Malinconia di disamore, Sara Gambolati

Malinconia di disamore

La moglie lo cercava la mattina presto con la pelle ancora calda di lenzuola o la notte, quando i ragazzi avevano già spento le abat jour e si sentiva solo qualche cane latrare e la catena che sbatacchiava in lontananza, ma quel giorno l’aveva raggiunto nel bagno dell’autogrill come una prostituta che volesse adescare un camionista. Fuori pioveva e dalle finestrelle rigate avevano visto un tir di maiali fare manovre titaniche per sfilarsi dal parcheggio.
Sembrava che le bestie avessero i musi tristi ma la donna non lo disse e, una volta ripreso il viaggio, tirò giù il finestrino quando superarono il veicolo che sferragliava instabile.
“Che fai?” le chiese allarmato il marito.
Ultimamente la trovava strana e tutte le attenzioni che gli dedicava – quelle lusinghe che non gli aveva mai fatto prima: che entrasse mentre faceva la doccia; che volesse guardarlo nudo quasi puntandogli contro la lampada – cominciavano a pesargli. Si sentiva come un fuco che presagisca la fregatura. Da tempo aveva abbandonato la fantasia di essere considerato un uomo oggetto e, anzi, avvertiva in tanta disinibizione una mancanza di sentimento. Provava nostalgia di quando la moglie era un’animatrice convinta dell’Azione Cattolica. L’ostinata ritrosia, la contrattazione di ogni avanzamento sul piano dell’intimità e i nomignoli tratti dal mondo vegetale per indicare le parti genitali, gli sembravano ora di uno struggente candore. Gli mancavano le mitologie sul peccato originale; l’andare a messa col foulard per coprire il segno dei baci; perfino il senso di colpa.
Si chiedeva se il cambiamento nella moglie potesse essere collegabile a un fattore biologico. Aveva assistito a tutto di lei, dallo spuntare del seno che doleva quando guardavano la televisione a pancia in giù, alle prime mestruazioni e all’espressione sgomenta che aveva uscendo dal bagno, alla sala parto con la sommità di un qualcosa di nero e oblungo che le spuntava fra le cosce.
Quella, fra tutte, era l’immagine che definiva meglio ciò che la moglie era per lui: un bozzolo svuotato da una crisalide ingorda. Dopo le gravidanze aveva avuto pena per lei.
Tale visione sacrificale gli derivava un po’ da sua madre, donna che avrebbe potuto benissimo, per abitudini, essere un uomo. “Mi manca solo il pene” soleva dire orgogliosa di non essersi mai fatta la tinta per capelli. Da vecchia se li spazzolava all’insù, spessi e irti come quelli dei contadini che sudano per tutto il giorno sotto il cappello di paglia. Non sopportava di essere chiamata mami, non era di quelle madri che allungano fazzolettini di carta o pronte a tirare fuori termometro e aspirina; sua madre non l’aveva mai protetto. Qualche volta l’aveva sognata estrarre un pene dalla sporta della spesa e metterlo a friggere in padella. Questo, insieme alla cosa nera e oblunga che gli sgusciava dall’ombelico mentre era nell’ufficio del direttore, era l’incubo più angoscioso della sua vita.
Quando la moglie, in camicia da notte, lo tirava fuori dal getto d’acqua e senza dargli il tempo di asciugarsi gli si inginocchiava di fronte sulle piastrelle del bagno, si sentiva sbalordito e privo di ogni energia. Sazio ma senza soddisfazione.
Cosa voleva da lui? Perché ora si affacciava con la pioggia in faccia per salutare una mandria di maiali? C’era veramente qualcosa in decadimento dentro di lei?
Le mise una mano sulla coscia.
“Smettila” le disse.
“Che ti prende?” gli rispose la moglie. Sembrava arrabbiata e anche quello avrebbe potuto essere sintomo di disamore: non tanto l’indifferenza quanto piuttosto lo stizzirsi per nulla da parte della stessa donna che poco prima aveva cercato di sedurlo.
Inizialmente il marito aveva pensato ci fosse un altro uomo. Aveva brucato nella borsa e nel cellulare come una capra che mangia tutto quello che gli viene a tiro. Aveva perfino sfogliato l’agenda per ricostruire la regolarità dei cicli mestruali, verificato su internet il dosaggio della pillola, fatto nei cassetti della biancheria quello che sua nonna chiamava rumegare: una verità intima poteva essere nascosta fra gli indumenti che non si possono mostrare; magari avvolto dentro qualcosa di proibito, o di nuovo. Aveva esposto tutto sul copriletto, c’era un body con un inserto di pizzo che gli sembrava un po’ troppo fitto, ma, oltre quello, i soliti reggiseno con le bretelle sfinite dalle lavatrici e le calze di due tipologie. La moglie aveva collant a uso gonna e collant imperfetti per il resto. Una volta l’aveva vista togliersi i pantaloni di pelle e rimanere in calze rotte, le maglie fermate dallo smalto per unghie, la pelle candida che usciva dalla trama nera come una specie di soffice pulsante. La dichiarata elusione degli standard estetici e la prova che la nudità e l’erotismo erano destinati in modo quasi sacrificale all’habitat coniugale, l’avevano fatto sentire sicuro.
Ma ora la moglie scacciò la sua mano dalla coscia inguainata nei pantaloni di pelle – forse proprio quelli – e, mentre il camion dei maiali rimaneva nello specchietto retrovisore: “Non si può giocare un po’ in questa famiglia” disse.
Per colpa del disamore non si riferiva mai a loro due come a una coppia. Il noi era da intendersi sempre in formato famiglia.
Forse uno psicologo avrebbe detto che l’apparente rinascita della sua sensualità era un tentativo di blandire il marito attraverso la sua fisiologia. Lo soddisfaceva con le mani per non trovarsi nella situazione di essere penetrata. La moglie dava per proteggersi.
“Vorresti avere il pene?” gli scappò.
Lei lo guardò inarcando le sopracciglia senza un briciolo di sano stupore – a tal punto lo disamava – e non disse niente, limitandosi a tirare su il finestrino.
“Ti mancano i ragazzi?” le chiese.
“No” rispose la moglie. Erano partiti per il campo scout appena un paio di giorni prima e tutti e quattro avevano preparato gli zaini assieme. I ragazzi erano stati insolitamente remissivi, consapevoli dell’ esperienza dei genitori in materia.
“A me mancano le notti in tenda e i falò” disse lui mettendo la freccia su ispirazione improvvisa. “Guarda” le fece passandole il telefono, una volta accostato “la foto del nostro primo campo assieme.”
Era la foto digitale di una vecchia polaroid sovraesposta, dove l’erba del prato sembrava ingiallita da un’estate torrida.
La moglie sorrise. “Ma vedi un po’” disse “il Pian delle Fugasse.”
“Ricordo tutto di quella settimana, i tornanti che scendevano alle Valli del Pasubio, le gavette con l’acqua gelida del torrente, i gufi, le lumache, ricordi le lumache negli scarponi?”
“La diarrea” rispose la moglie “alla fine usavi le foglie di rabarbaro.”
Lui rise. “Già” disse imbarazzato.
“Nella foto non ci sei” e la moglie brusca gli ripassò il telefono “stavi così male che i tuoi erano venuti a prenderti. Siete finiti a fare flebo al pronto soccorso di Rovereto.”
Il marito guardò incredulo il display cercandosi fra tutti i visi ingialliti. Ingrandì con le dita, avvicinò gli occhiali: quello vicino alla moglie sembrava proprio essere il Vecchiato che da grande aveva messo su una gastronomia carissima che cacciava nelle ceste regalo un sacco di paglia. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco se la moglie, per caso, gli stesse tenendo la mano.
Il camion dei maiali li superò gagliardo lasciando una scia di sentore urico che si insinuò dai finestrini.
Ripartirono in silenzio.
Il marito rifletteva sul disamore, su come avesse fatto suo padre a non disinnamorarsi di una donna come la madre. Non aveva mai perso una certa dolcezza, il padre, e il gusto per il vestire. Voler apparire decenti anche in pigiama, anche con la faccia arrostita dal barbecue, era un atto d’altruismo, l’impegno ostinato a non rendersi insopportabili. Improvvisamente le calze rotte lo pungolarono in modo atroce e anche il mascara che si fermava nell’angolo dell’occhio della moglie. Spesso la sera, dopo aver riordinato la cucina, si stropicciava gli occhi truccati con le mani ancora bagnate abbandonandosi a una colpevole bruttezza; nonostante il naso importante, da poco si era tagliata i capelli per costringerlo ad accarezzare una nuca spelacchiata. L’elenco avrebbe potuto proseguire: la moglie vestiva di viola, odiava la collana di perle che le aveva lasciato la suocera, si metteva dei foulard da vecchia signora, perfino i tacchi benché sapesse che a lui piaceva la sua gamba così com’era, senza prolungamenti, coi piedi quasi radiciformi; aveva sempre preferito guardare una camminata vigorosa sulla sabbia piuttosto che lo zampettio di una gheisha. Aveva sempre amato la scout selvatica che pisciava nei boschi dopo aver dormito in tenda, la donna in canottiera, la ragazzaccia che indossava le sue camice vecchie. Spogliare la moglie dei suoi vestiti era una delle cose più eccitanti che avesse mai fatto, l’androginia del busto di lei, le cosce magre nascoste nei Levi’s troppo larghi; cominciò a girargli la testa: della moglie gli piaceva esattamente quello che gli mancava della madre.
Ma a questo punto la donna gridò mettendosi le mani davanti alla bocca e lui fu veloce a sterzare per finire, scodando, nella corsia di emergenza.
“Dio mio” disse la moglie prendendogli il braccio.
Rimasero per un attimo così, di stucco, a guardare la strada davanti a loro invasa dai maiali.
“Il camion si è rovesciato” disse lui sporgendosi sul volante e guardando il veicolo coricato sul fianco. Le bestie in preda al panico dovevano essere riuscite a sfondare il portellone e adesso correvano a casaccio in tutte le direzioni. Ce ne erano diverse che erano rimaste intrappolate e una pendeva da qualcosa, tutta lunga come da un gancio del mattatoio; a terra c’era sangue; le altre bestie strillavano.
“Sembrano persone” disse la moglie ad occhi sbarrati.
In effetti quello che si sentiva era un unico, cacofonico, terrificante gemito umano.
La moglie fece per aprire la portiera ma lui la fermò. “Sei ammattita?” le disse “ti potrebbero aggredire.”
L’acutezza del dolore, associata a una rabbia cieca, spingeva le bestie una contro l’altra e contro il guard rail.
“Perché fanno così?” chiese la moglie con la voce che tremava. Alcuni stridii erano acuti come il pianto dei loro figli che li faceva affacciare alla finestra col cuore in gola. La moglie invece piangeva in chiave di basso; il suo pianto, così raro, era sempre stato inconsolabile e lo faceva sentire impotente.
Un maiale cominciò a caricare la portiera del passeggero. La moglie si mise a gridare. “Fallo smettere. Fallo smettere, ti prego.”
La testa piatta e rosa del maiale si spiaccicò sul finestrino, il suo grugno sembrò dilatarsi, poi schizzò via lasciando un’impronta umida.
La donna si piegò in avanti come per vomitare e disse: “Ci ha guardati. Ci guardava, hai visto?”
“Cosa poteva volere da noi?” balbettò il marito.
Gli sembrò di doverla abbracciare ma la donna ora pareva essersi calmata e osservava rapita quello che stava succedendo. L’agitazione le aveva fatto venire delle macchie rosse sul collo. Quelle macchie erano sempre state una nota di bellezza, per lui, un segnale in codice della sua geografia emotiva per gli altri indecifrabile.
Sentì di amarla e scese dall’auto mulinando il maglione.
“Sciò” gridava come se si trattasse delle galline di sua nonna. I maiali attorno alla macchina grugnivano e schiumavano ma gli fecero spontaneamente un cerchio intorno, molle come la mucillaggine che galleggia sulle onde, e l’uomo capì che quello era il centro del mondo. La moglie, dietro il parabrezza, fuori dai vettori degli sguardi dementi degli animali, era altrove. Il centro, dove stava lui, era denso, il tempo era fermo, l’equilibrio instabile. Così gli sembrò la vita: un tempo eterno che finiva sul più bello; il suo sarebbe stato inghiottito dai maiali. Non sembrava dispiacergli ma non era sicuro di esserselo chiesto, i pensieri erano ormai un grumo paralizzato dall’attesa. Vide mentalmente alcune cose: i piedi piccoli e lisci come panini della figlia minore mentre se li lavava nel bidet e il violino del grande buttato sul letto a rischio di spezzarsi il manico, la loro vecchia tenda canadese su una mensola del garage e la moglie nuda con una virgola perlacea a fianco all’ombelico. Ebbe la sensazione di baciargliela, il centro del mondo era così pieno d’amore: suo padre col pigiama abbottonato sul davanti e sua madre con i pantaloni con le pinces e la borsa di sua moglie che si abbatteva sulla testa di uno dei maiali come un macete.
Il maiale, intontito, fece due passi all’indietro caracollando. Il cerchio si allargò diffidente. La moglie lo trascinò dentro la macchina mentre lui, appena estratto dal centro del mondo, rimaneva inerme. Per chiudere la portiera del guidatore la donna gli passò sopra, piegata e quasi coricata affannosamente sopra. Fece scattare la sicura e poi rimase così, esausta, in un incastro mal riuscito. Ecco, adesso sarebbe bello fare l’amore, pensò il marito ebbro ma lei non ci pensò neppure e continuò a respirargli ansante sul petto.
Guardarono fuori i maiali che si allontanavano, solo uno strofinava ancora la testa sullo specchietto. Nessuno si mosse: ora era quello il nuovo centro del mondo; la felicità era essere contenuti dopo essere stati espulsi. L’uomo era in preda a un capogiro oceanico. Sentiva che tutto si stava riparando e che la rabbia che aveva nascosto e trasformato nel più buono dei sorrisi stesse scolando via. Ne avvertiva perfino il risucchio, lo svuotamento, quasi il collasso. Da steso poteva vedere il tettuccio della macchina col parabrezza bagnato e qualche parte di maiale che passava ancora radente la macchina: le orecchie, il posteriore, le code che si stavano ammansendo. Forse non erano brutti animali o laidi come si era sempre detto, erano semplicemente una porzione rosata e grugnente dell’essere, impastati della stessa sostanza dell’uomo.
Sentì grufolare e poi vide, oltre il cofano, la schiena della moglie che si era sciolta i capelli.
Si rizzò immediatamente. Gli animali se ne erano andati ciascuno per conto proprio convinti di poter pascolare in mezzo al cemento e in lontananza si sentivano le sirene dei vigili del fuoco senza che nessuno degli animali ci facesse caso.
La moglie, invece, camminava sul ciglio della strada coi vestiti che cominciavano a inzupparsi. Anche se dava la schiena alla macchina lui capì: tutto di lei stava piangendo: le spalle che sussultavano, la schiena curva, le natiche nei pantaloni vuoti come quelle di un vecchio. Uno dei maiali, un po’ più piccolo e roseo degli altri, si era messo a trotterellarle dietro, docile docile.
Il marito si affacciò per chiamarla e farla tornare indietro, al sicuro al centro del loro mondo, ma guardò ancora un attimo il maialino e i capelli tristi della moglie e non disse nulla. Si sedette al posto di guida e aspettò i soccorsi.

Foto originale di Sara Gambolati

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