Segni neri sotto gli occhi, trucco che cola. Ci passo due dita per spazzarlo via ma faccio peggio. Mi avvicino allo specchio mentre lascio scorrere l’acqua dal rubinetto cigolante di questa specie di bagno. Con una passata di dito umido la situazione trucco migliora, anche se di poco. Fatico a mettere a fuoco la mia immagine nello specchio. Difficile dire se è colpa dell’alcol o se la mia mente si rifiuta, protettiva com’è.
Quando siamo arrivati al locale ci hanno accolti con uno shottino di amaro. Mai vista una cosa del genere: posso capire fosse stato di vodka, di rum o gin, ma l’amaro mi ha stupita. Non ho fatto una piega e ho mandato giù. Il locale era piccolo, con poca gente e tanto casino provocato da musica anni ’80 sparata senza ritegno. Lo scenario era a dir poco diverso da come ce l’aspettavamo: doveva essere la festa dell’anno e per il momento era un flop clamoroso. Presi i miei due accompagnatori sotto braccio e mi diressi fuori dal locale, giusto in tempo per sentire il telefono squillare. Mi allontanai da loro, guardai il display, e con esitazione mista a senso del dovere risposi al quarto squillo.
“Sì, siamo arrivati.” lo rassicurai “Tu che stai facendo?”
“Faccio una pausa dai libri. Mi scoppia la testa.”
“Ci credo, quante ore saranno che ti sei chiuso su diritto internazionale?”
“Ho perso il conto.” Rispose sbuffando. Mi chiesi se gli scocciasse la mia domanda o se fosse solo stanco. Qualsiasi fosse la risposta non vedevo l’ora di attaccare.
“C’è anche lui?”
Domanda del cazzo. Lo sapeva benissimo che c’era.
“Sì”
Silenzio. Mi guardai intorno: c’era più gente appoggiata alle macchine con un bicchiere di plastica in mano, per lo più mezzo vuoto, che dentro al locale. Fatevela una domanda, cari organizzatori del Best Summer Party 2016.
Ancora silenzio.
“Torno alle sudate carte.” Disse con un sospiro teatrale “Divertiti.”
Stammelo pure a dire.
“Ci sentiamo domani” risposi nel tentativo di tranquillizzarlo, senza crederci nemmeno un po’.
Infilai il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni e tornai dagli altri. Non mi fecero domande.
“Vi offro un giro di birra, per iniziare” propose Giorgio. Avrei voluto dirgli che eravamo già un pezzo avanti, visto l’amaro d’accoglienza, ma evitai. La divisa da ragazzina sempre pronta a inforcare gli occhiali e la penna blu e rossa da maestrina l’avevo lasciata a casa. Da qualche settimana non mi entrava più.
Mentre Giorgio ordinava tre Tennent’s mi appoggiai al muro del corridoio davanti al bancone e chiusi gli occhi. Mi sforzai di pensare a qualcosa di intelligente, senza successo. Tutta quella saggezza e buon senso che il mondo mi aveva cucito addosso per trent’anni sembrava si fosse dissolta.
“Hai sonno?” mi chiese Damiano.
Feci forza sulle spalle e mi staccai dal muro, riaprendo gli occhi. Notai un cambiamento di espressione sul suo viso che non seppi decifrare.
“No, figurati, sono solo le undici.”
“Magari stai accusando la stanchezza di ieri…”
Sorrisi. “In effetti quando rientrando ho incrociato sulle scale mio padre che si preparava per andare a lavoro, ho realizzato che era davvero tardi!”
“O presto.” disse lui restituendomi il sorriso. “Ma almeno è servito a qualcosa?”
“Chiacchiere. Elucubrazioni. C’entrano poco con la realtà” dissi, senza capire fino in fondo se le mie parole avessero un senso.
“E quale sarebbe la realtà?”
Damiano fu sfortunato, la risposta non arrivò mai. Giorgio era riuscito a farsi largo nell’ingresso del locale, unica parte affollata, e ci stava porgendo le birre.
“Che ne dite se scendiamo a dare un’occhiata?” propose. Lo seguimmo giù per le scale e la desolazione che ci si aprì davanti fu totale. Pista vuota, quattro tavolini, di cui solo uno popolato. Ci sedemmo e nell’arco di cinque minuti avevamo finito la birra e pronunciato sì e no venti parole.
“Qua una birra non basta” urlai cercando di sovrastare un pezzo al limite tra gli ’80 e i ’90, ma anche al limite della decenza.
“Andiamo a prendere qualcos’altro” propose Damiano “Giorgio, non farti fregare il tavolo”.
Giorgio rispose con un mezzo sorriso, che nel suo criptico linguaggio poteva voler dire tanto “figurati, qua c’è la morte civile” quanto “deve ancora nascere uno che mi frega il tavolo”. Beata ostentata sicurezza.
Precedetti Damiano in fila e questo mi diede il vantaggio di scegliere cosa bere. Vantaggio inutile perché prendemmo lo stesso rum e cola. Mentre il barista ci riempiva i bicchieri con smisurata lentezza, le dita di Damiano mi sfiorarono un fianco. I miei occhi non dissero niente ma la mia pelle, tutta intera, sussultò. Non sembrava essersi accorto di nulla. Quanto tempo era che non mi accadeva?
E’ l’alcol a non farmi mettere a fuoco. Adesso ne sono convinta, perché per centrare il cesso e fare pipì ci ho messo ben più di qualche minuto. Rivestendomi barcollo un po’. Fingo ancora di dare la colpa ai tacchi, l’alternativa mi disgusta. Eppure mi rallegra. La signorina Rottermeier ubriaca a una festa di merda, con quel sant’uomo che l’aspetta a casa.
“A casa sua” mi viene da dire ad alta voce. “Mica a casa mia, figuriamoci!” aggiungo alzando ancora di più il tono.
Ok, adesso il controllo lo sto perdendo davvero. Quanto ho bevuto? Il conto si ferma a uno shot, due birre e due drink. Sorrido pensando a cosa direbbe Damiano se sapesse che il suo amato rum e cola l’ho chiamato drink, manco fosse un cosmopolitan.
Apro la porta e affronto a testa alta la fila di ragazzine che aspettavano uscissi. Loro nemmeno mi guardano, forse si staranno chiedendo cosa ci fa una vecchia come me lì, o più probabilmente pensano ai cazzi loro. E’ il mio pubblico di prova per dimostrare che le gambe ancora reggono, la vista mi assiste e va tutto bene. Perché va tutto davvero bene. Dai Giulia, continua a ripetertelo, che magari ci credi.
“Tutto bene?” mi chiede Damiano appena li raggiungo senza ombra di preoccupazione. Nel frattempo si sono trasferiti al piano di sopra e attendono abbarbicati su degli sgabelli di legno. Il coefficiente di difficoltà aumenta, il test d’equilibrio è imminente.
“Perché non dovrebbe?” rispondi a una domanda con una domanda, regola numero uno del manuale della perfetta dissimulatrice.
Lui mi sorride e si tuffa di nuovo nel liquido scuro del bicchiere. E’ rimasto indietro.
“Che dite, usciamo?”
Salvata in extremis dalla proposta di Giorgio, grande sollievo. L’idea di scalare quel trespolo mi atterriva. Varcata la porta del locale mi investe una brezza umida e appiccicosa. Mi viene da assaporare l’aria aspettandomi di trovarla salmastra, manco fossimo in un posto di mare invece che sulla Prenestina. Retrogusto di smog, altro che sale.
Studiamo il circondario.
“Carina la tipa incartata tipo Ferrero Rocher, no?” butto là senza troppo sarcasmo ma con molta malizia.
Giorgio è imperturbabile, sta passando in rassegna il repertorio dei commenti marcati come “politicamente corretto, macho, disinteressato-a-quella-ma-non-alle-donne”. Guardandolo bene si possono scorgere impercettibili movimenti sulla sua fronte. Immagino siano le sinapsi che si connettono.
“Meglio l’amica sua, la Cleopatra del ventunesimo secolo” ribatte Damiano. Viva la spontaneità.
Mi piace provocarli, sono sempre stata più a mio agio con una compagnia maschile che con un branco di femmine. Penso sia perché mi divertono i commenti da maschiaccio. La mia insegnante delle medie direbbe di certo che è dovuto al mio bisogno di sedurre “in un complesso edipico mai risolto”. Cito a memoria.
Passiamo in rassegna tette e culi di mezza popolazione autoctona, mentre la fronte di Giorgio si imperla sempre di più, finché non decidiamo di avviarci alla macchina e mettere fine a questa serata semi-abortita.
“Che ne dite di un ultimo giro?” propone Giorgio per recuperare terreno.
Per me è davvero troppo, so che non lo reggerò.
“Ci sto!” rispondo con entusiasmo, contraddicendo ogni singola cellula del mio corpo.
Damiano mette su uno sguardo pensieroso, che dura un solo istante, poi annuisce con la testa e ci segue dentro.
“All’inizio dell’estate!” brinda Giorgio.
“Attenti che…” attacco io, ma mi arresto bruscamente, e mando giù. I bicchieri di plastica non dovrebbero toccarsi, quando si brinda, volevo dire. Cazzo, ma dove ce l’ho tatuato ‘sta specie di galateo? No perché se lo trovassi lo rimuoverei chirurgicamente senza pensarci due volte.
Il rollio dell’auto mi culla e mi fa venire la nausea. Indecisa tra l’addormentarmi e il vomitare chiedo a Giorgio di alzare la musica. Sta passando un pezzo che mi ricorda il liceo, i concerti a scuola, le ore in saletta, la collezione di pippe mentali che ci facevamo tutti a quell’età. Bel cambiamento, non c’è che dire.
Stiamo per scaricare Damiano e la cosa mi infastidisce. Poi mi infastidisce che mi infastidisca.
“Ci sentiamo domani?” gli dico raccogliendo le forze per apparire in forma smagliante.
“Non è meglio che domani te ne stai a casa?” mi chiede lui inarcando un sopracciglio. Gli invidio la lucidità.
“Domani è un altro giorno” ribatto sorridendo. Quanta teatralità.
“Via col vento? Ma lo sai che non l’ho mai visto?”
“Prima o poi qualcuno ti farà rimediare, vedrai!”
Gli lancio questa maledizione mascherata da augurio mentre mi accomodo sul sedile davanti. Giorgio aspetta paziente che chiuda la portiera. Mi trattengo dal lanciare un ultimo sguardo verso Damiano. Non voglio sapere dove abita, in quale portone entra, se trova subito la chiave giusta da inserire nella toppa.
Scivoliamo nelle strade di una Roma in agguato, con l’aria pesante e sonnolenta che entra dal finestrino. Chiuderei gli occhi per godermi il momento se solo non mi girasse tutto appena provo a farlo. Mi sento osservata, non capisco se sia colpa di Giorgio, dei passanti, dei lampioni accesi che sembrano puntare tutti sulla mia faccia o del sant’uomo che mi guarda da casa sua.
“Tutto dipende dal prossimo semaforo” mi dico “Se è verde cambio tutto, se è rosso resisto e continuo così.”
Giorgio scala la marcia e rallenta. Sento il telefono che mi vibra in tasca. Mi muovo per tirarlo fuori e l’auto sobbalza per una buca.
“Queste maledette strade di Roma” dice Giorgio, ma lo sento a fatica. Non ho resistito e ho infilato la testa nel finestrino per vomitare. Lui riparte, senza commentare. Il semaforo visto da dietro è nero, con un tocco di giallo, due colori che non avevo previsto.
Fotografia originale di Alessia “Stamp” Damiani
Sempre brava, Ileana! Complimenti!
Ho solo una perplessità sugli occhiali da “imboccare”. Me la spieghi? 🙂
Errore, brutto brutto!!! Modificato con “inforcare” 😉
Ah ecco! 😀
Brava, un bel racconto che in poche righe riesce a caratterizzare ottimamente la sua protagonista.
Viene voglia di sapere cosa farà domani…
Dici che ci vorrebbe un seguito? 😛
Se arriva, lo leggo sicuramente!
Anche se, in effetti, i racconti lasciano spesso questa sensazione e trovo sia una delle caratteristiche (positive) delle storie brevi…
Comunque, ribadisco, se arriva il seguito lo leggerò senz’altro!