“Conosci Janan?”
L’uomo scuote la testa impercettibilmente e mi passa oltre, spostandomi con un braccio penzolante.
Combatto con altri due passanti per farmi strada verso il vicolo vicino all’hotel Alter Athens, per sedermi sui primi gradini di una scalinata racchiusa tra i palazzi.
Mi fanno male i piedi come non mai, il che è tutto dire per uno che ha camminato dalla Siria alla Macedonia per poi finire in Grecia.
Alzo lo sguardo verso la fronda dell’albero alla mia sinistra, che solitario spacca la monotonia del cemento e delle tinte innaturali dei graffiti. Il colore malato del suo tronco non si riflette nel verde delle foglie, o forse sono io che non prendo sisa da troppo tempo.
Un ragazzo mi passa a fianco, scendendo le scale. Allungo il braccio per toccargli la gamba.
“Conosci Janan? È una ragazza della mia età. La sto cercando”.
Lui posa su di me degli stupendi occhi scuri. Ha la pelle olivastra e dei ricci neri che gli incoronano la testa. Increspa le labbra e prosegue per la sua strada, in silenzio.
“Parli greco?” Gli grido, restando seduto. “Arabo? Inglese?”
Il ragazzo si allontana per Zoodochou Pigis, mischiandosi a gente di ogni etnia. I suoi tratti esotici fagocitati da una marea di abiti logori in continuo movimento. Un’egregore di pendoli di popoli.
Si chiama Exarchia.
Novemila rifugiati impastati con clandestini, esuli e criminali, tutti incapsulati in un quartiere di 8 km². Un aggregato di turisti, senzatetto, malavitosi e disperati.
Nessuna polizia, nessun governo. Solo noi, con i nostri casini, che cerchiamo di tirare avanti.
Faccio leva sulle ginocchia per rimettermi in piedi. Devo trovare Janan prima che scenda la notte. Se ciò che mi ha detto Tasos è vero, dobbiamo essere fuori dal quartiere quanto prima.
Una musica dal ritmo forsennato s’insinua nelle mie orecchie con la grazia di un martello pneumatico. Mi volto verso il parco Strefi, una specie di parco di Hamah in miniatura, e vedo una massa di persone procedere dietro a una enorme radio, di quelle vintage anni ’80, che pompa un recente derivato di house a tutto volume.
Janan adora ballare.
M’infilo tra due turisti tedeschi intenti a fotografare ogni angolo di muro. Nel farlo urto contro uno dei loro zainetti di tela e la proprietaria caccia un urlo che spicca sopra la musica. Mi volto a guardarla, solo per un attimo, per assaporare lo sguardo di chi pensa d’essere stata aggredita da una tigre durante un safari. Adoro quello sguardo.
La calca è particolarmente solida. Essere alto un metro e quaranta mi aiuta solo fino a un certo punto. In realtà, prendo più calci che altro.
Se penso a tutti i portafogli che sbrodolano dalle tasche, mi viene una rabbia. Arrivo al muro che cinge il parco e cerco d’individuare lo stereo. La sua musica si è unita a quelle delle autoradio dei veicoli parcheggiati. Piccoli falò di festa in un giorno che muore. Mi volto a guardare i monti in lontananza; non manca molto al buio, devo trovare mia sorella.
Mi volto a destra e a sinistra: troppa gente per le strade. Da una parte si accende una fiamma e qualcosa vola in cielo per cadere in uno schianto. Il fuoco si propaga per pochi attimi prima di essere ingoiato dall’asfalto, a qualche metro da me.
Cazzo, qualcuno è già su di giri.
Raduno le energie per saltare sul cofano di un’utilitaria vicino al muro, passare sul tetto e saltare oltre la parete. Un ramo mi dà il benvenuto schiaffeggiandomi la faccia mentre ricado dall’altra parte. Barcollo e sbatto contro qualcuno che con un lamento mi spinge via, facendomi ruzzolare a terra.
“Che cazzo fai ragazzino?” Sbiascica il tipo.
È un nero senza capelli, così scuro da essere invisibile all’ombra dei cespugli. Le mani gli tremano mentre stringe una siringa. I suoi occhi sono ferite bianche nell’oscurità.
Mi alzo e mi allontano.
Il parco è semi vuoto in confronto alle strade qui intorno. Oltre gli alberi, nei sentieri lastricati, greggi di persone si muovono verso nord, dove il campo da basket farà da teatro per i festeggiamenti più grandi. Suoni elettronici e percussioni si confondono in una nenia ipnotica che precede la venuta della Luna.
Cerco di allungare il passo, chiedendo di tanto in tanto di Janan. So che in molti la conoscono. Nonostante sia più piccola di me di solo un anno, è già una donna. I suoi capelli scuri, così lisci da farli apparire immuni al mondo che li circonda, incorniciano uno sguardo di smeraldo che non aveva eguali ad Aleppo. Occhi che il Daesh avrebbe oscurato per sempre dietro un drappo nero se avesse potuto, tanto farebbero impazzire gli uomini.
Ho dovuto cominciare a difenderla dalle attenzione dei maschi ancor prima d’imparare il greco, ma qui le cose sono diverse. L’ordine nel quartiere era accettato da tutti. Puoi spacciare, puoi pitturare i palazzi, puoi persino, a volte, sfogarti contro un’auto o un cassonetto abbandonato, ma nessuno tocca i ragazzini. Quelli che non l’avevano capito ora non potevano più nuocere a nessuno.
“Ho visto Janan al campo da Basket” disse una ragazza curda dai capelli raccolti in un’esplosione di riccioli.
Mi ha parlato con quello strano accento arabo dei monti, dove mio padre ci avrebbe voluto portare quando ancora credeva nel mondo. Mentre sto per andare via, la vedo sedersi accanto a un bianco alto e secco come un palo, poggiato su una cassetta di legno capace di sostenerlo per miracolo.
Tra le sue mani, un aggeggio di ferro scuro, che solo dopo qualche attimo comprendo cosa sia.
“Quella la vendi?” Chiedo di getto, prima di pensarci bene.
Quello alza uno sguardo azzurro su di me, con occhi così grandi da sembrare spiritati. Sotto le orbite, la sua pelle chiara ha assunto un colore rossastro.
“Cos’hai detto?”
“Ho chiesto se la vendi”, ripeto. Faccio una fatica enorme per parlare, con un groppo bloccato in gola. Mi sforzo di respirare, per mandarlo giù. Istintivamente, faccio un timido passo indietro.
La faccia del tipo si taglia in un sorriso. Mi ricorda quello cucito nel pupazzo sul graffito, quello con il cartello con scritto “Welcome tu Athens” in fiamme.
“Quanto hai?” mi chiede, quasi per scherzo.
Mi frugo tra le tasche e tiro fuori banconote per 50 euro e quasi due grammi di sisa. Il tipo strabuzza gli occhi ancora di più, cosa che pensavo impossibile, prima di gettare uno sguardo alla ragazza curda.
Allunga la catena di ossa che forma il suo braccio verso le mie mani, che tiro indietro.
“Quanta roba è?”
“Almeno tre grammi, tutta quella che ho”.
Lui sembra pensarci, ma non seriamente. La ragazza gli dà un colpetto sulla spalla e gli dice qualcosa all’orecchio in greco, troppo veloce perché io capisca. Lui sembra infastidito, con un gesto l’allontana e poi si alza.
Sembra uno scheletro alto quanto un palazzo. Il debole sole morente viene oscurato dalla sua massa di capelli, regalandogli un’aureola e scurendo il suo viso come quello del tossico di prima, tra le foglie.
Con un solo movimento mi sottrae la droga e mi mette in mano l’attrezzo. È così inaspettatamente pesante che quasi cado indietro quando me lo lascia sul palmo. La ragazza lo abbraccia da dietro cingendogli la vita. Io cerco di vedere che espressione abbia, ma non ci riesco. Prendo atto dello scambio e corro via, verso il campetto.
Quando arrivo i preparativi per la serata sono a buon punto. Ragazzi dal fisico atletico si stanno esibendo in schiacciate a canestro, mentre altri li riprendono con il cellulare, alla ricerca del mito di Antetokounmpo; altri sono intenti ad allestire fuochi dentro grandi bidoni o ad allacciare i cavi rattoppati della console alle casse stereo sparse in giro.
Il sole sta inviando i suoi ultimi raggi prima di tornarsene tra le montagne e lasciarci sotto la luce delle stelle. L’atmosfera sa di fumo e chiasso. Se Tasos non mi avesse predetto ciò che sta per accadere, mi sarei unito a loro con la mia stagnola e la mia sisa, abbandonandomi al ballo sfrenato con Janan, Dafne, Marco e altri ancora.
I miei occhi guizzano tra i volti cercando di scorgere quello di mia sorella. La individuo un attimo prima che salga su una jeep marrone, di quelle in stile esercito americano, insieme con altri tipi. Faccio uno scatto per scendere ma un crampo improvviso mi blocca la gamba destra, facendomi ruzzolare già per la collinetta.
Il dolore mi attanaglia i muscoli. Sto imprecando quando un uomo si avvicina e mi aiuta a tirarmi su. Vedo che la mano mi trema mentre mi tasto l’articolazione. Il dolore sta passando rapidamente. Non mi faccio da ore.
“Fatto male, Tiam?” Mi viene chiesto.
Riconosco Rami, un tunisino con cui, solo qualche settimana fa, avevo alzato lo striscione con scritto “No Pasaran” sopra al negozio di telefonia.
“Tutto ok, grazie” Rispondo senza pensarci troppo. Lui alza la bottiglia di birra che tiene in mano, per offrirmene un sorso. Senza un vero motivo, la spingo via così forte da farla cadere in terra e rotolare giù.
“Cazzo, sta’ calmo bello. Che ti prende?”
Si china per raccogliere il panno che mi è scivolato durante la caduta. Ne vede il contenuto e mi rivolge un’espressione sbigottita.
“Cristo!”
“Non capisci” Cerco di spiegargli. “Dobbiamo andare via dal quartiere subito!”
“Ma di che parli?”
“Hai presente quel poliziotto che si fa di coca?” Gli chiedo mentre riprendo ciò che è mio, quasi strappandoglielo dalle mani.
“Quello che ti ha rilasciato un paio di volte?”
“Sì, sì, quello. Mi ha detto che questa è l’ultima notte di Exarchia”.
Rami, che è rimasto con le mani sui fianchi come imbambolato, fa ballare le labbra con un sonoro sbuffo.
“Stronzate”
“Non sono stronzate, cazzo!” Sbotto. “Mi ha detto che faranno un’irruzione come non l’hanno mai fatta prima, e non vengono da soli”.
“Ma sai quante ne ho sentite di queste cazzate?” Risponde mentre accenna una risata artefatta. “Non verranno mai qui a fare danni grossi. Faranno un po’ di casino, spaccheranno qualche testa a sud, oltre i negozietti, dove i turisti non vedono, e poi torneranno a casa con qualche povero stronzo da incarcerare”.
“Questa volta è diverso” Provo a dire, ma la gola mi si secca all’improvviso e l’ultima parola muore prima di raggiungere la lingua.
“Non hai capito che questo posto piace più a loro che a noi? Sai quanti stronzi che beccano a spacciare fuori da Exarchia, invece di sbatterli al fresco, li mandano qui? Più siamo brutti noi, più bella è Atene”.
“Non è così” Riesco a pronunciare, dopo una tosse violenta. “Ora vogliono cambiare. E’ cambiato il governo o una roba simile. Tasos mi ha detto che non vengono solo loro…”
Un boato mi spacca i timpani. Qualcuno ha trovato la quadra con i cavi e le casse hanno sparato note a un volume così alto da farle somigliare a un tuono.
Rami ed io ci copriamo le orecchie e stringiamo gli occhi. Il rumore dura un secondo, poi metto a fuoco la strada dove ho visto sparire la jeep con Janan.
Cazzo, Janan.
“Non ho tempo!” Grido, e corro già per la discesa.
Arrivo sulla strada per vedere in che direzione è andato il veicolo. Sulla via si sono già accesi i lampioni, almeno uno ogni tre.
Sono andati per la Alexanrsisas, diretti sicuramente verso la palestra poco distante. Exarchia è piccola e i posti da frequentare li conoscono tutti tranne i turisti. La palestra è dove puoi trovarne qualcuno disposto a spendere parecchio per una guida alle feste nella città dell’anarchia.
Alla fine c’è andata davvero, come mi aveva detto qualche ora prima.
“Anisa ha alzato trecento dollari con un americano l’altra sera”, diceva tutta trionfante mentre io imprecavo contro il container dove dormiamo, cercando il cellulare.
“A un dollaro a pompino ci avrà messo tutta la notte”, le avevo risposto.
“Sei un coglione, Tiam. Anisa è grassa, se andassi io potrei fare in una sera quanto tu fai in un mese”.
“Non dire stronzate, tu non sei una puttana”. L’avevo detto come una constatazione, mentre cercavo di sollevare il materasso dal pavimento.
Il tono della sua risposta mi colpì così forte da farmi perdere la presa.
“Fanculo Tiam! Meglio di essere uno spacciatore del cazzo strafatto!”
A quel punto la mia mano si mosse di sua volontà. Lo giuro. Mi resi conto di averla schiaffeggiata solo dopo aver sentito lo schiocco del palmo sulla sua guancia.
Lei alzò la testa e mi guardò con un odio che non le avevo mai visto rivolgere a me. Era l’odio che riservava a nostro padre quando le metteva le mani addosso. Era l’odio che avevo usato quando l’avevo colpito, il giorno che fuggimmo dal campo di Moira. Era lo stesso odio che sputava chi ci pestava con i manganelli tutti i giorni, di chi prendeva a calci i bambini addossati sulla recinzione in cerca di cibo. L’odio che ormai aveva sostituito la nostre anime e che ci aveva divorato dall’interno.
Si alzò in piedi. Da tempo è ormai più alta di me, anche se il suo corpo magro la fa apparire fragile.
“Cerchi il tuo fottuto telefono?” Mi urlò. “Tieni, prendi il mio!” e mi tirò il suo cellulare in testa.
Cominciai a prendere a calci tutto quello che avevo intorno, in un’isteria che a malapena ricordo. Lei se ne andò sbattendo la porta del container, che con un ‘gong’ si era riaperta.
Alla fine il mio cellulare l’avevo trovato, poco prima che mi chiamasse Tasos, per sussurrarmi il futuro.
Con il fiato corto sono nel retro della palestra. Una fila di auto è in coda davanti a gruppi di ragazze e ragazzi, intenti ad avvicinarsi ai finestrini per trattare di tutto, dalla droga all’alcol ai corpi.
Li guardo con disgusto. Yannis, il padrone del rifugio per immigrati che ci aveva accolto le prime settimane qui ad Exarchia, aveva sempre demonizzato questo posto. Certo, non sarebbe stato fiero nemmeno del mio mestiere, tanto meno della divorante voglia di fumarmi un chilo di sisa, ma farsi riempire i buchi da qualche merda europea per degli spiccioli era fuori questione.
Vedo Janan allontanarsi con due tizi verso un vicolo di fronte alla palestra. Comincio a correre come posso verso di loro, con i crampi che mi attanagliano le gambe.
Il sole è così basso che nella viuzza è già notte. Janan è con due ragazzi sui vent’anni. Uno di loro ha la camicia bianca che sporge da una giaccone, dal quale sta tirando fuori un portafoglio. Mia sorella è appoggiata al muro sudicio, con il maglione sceso oltre una spalla.
“Andate via”, dico semplicemente.
I tre si girano. Janan fa la faccia stupita, gli altri irritata. Prima ancora che rispondano, alzo il ferro con entrambe le mani. Il panno scivola via. Anche nell’ombra dei palazzi i tipi riconoscono la pistola.
Lasciando cadere il portafoglio, alzano le mani; poi si schiaffano spalle al muro e cominciano a scivolare nella mia direzione, per fuggire via. Gli punto l’arma finché non li vedo dileguarsi oltre la luce di un lampione.
“Che cazzo fai?” Chiede Janan inorridita.
Torno a guardarla abbassando la canna.
“Non devi farlo” La mia voce è un sibilo. Il groppo è tornato.
“Cosa?”
“Non devi farlo. Non farlo”. Ripeto.
Lei allarga le braccia per poi farle ricadere sui fianchi, in segno di rassegnazione.
“Non fare cosa, Tiam? Non fare i soldi? Non voler andare via di qua?”
“Non così”, riesco a dire. “Non in questo modo”.
“E come allora? Spacciando? Vendendo sisa in giro e fottendomi il cervello?” Lo dice puntandosi due dita alla tempia e mimando un suicidio.
Non fu quello a farmi tremare il labbro. La sua voce, così uguale a quella di nostra madre, si fa strada da qualche parte, oltre l’odio, oltre la sisa.
“Tirando avanti e basta? Fino al giorno dopo? E poi, Tiam? E poi?”.
Lei continua e tutti i muscoli del mio viso s’irrigidiscono. Non riesco a ricacciare indietro qualcosa che nemmeno sapevo di avere più. Le mie lacrime devono riflettere qualche luce lontana, perché lei le nota.
“Tiam?” Chiede, quasi timorosa di dire ancora il mio nome.
Si avvicina e mi abbraccia. Mi stringe nel suo corpo pelle ed ossa mentre affondo la testa sul seno . Il maglione profuma. Non ricordo l’odore di mia madre.
Non so quanto dura. Sicuramente troppo poco.
“Troie”.
La voce arriva da lontano.
“Froci. Pezzenti”.
La voce è più vicina adesso. L’abbraccio di Janan si stringe.
“Negri. Puttane. Ladri”.
Mi volto, forzando la presa di mia sorella. Il lampione fuori dal vicolo mostra le sagome di tre persone, forse quattro, che piano piano stanno entrando nella via.
Mi divincolo, cacciando Janan dietro di me e alzando la pistola.
“Fermi!” urlo.
Lo fanno; come congelati, poi uno di loro ride. Bisbigliano. Ridono anche gli altri. Una risata mai sentita prima.
“Prendiamo la puttana”.
Avanzano e premo il grilletto. Il click della scacciacani si spegne sotto i passi degli sconosciuti. Uno mi afferra la mano con tutta l’arma e mi scaraventa contro la parete.
Faccio per rialzarmi di scatto ma i crampi fermano il mio movimento proprio quando un pezzo di metallo viene a schiantarsi sulla mia testa.
Cado a terra, tutto ruota. Sento le grida di mia sorella mischiarsi alle sirene delle volanti nella via principale.
Boati di molotov e lacrimogeni mi giungono alle orecchie mentre vedo le ombre farsi strada nel vicolo e agguantare Janan, strapparle i vestiti, lacerarle la carne.
Grido, ma non sento la mia voce. Intorno a me solo oscurità e miseria. Solo oscurità e miseria, prima che giunga una nuova alba dorata.
Racconto di William Bersani
Copertina di Francesca Galli
Un pensiero su “Nessun posto al mondo”