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Quello che non successe

Racconto di Enrica Fei

L’erba secca del fienile continuava fino alla città. Almeno così sembrò ad Anna. 

Si era svegliata in un vecchio casolare e ora percorreva a fatica il campo che la separava dal centro abitato. Nei primi venti, trenta metri, le spighe morse dal sole erano le stesse, gialle e polverose. Poi cambiavano: fitte, sempre più alte, si incupivano in un verde scuro, quasi piombo. Il corpo mezzo nudo di Anna barcollava incerto. La sera prima ci avevano messo un’ora in macchina, adesso lei ce ne avrebbe messe tre, forse quattro. Le spighe mordaci le ferivano i piedi, le pungevano le caviglie; senza le mutandine, l’azzannavano tra le gambe. 

Erano state le formiche a svegliarla. Marciando a migliaia sopra il corpo nudo, erano entrate dentro di lei. Si erano infilate nelle fessure di sangue e pus, esplorandole le ferite. Le antenne storte e piegate a metà, i pungiglioni ricurvi, avevano costruito cunicoli stretti e profondi, cibandosi eccitate della carne viva. Il dolore dei morsi l’aveva svegliata. Aveva vomitato e, strisciando, era uscita dal fienile e arrivata al campo. Ora proseguiva alla cieca, tremando: Anna vedeva erba alta fino all’orizzonte. Si sarebbe nascosta nelle spighe per difendersi dal freddo ma non riusciva a sedersi: ogni movimento l’attraversava come una scure. Il sangue usciva dalla fronte, dal naso, dalla fitta pungente tra le gambe. Dalla breccia sopra il sopracciglio una goccia scese sopra l’occhio e Anna perse l’equilibrio. Cadde sopra la caviglia, e il dolore spaccò Anna come un tuono.

Un moscerino saltò tra un ciglio e l’altro quando Anna, riprendendo i sensi, strinse gli occhi; poi volò via, disinteressato. Era svenuta. Non riusciva a muoversi e rimase distesa su un fianco, spostando solo la testa. Sopra di lei, un cielo basso e plumbeo. 

– Allora andiamo in campagna? – aveva domandato entusiasta la sera prima. 

Bruno le aveva rivolto uno sguardo veloce e si era rivolto all’amico:

– Andrea, hai la macchina? 

– Ho inculato quella del vecchio, prendiamo la mia – aveva detto Daniele. 

Sarebbe bastato insistere e l’avrebbero accompagnata nel campo intorno alla città, si era detta Anna entrando nell’auto. Il viaggio era durato a lungo e Anna non vedeva l’ora di arrivare: non aveva mai visto la campagna. Forse riuscirò a vedere anche una fattoria, si era ripetuta mentre Daniele guidava, Andrea cambiava la musica alla radio e Bruno, accanto a lei sul sedile posteriore, le accarezzava le cosce. Anna li aveva conosciuti nell’ultimo anno, da quando aveva cambiato scuola. Erano più grandi e a volte facevano delle cose che lei non capiva. Erano carini però, e dicevano di conoscere la campagna.

Dal cielo pesante scese una goccia e Anna la sentì sulla guancia.

– Bambina mia – Anna pensò alle parole di suo papà. – Sei il mio diamante nel cielo − le aveva sempre detto, nelle sue fantasie, ma avrebbe potuto anche dirle – Sei la mia goccia di rugiada, che è un po’ come la pioggia ma più piccola e bella. 

Anna, nei suoi 13 anni di vita, era passata da un affido all’altro; quando era stata mandata da Gemma, ormai cinque anni prima, aveva cominciato a immaginare il suo papà, il suo papà vero, che lei non aveva mai conosciuto e che aveva deciso fosse un fattore. Anna non aveva mai visto la vegetazione della campagna, né i suoi animali, i suoi rumori, la sua lingua. Li aveva visti solo in televisione e incontrati nei pochi libri che aveva letto, quelli per bambini, pieni di immagini con le vignette. Le piaceva disegnare il suo papà immaginario, con le mucche, gli asini, le coccinelle: tutti abitanti di una fattoria fantastica, dove ci si svegliava con i pavoni, suo papà fattore coltivava fragole e ciliegie, si raccoglieva cioccolata nell’orto e si giocava con i procioni. 

Anna si immaginò di salutare Gemma prima di prendere il pullman, lasciare la città e tornare dal suo papà fattore. L’avrebbe chiamata “mamma” per non farle male, e lei l’avrebbe salutata con un palloncino rosa in mano, facendola vergognare. Le avrebbe detto che tornava dal suo papà ma che poteva venire a trovarla, se voleva. Lei l’avrebbe abbracciata come aveva sempre fatto: stringendola senza avvolgerla, come se Anna fosse quadrata, incapace di portarla al cuore. 

Poi si spense. Gli occhi rivolti al cielo, il sangue tra le gambe come un’aureola bassa. Non vide mai una fattoria, ma quel pezzo di campagna la accolse nelle zolle. Prendendo la forma del suo corpo, la terra le fece spazio e l’abbracciò. L’erba alta raccolse le sue fantasie e il vento le sollevò in aria, poi di nuovo a terra, e di nuovo su, in alto. Le formiche ne avrebbero staccato pezzetti per nutrire la regina. Le api ne avrebbero raccolti altri, impollinandoci i fiori. I bruchi si sarebbero contesi le parti più belle. Le coccinelle, il papà fattore. Il vento ogni tanto sarebbe intervenuto a mitigare i litigi, e avrebbe portato più in là tutto quello che non successe ma che rimase, nella campagna, per sempre.

Foto di Sandeep Handa da Pixabay

Enrica Fei  è nata a Firenze, ha vissuto e lavorato nel Medio Oriente, a Londra, e ora è a Berlino. È arabista e traduttrice e a breve difenderà la sua tesi di dottorato in Relazioni Internazionali su Iraq, Iran e identità sciita. Suoi traduzioni, racconti, articoli e recensioni sono apparsi su varie riviste, tra cui Arabpop, L’Inquieto, Lo Spazio Letterario, Altri Animali, Quarta Corda, Marvin, Minima & Moralia, Yanez, In Fuga dalla Bocciofila. Il suo racconto Il giorno 0 (apparso su Quarta Corda) è stato pubblicato in inglese su Another Chicago Magazine nella traduzione di Rachele Salvini. Ha scritto la prefazione del romanzo di Kurban Said Ali e Nino (Oscar Mondadori, 2024). Sta scrivendo il suo primo romanzo.

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