L'Ustione di Nina

L’ustione di Nina

Il fazzoletto dev’esse bello tirato a nonna, vie’ qua che te lo sistemo io, le dice, avvicinandola in quel modo brusco e affettuoso che tra qualche anno Nina scoprirà di aver fatto suo, nei gesti e nelle parole.

Il sole basso taglia in due la stanza alla fine di un pomeriggio e la bambina non capisce come la nonna possa chiudere quel cerchio da ricamo con tanta precisione, con la stoffa tesa tesa che ci si potrebbe far saltare sopra una biglia. Ma lei non vuole imparare, non le interessa niente di tutta quella storia del ricamo, vuole solo una scusa per averla vicina e per fare scorta di quell’odore che tra pochi anni potrà solo sforzarsi di ricordare. Nina non imparerà mai a ricamare, né a lavorare a maglia, né a cucire ma in quei pomeriggi di sole questo non può ancora saperlo.

Ogni tanto si perde, il corpo rimane seduto accanto alla nonna e la testa se ne va, inventandosi una musica per accompagnare la polvere che danza nelle fessure di luce, senza appoggiarsi mai da nessuna parte. Il cerchio di legno si trasforma in corona e così può ballare anche lei, tra i puntini luminosi. Le piace cucirsi le dita, ha imparato che infilando l’ago sotto qualche strato di pelle, non esce il sangue. Le tornerà utile in futuro, per sfilare qualche scheggia lasciata andare troppo in fondo.

Quella cammina e arriva al cuore, vie’ qua che te la levo subito

Qualche volta si alza e va alla finestra, stando bene alla larga dal ferro da stiro bollente lasciato lì a freddare sul pavimento di marmo. Le era bastata quella volta, che per correre a salutare lo zio ci aveva lasciato attaccata la pelle del polpaccio. Il dolore era stato così intenso da divenire gelo, non era uscita voce dalla bocca spalancata ed era rimasta lì, paralizzata, ad aspettare che la nonna se ne accorgesse e arrivasse ad avvolgerla con un ci penso io. E così era stato: aveva tagliato veloce una patata a metà e con la poca delicatezza che la vita le aveva insegnato, l’aveva schiacciata contro la sua gamba piccola.

Tiè a nonna, co’ questa non viene manco la bolla.

Quell’intervento rapido non aveva impedito certo alla pelle di gonfiarsi di liquido vischioso e trasparente, ma era stato sufficiente a lenire il dolore dell’ustione e a farla sentire di nuovo al sicuro. Poi le bende e le giustificazioni non richieste ma comunque date alla madre una volta tornata dal lavoro; – fa vede’? n’è niente; così suonava il leitmotiv sbrigativo e pratico con cui si cresceva in famiglie come la sua, senza dubbio forgiati ma anche incapaci di concedersi la possibilità del dolore, perché tutto passerà e tutto potrebbe andare peggio di così.

Sono le cinque del pomeriggio ed ecco che il Nonno torna puntuale, ogni giorno lo stesso copione: ancora sporco di vernice bianca, un saluto veloce alla moglie e se Nina sta guardando un cartone animato lui va da lei e cambia canale. Nonostante i pianti della bambina e le rimostranze della nonna, nonostante voglia bene a quella prima nipote che si chiama come sua madre, lui alle 17:15 deve vedere il film western. Quando rientra a casa lui finiscono i giochi e tutto odora di tabacco, lui vuole godersi il meritato riposo, perso fino all’ora di cena in storie ambientate tra cavalli, polvere e praterie. Sempre avvolto dallo stesso silenzio disinteressato e fumoso, senza mai guardarsi intorno.

Poi in un pomeriggio che nessuno ricorderà arriva per Nina il momento di andare a catechismo da sola. Una sola strada da attraversare al semaforo, quando le hanno spiegato come fare ha ascoltato con attenzione, poi sempre dritta attraverso la piazza e il fresco dei locali della parrocchia che odorano di incenso e legno, l’avrebbero accolta e fatta sentire al sicuro. Ma prima il rituale dell’essere pettinata: la nonna si asciuga le mani sul grembiule e con decisione le prende il volto piccolo in una morsa inutilmente forte n’ave’ paura a nonna ma bisogna spiccialli ‘sti capelli e con la spazzola prova ad ammansire quelli che, col tempo e lasciati liberi di essere, si riveleranno dei ricci perfetti. 

Ciao Ni’, sta attenta a nonna.

 Le scale, il cortile del palazzo nel quale è vietato giocare, i gatti, il portiere, il portone, Roma. Gira l’angolo e ad aspettarla c’è il sole cocente e un uomo che non conosce. Nina prosegue ma lui le rivolge la parola. Lei capisce soltanto da sola, carina, attenta e riesce a dire soltanto nonna e casa. Non ricorda con quale velocità ma gira su se stessa, svolta nuovamente quell’angolo che l’ha esposta a tutto il male del mondo e torna indietro di corsa: il portone, il portiere, i gatti, il giardino in cui è vietato giocare, le scale, nonna. -’Ndo sta sto fio de na mignotta? dice la Nonna andando di corsa alla finestra e guardando fuori ma fuori non c’è nessuno.

Nessuno saprà dire come sia andata veramente quel giorno, Nina avrà in ricordo qualche frase tesa a sdrammatizzare l’accaduto, pronunciata senza troppa sicurezza, qualche ma sei sicura e un hai fatto bene a tornare indietro e così nel dubbio, aprirà un cassettino nella sua testa e ci chiuderà dentro la paura e quel pomeriggio in cui non andò a catechismo.

Molto di quello che imparerà Nina sulla vita, nasce proprio lì tra la cucina dai fornelli sempre occupati da un qualche sobbollire e la camera da pranzo, che dopo cena si trasforma in camera da letto per tre figli adolescenti, coi muri zeppi di fumo della pipa del nonno. Osserverà persone parlare tra loro, aspetterà con ansia che tornino i genitori dal lavoro e vedrà sua nonna non riposarsi mai e dimenticare pian piano come essere felice.

Lì spierà sua zia che fuma la prima sigaretta in bagno, ascolterà cento volte il vinile di Grease girare su un giradischi di sughero, correrà su e giù lungo il corridoio per riuscire a catturare con gli occhi piccoli lo stesso frame di Happy Days che il nonno vede da solo in camera da letto e il resto della famiglia in sala da pranzo, con la paura superstiziosa che se non dovesse riuscire a intercettare lo stesso istante della scena qualcuno morirà e non riuscirà quasi mai a farlo. Guarderà le zie studiare e litigare tra loro per chi deve lavare i piatti o, peggio ancora, per chi li lava meglio.

Lì, in quei cinquanta metri quadrati sempre assolati, Nina imparerà come fanno le persone a volersi bene e a sopravvivere a loro stesse, come sopportarsi e ignorarsi, a sbucciare i fagioli e a fare il soffritto, imparerà ad attendere i ritorni, a non lamentarsi mai troppo e a ridere di cuore ma soprattutto capirà che a volte, per salvarsi, occorre saltare fuori dalla strada che qualcuno con amore ha già tracciato per te.

Illustrazione di Clopine Malaussène

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Francesca Addei nasce a Roma e ci mette trentasei anni a lasciarla per andare a Berlino, dove vive ormai dal 2013 con un marito, un cane problematico, la vitamina D e diverse piante  tutte incredibilmente ancora vive.
Vorrebbe viaggiare più di quanto non faccia già.
Non ama descriversi, né parlare di sé in terza persona, di conseguenza la sua biografia termina qui.

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