che sia uno.
«E mandalo al mercato a scaricare le cassette di pomodori!», dicevo alla Storti.
Ma non ne voleva sapere allora, figuriamoci adesso. Crede che suo figlio sia sfortunato, anziché fannullone, e se lo tiene stretto in casa a martellare le mie orecchie.
Succede a qualsiasi ora, dipende da come gli gira. Stanotte erano le quattro, che siano maledetti!
Persino il lampadario si muoveva, avanti e indietro, da quanta energia mettevano nel picchiare.
Ho svegliato Antonio con una scrollata alla spalla.
«Che c’è?», ha bofonchiato con la bocca impastata di sonno.
«Gesù, non senti la Storti? Stavolta non puoi dirmi di no, è impossibile».
«Nossignore Cosima, non sento proprio niente. Lasciami riposare che la sveglia è alle sei».
Niente, lui non sente mai niente. Il dottore dice che non ha bisogno dell’apparecchio acustico, anzi gli hanno pure rinnovato la patente.
Non solo non sente la Storti battere sul pavimento, ma neppure mi crede quando mi lamento.
Ma che ne sa lui? Esce la mattina alle sette e rincasa che il sole è già calato da due ore buone, gli resta solo il tempo di sedersi a tavola. Dopo c’è il santo televisore da osannare: si accomoda sul divano e in dieci minuti dorme. Non sente e non vede, neppure parla, proprio come le tre scimmiette.
Che poi, io non le ho fatto proprio niente alla Storti.
Sono una che va dritta per la sua strada, non mi va di dare confidenza a quella gente lì. Sì, forse sarà capitato che le ho anche risposto male una volta o due, ma solo perché scrollava le briciole della sua tovaglia sui miei panni stesi.
Sono anni, comunque, che non le rivolgo la parola, anzi non parlo proprio con nessuno nel quartiere, gira brutta gente. Luigino mi ha fatto promettere che non apro la porta se non c’è Antonio in casa.
«Tanto meno alla Storti», ho aggiunto.
«Ma’, alla vicina non importa di te! Come te lo devo spiegare?»
La fa facile lui, non sa che lei si diverte a sparlare di me nel quartiere e dopo accadono cose che mi fanno vergognare!
Come una settimana fa, al supermercato dove va sempre anche lei a fare la spesa. Ero in fila ad aspettare il mio turno in cassa e mi sono accorta che la cassiera mi guardava, mentre parlava con una cliente, e rideva. C’erano altre persone in fila davanti e dietro, ma lei fissava proprio me. Guardava e rideva.
Quando è stato il mio turno, ho sbattuto la spesa sul nastro e le ho detto: «Cos’ha da ridere lei, perché mi guarda?»
Ha risposto che non mi guardava affatto.
«Sì, certo, non sono mica scema!»
Quella villana ha alzato la voce dicendo di farmi curare da uno bravo.
«Si faccia curare lei, che la matta che ride a vanvera non sono io!»
Chissà cosa le avrà raccontato la Storti, e non solo a lei. Infatti, il giorno dopo ero affacciata al balcone e dritto davanti alla mia finestra c’è l’ufficio dei dottori della mutua, che adesso si chiama ATS; vedo tutti i medici sulla porta, fuori dall’edificio, con indosso il camice bianco e rivolti verso il mio balcone.
“Che guardano?” e mi sporgo dalla ringhiera per vedere se la Storti è fuori sul balcone, ma la finestra è chiusa. Allora scruto sotto, magari il bimbo del quarto piano sta buttando giù le mollette come sempre. Nessuno. Continuavano a guardare verso di me e indicavano con il dito, che è maleducazione, e poi si parlavano nelle orecchie e ridevano.
Non voglio essere indicata col dito, mi vergogno. La gente poi guarda e si chiede “Chi è quella lì, cosa ha fatto” e ti parla alle spalle.
Luigino dice che sono esaurita, questa è la parola che usa. Ma non sono mica una pila.
Antonio invece mi ha rimproverata.
«Smettila con queste fissazioni, sono stufo di sentirti sempre piagnucolare!»
Come se il problema fossero le mie lacrime, non che mi seguono quando esco e sanno tutto di noi. Gliel’ho ripetuto un mucchio di volte: gli Storti sanno anche dove abita nostro figlio e vedrai se lo lasceranno in pace, nossignore! Quei due hanno i tentacoli come i polpi e arrivano dove vogliono.
«Non dire scemenze!»
Allora gli ho raccontato tutto.
Qualche giorno fa un tizio mi ha pedinato da sotto casa fino al mercato. Io sgambettavo bella spedita con la mia nipotina e lui dietro, non mi mollava. Andavo al banco del pesce, lui si fermava a quello della frutta, mi spostavo dal venditore di calze, lui mi raggiungeva, chiedeva il prezzo delle cinture con aria indifferente. Se rallentavo, rallentava, correvo e anche lui correva. Gesù! Mi sono messa paura e ho attraversato di colpo la strada, per poco non finiamo sotto un’automobile.
E due giorni dopo l’ho riconosciuto, proprio lo stesso uomo.
Stava sotto casa di Luigino, aspettava appoggiato alla macchina davanti al suo portone. Io l’ho notato dall’altro lato del marciapiede perché portava il giubbotto blu uguale a quello che indossava al mercato. Mi sono fatta piccola dietro ad una macchina e l’ho spiato bene. Parlava al telefonino e guardava in su, verso la casa di Luigino, allora ho aperto l’ombrello, anche se non pioveva più, per non farmi riconoscere; camminando svelta sono arrivata alla fermata del bus e sono salita sul primo che è arrivato. Mi tremavano le gambe e dovevo avere una faccia bianca di straccio ben lavato, tanto che un signore mi ha ceduto il suo posto.
Sono rimasta sul bus fino al capolinea, ma non sapevo nemmeno dove mi trovassi e non conoscevo la strada per tornare a casa. Allora ho chiamato Luigino e gli ho detto che loro sanno dove abita, conoscono sua moglie e la bambina. Gli ho spiegato bene che adesso seguono anche lui, perché vogliono mettermi paura e poi ridere di me.
Mi ha detto di aspettarlo al capolinea e mi ha riportata a casa. Era arrabbiato. Per tutta la strada ha urlato che devo andare dal medico a farmi vedere, che non va bene che sono così agitata e dico cose strampalate.
«Vedi che anche tuo figlio è d’accordo, che dici scemenze?», ha concluso Antonio.
Va bene, se non volete credermi, non dirò più niente allora.
A volte mi ricordo di quando ero solo la signora del quinto piano, una che andava al mercato e a comprare il pane, quella con il figlio bravo.
«Andiamo un po’ al mare, noi due e la bambina», ha detto mia nuora Elena, «ce ne stiamo in spiaggia, io dipingo e tu prendi il sole».
Me l’ha ripetuto anche oggi.
Non sono sicura che sia una buona idea. E se poi se la prendono con Antonio?
Fino ad oggi mi sono sempre occupata dei fatti miei e Antonio mio pensa solo a faticare. Non sono nemmeno maleducata, saluto sempre, buongiorno e buonasera, e non indico col dito. Eppure, mi hanno presa di mira lo stesso.
Forse mi considerano il loro passatempo, come un pupazzo con cui giocare, ma se invece volessero il mio appartamento? Se credessero che me ne andrò via, pur di farli smettere? Io questa soddisfazione non gliela do, al mare non ci vado affatto! Anzi ho deciso che non esco più.
Se vogliono me, devono venire a prendermi dentro casa.
Il coltello preferito di babbo mio, povera anima, è nel cassetto. Con quella lama lunga e affilata ci faceva dei tagli lisci, così puliti che erano una bellezza. Ho imparato da lui e Gesù, se so usarlo il coltello, io!
Copertina originale di miryel
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Simona Rampini nasce e vive a Milano. Ha sempre ascoltato e letto storie, poi ne ha raccontate molte e ora si è messa in testa di poterle anche scrivere. Ama i libri, la sincerità e le bugie a fin di bene, la montagna, i gatti, i cactus e il jazz, non necessariamente in questo ordine. Pratica la scuola di scrittura di Francesco Trento e bazzica l’arena di Minuti Contati.
Che bello! Brava, Simona!