discalculia, disagio

Oggi interroghiamo

Vedete quel bambino seduto all’ultimo banco, fila centrale, col grembiule imbrattato di pennarelli? Quello ero io, un piccolo Giorgio di otto anni. Era un lunedì di una mattina inverale. Ricordo che in classe avevamo acceso la luce perché il sole era nascosto da grossi nuvoloni neri. Alla prima ora avevamo avuto la maestra Enza quella d’italiano, la dolce signora che mi permetteva di fare sempre un disegno in basso al tema. Ecco perché ero tutto sporco di colori. La campanella suonò e pensavo solo alla fine della terza ora, al quarto d’ora d’aria. L’indispensabile Ricreazione era vicina. Ma c’era un “però” di mezzo: La Seconda Ora. La campanella trillò l’ultima volta e già sentivo quella camminata severa, fatta di mocassini neri, rimbombare per il corridoio e avvicinarsi sempre di più alla porta della mia aula, la 3B. Avevo i brividi e le mani così sudate da non riuscire nemmeno a impugnare la penna per scrivere i compiti. La maniglia girò lentamente, la porta si dischiuse e alla vista di quell’ombra piccola e nera mi raggomitolai tentando di nascondermi dagli occhi aguzzi della maestra Loredana, la maestra di matematica, una mostruosa fusione di cattiveria e disciplina. Sempre vestita di nero, capelli a caschetto e secca come un frustino. Letto da lei anche l’appello diventava terrificante. Tremavo tutto e avevo paura di non riuscire a dire “presente”, come se non avessi avuto la bocca.
«Buongiorno bambini».
«Buongiorno maestra», risposero in coro tutti i compagni scattando dalle sedioline. Io ero stato l’unico a non darle il buongiorno, mossi solo le labbra. Non era affatto un buongiorno se avevo lei, ma quello lo era ancora meno, era il giorno di interrogazione a tappeto, la cosa peggiore dei miei otto anni. Ero convinto che la maestra Loredana sapesse in anticipo se eri o non eri preparato. Però non ti mandava subito a posto con un brutto voto, no. Lei provava una specie di piacere perverso a tenerti alla lavagna per un sacco di tempo, solo per bucarti con le sue tremende occhiatacce: più erano, più il tuo voto sarebbe stato basso e la sue urla spaventose. Mi ricordavano il verso del mio Godzilla giocattolo. Vivevo quell’ora aspettando, bambino dopo bambino, di essere giudicato e intanto fantasticavo lo scoppio di un incendio che mi avrebbe salvato.
«Oggi interrogherò a saltare», disse dal nulla, ricurva sul registro. Alle sue parole, sentii risalirmi per la gola il latte coi cereali perché oltre all’incendio avevo pensato che la maestra non sarebbe arrivata alla fine dell’appello e mi sarei salvato. Ero uno degli ultimi, tra Marco Restivo e Paolo Trapani. Cominciai a sudare talmente tanto per l’agitazione che chiunque mi avesse visto avrebbe pensato che quella era l’ora di ginnastica.
Ho sempre avuto problemi con i numeri e odio ammettere di non saper fare i conti perché mi fa sentire un cretino ritardato. Persino il panettiere dal quale compravo la merenda sapeva fare somme e sottrazioni, e in seconda avevo già capito che non era un signore molto intelligente. Tutte le volte dimenticava cosa avevo preso nel tempo di mettermi la pagnotta di pane nella busta, girare il bancone e sedersi di nuovo alla cassa e io ero sempre costretto a ripetergli cosa volevo, un panino col sesamo, prima che lui mi dicesse quanto dovevo pagare. Ho sempre provato una certa pena per me stesso, costretto a dipendere da una calcolatrice. Guardare monete e banconote di un resto, sul palmo della mano, come fossero schegge di un universo parallelo, osservare i numeri alla lavagna e sentirli minacciosi come un mafioso in completo gessato. Solo molto tempo dopo, all’età di ventitré anni, ho scoperto di essere discalculico, grazie a un test che mi sottopose una mia amica logopedista, così per gioco. Per me fu un sollievo. Capii che era una condizione permanente e che non ci potevo fare nulla. Quindi non ero un bambino stupido, solamente ero e sono fatto così. Sono discalculico, cioè mi manca la logica che sta alla base dei processi matematici, per tutti elementari, per esempio la relazione tra numero e quantità, le tabelline o il contare alla rovescia. Quindi, il risultato era che io da bambino m’impegnavo un sacco, ma prendevo brutti voti in matematica e mi sentivo confuso. «Perché, se studio così tanto, vado così male? Che cosa ho che va?». I miei genitori pensavano che io non studiassi e mi davano la colpa (una primaria spinta verso le mie crisi d’autostima, ma questa è un’altra storia). I miei compagni, invece, mi prendevano in giro perché facevo i conti con le mani e, quando le dita non mi bastavano più, tiravo fuori i pennarelli e li usavo per fare i calcoli, aggiungendoli o togliendoli alle dita. Quei miei amati colori con cui giocavo a fare l’artista, usati per fare una cosa brutta come la matematica. A pensarci mi sento ancora male. Ricordo tutte le volte che ho fatto fatica a legare un numero a una situazione quotidiana. Alla fine ho rinunciato a tutti quei giochi dove è necessario fare conti come la Scopa, da ragazzino il biliardo o da piccolo le carte dei Pokemon, zeppe di numerini: la forza d’attacco, l’abilità, la vita, da sottrarre o sommare per battere l’avversario. Le odiavo. Quindi potete immaginare quanta paura provassi per quell’imminente interrogazione a tappeto della maestra Loredana. «Allora bambini, oggi interroghiamo…». In quel momento, a soli otto anni, ho pensato di avere un infarto, o forse lo desideravo e basta. Il mio cuoricino di cucciolo d’uomo mi batteva in petto come un martello pneumatico. «Interroghiamo Gio…». Mi sentii tremare le budella dalla paura. «Giovanni». Di colpo sentii la pancia spaccatasi come un uovo che si rompe a terra, ma poi, una sensazione di leggerezza come una ruota che si sgonfia piano. «Vieni alla lavagna». Non so se quello che successe pochi istanti dopo era dovuto al mio improvviso rilassamento muscolare o al terrore di sentire quelle tre lettere così vicine al mio nome. Alzai la mano di scatto e dissi: «Maestra, posso andare in bagno?». «Giorgio, hai disturbato il tuo compagno. Ti sembra giusto?», scossi la testolina sgranando gli occhi. «Comunque, vai in bagno ma torna presto». Schizzai dalla sedia e svelto raggiunsi la porta della classe, girai la maniglia e richiusi la porta in una frazione di nanosecondo e poi la mia faccia si fece di marmo, divenni pallido e mi cacai addosso. Con passo da cowboy, dopo una dura cavalcata, trascinai me e quella gobba puzzolente per tutto il corridoio. Completamente stravolto e zoppicate, per la cacca che si faceva strada sulle mie coscette candide. Il corridoio mi sembrò interminabile. Finalmente raggiunsi il bagno e istintivamente osservai il mio polso destro per controllare l’ora, ma non portavo (e non porto) l’orologio, non so leggere le lancette a causa della mia discalculia. Allora perché non ne portavo uno digitale? Forse era meglio non sapere mai l’ora. Da bambino che cosa te ne frega di sapere che ore sono? Hai zero responsabilità e nessuna scadenza, sei fresco. Ci sono gli adulti a ricordarti di andare a letto, di svegliarti per andare a scuola e cose così. Temevo di essere fuori da troppo tempo. La maestra non mi aveva detto altro: «Torna presto». Ritardo o no, prima andava risolto quel problema. Mi fiondai al gabinetto e mi sigillai dentro, tenendo la fronte premuta contro la porta. Non c’era modo di chiudersi a chiave. Lo scorso Natale la protagonista della recita, Marta Nicosia, si era chiusa in bagno minacciando di non fare la sua comparsa in scena nel ruolo di Maria Vergine. Da allora avevano levato tutti i chiavistelli dalle porte dei bagni. “Ragioni di sicurezza”, diceva la circolare. Con la testa a fermare la porta, pensavo solo alla mia sfiga e al fatto che se mi fossi fatto la cacca addosso prima di Natale avrei potuto fare le mie operazioni con scioltezza. Vi risparmio la condizione delle mutande, dico solo che le biciclettine stampate sopra sembravano librarsi in un cielo ocra marrone. Appallottolai le mutande e le avvolsi in mezzo rotolo di carta igienica, le buttai nel water e tirai lo sciacquone. Dovevo disfarmi delle prove o tutti, sentendo la mia puzza di cacca, avrebbero riso di me. Mi ripulii velocemente con l’altro mezzo rotolo e tirai di nuovo lo sciacquone. Correndo con passo leggero, per non fare rumore tra i corridoi, mi avviai circospetto alla porta della mia classe. Feci un gran respiro ed entrai. «Giorgio Bernardo Scalici!». Quando la Loredana diceva tutto il tuo nome per intero erano cazzi amari. «Scusi maestra, non no sto molto bene…e…», le dissi spaventato. «Io invece, penso che tu te la sia fatta addosso dalla paura quando credevi che ti stessi per interrogare e sei scappato in bagno pensando di evitare l’interrogazione», disse agitandomi contro il suo indice appuntito. In quel momento mi accorsi che alla lavagna non c’era nessuno. «Non dici nulla?». «Davve…vero mi dispiace maestra. Sto male», dissi prevenendo la sua mossa successiva, ovvero dirmi di venire alla lavagna. Ma non servì a nulla. Toccava a me. «Vieni. Se hai studiato, saprai fare l’unica divisione in colonna rimasta. Quattro tuoi compagni ne hanno già fatta una ciascuno». Per un momento pensai di essere stato fuori un secolo, ma la verità era che erano divisioni semplicissime, e una si faceva normalmente in due, tre passaggi, nel giro di un minuto. Ovviamente questo valeva per i miei compagni, ma io mi ci spaccavo la testa con tutti quei riporti e «Ci sta col resto di» e «Scrivo tot e porto tot». Quei numeri per me erano incubi di gesso. Appoggiai il gessetto sull’ardesia nera e per provare a mantenere la calma dissi a me stesso: «Devi solo scrivere, magari sei fortunato e scrivi la cosa giusta». «Giorgio, vorresti spiegare ai tuoi compagni i passaggi che farai? Così ripassiamo tutti». Peggio di così non poteva andare, ero spacciato. Iniziò a piovere e il cielo fu rotto da un fulmine. «Avanti, dicci che bisogna fare». «E a-a-allora…», un tuono spezzò l’aria ed ebbi modo di fare un grosso respiro per tentare di non balbettare ancora, ma con scarsissimi risultati. «Allora, stavi dicendo?». Dal terrore che provavo per lei insieme alla mia insicurezza, dovuta alla mia allora sconosciuta discalculia, le balbettai: «Al-l-lora cin-cinquanta…Cinquantadue div…iso cinque». «Hai studiato, Giorgio?». «Sì. sì, m-m-m maestra, mam». Mi agitai ancora di più perché quel “ma”, per colpa della mia bocca stupida stava per trasformarsi in “mamma”. «Allora spiega come risolvi questa divisione». Ok, almeno non l’avevo chiamata mamma. E ringraziai il cielo. Alle elementari credevo ancora in Dio (mi serviva una speranza per dopo la scuola, come al vecchietto inginocchiato in chiesa la domenica). «Eee…Cin-cin». «Cincin! Auguri e figli maschi», disse un mio compagno tra i banchi camuffando la sua voce. «Silenzio! Chi è stato? Quello che ha parlato è il prossimo che viene alla lavagna». Non so perché, ma mi sentii sollevato, pensare che questo castigo toccava a tutti noi lo rendeva sì più grave, ma allo stesso tempo più sopportabile come se la paura fosse divisa per ventitré bambini. «Vai avanti, Giorgio. Cinquantadue diviso cinque e poi?». «Il il cin…que s-s-sta neeel cinque una voll-l-ta col…». Osservai i sorrisi, due denti sì e uno no, dei mie compagni, serpeggiare tra i banchi. Poi uno fece un grugnito, non riuscendo a trattenersi, a ruota sentii un gridolino e poi tutta la classe scoppiò a ridermi in faccia. Dicono che non c’è cosa più bella della risata dei bambini, ma in quel momento per me era la cosa più brutta al mondo. Per la gola mi risalii un’onda di lacrime, ma le buttai giù come quando stavo male e la mamma mi dava un cucchiaio di sciroppo giallo. Per gli occhi non ci potevo fare niente, li sentivo diventare sempre più umidi. «Smettetela di ridere! Non c’è niente da ridere», e poi continuò rivolgendosi a me: «Avanti Giorgino. Il cinque nel cinque ci sta una volta col resto di…», disse lasciando sospesa la frase invitandomi a completarla. «Col r-r-resto di di zero». Mi sentivo io uno zero. Uno stupido sfigato, che si era fatto la cacca addosso e ora stava alla lavagna in preda alla balbuzie sfrenata e con le lacrime che premevano fuori dagli occhi. Ma la cosa che mi fece stare peggio fu che la maestra mi aveva difeso dalle risate dei miei compagni e provai un’umiliazione mai provata prima al pensiero che facevo pena alla mia arcinemica. «E poi che si fa?», intervenne la maestra Loredana. Mille ostacoli si sommavano tra me e quella soluzione, ero spacciato. Provai a darle una risposta, ma dalla bocca mi uscii solo uno palloncino d’aria che voleva essere parole. All’improvviso la porta si aprì e la testa del signor Cutrò, il bidello, fece capolino: «Tutti fuori bambini! Qualcuno ha otturato i cessi e la scuola è allagata. Maestra, la direttrice ha già avvertito i genitori e dice di portarli tutti in cortile», urlò il bidello mentre la campanella suonava l’allarme. La maestra lo congedò con un cenno della mano e poi ordinò a tutti noi di uscire dall’aula in fila ordinata. «Posso uscire pure io maestra?», le chiesi sicuro del suo sì. «Certo dobbiamo uscire tutti. Non hai sentito?». «Allora non m’interroga più?». «No. Ora vi verranno a prendere i vostri genitori». Dentro di me esultai dalla gioia, ma durò un solo istante, «Rimandiamo a domani», mi disse poi, con odiosi occhi dolci. L’avevo fatta franca per l’interrogazione, ma le prove che avevo tentato di nascondere adesso erano venute a galla e m’immaginai le mie mutande con le biciclettine avanzare lentamente nel corridoio, trasportate da una corrente d’acqua di cacca, però almeno ero salvo e non m’importava altro per il momento.

Copertina e racconto originali di Giorgio B. Scalia

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Giorgio Benedetto Scalia nasce a Palermo il 16 ottobre 1991. Sin dall’adolescenza adora leggere e scrivere e da allora l’amore per le storie lo ha sempre accompagnato. Continua a non raccontare molto agli altri ma mette tutto su carta. Finito il liceo classico a Palermo, si è iscritto all’università di Roma3 in Scienze della Comunicazione e in contemporanea ha seguito il corso di Regia e Sceneggiatura all’Accademia Nazionale del Cinema di Bologna, dove tre anni fa si è diplomato. Dopo ha messo in pausa l’università andando a lavorare a Londra per sei mesi. A giugno di quest’anno si è diplomato alla Scuola Holden di Torino, dove di recente ha vinto un concorso per la scrittura di uno spettacolo teatrale su Fred Buscaglione, dal titolo Fred dal whiskey facile. Il 15 giugno ha ricevuto una menzione al concorso Premio InediTo con la sceneggiatura del suo cortometraggio GARAGE. Ha già pubblicato per la rivista Neutopia (Il trofeo), per Il Bestiario degli italiani, n°10 (Ho ucciso un turista) e su Lunario (Il sacrificio). A gennaio 2019 ha fondato la rivista Voce del Verbo, online su WordPress.

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